Rispetto al lungometraggio d’esordio la vena narrativa, che già era piuttosto ridotta all’osso, viene pressoché eliminata, bene, è quello che sempre desidero da umile spettatore. Per fornire delle coordinate orientative il regista coglie un gruppetto di lavoratori che in un momento di pausa discorre sui pericoli (anche soprannaturali) che si annidano nella miniera, non ci sarebbe nulla di strano se non che le voci degli uomini paiono precedentemente registrate e solo in seguito inserite sopra il materiale girato, è un’inezia però è sufficiente a sortire un effetto, un mood, un’impressione dislocante. E la cosa prosegue anche durante la scena del soccorrimento fino a che le parole lasciano il posto ad una specie di distorsione elettrica che accompagna con solennità l’ipotetica uscita dai claustrofobici corridoi (che ad ogni modo non avverrà, i quattro più il moribondo spariscono nel chiarore abbacinante del giorno, noi ci fermeremo un bel po’ di metri prima), be’: niente male. Anche perché poi è servito il controfinale: a prescindere dal ladro e dall’incidente, il lavoro continua, tra trivelle idrauliche, pesanti carrelli da spingere e un frastuono infernale.
sabato 30 settembre 2023
Juku
venerdì 29 settembre 2023
Mister Universo
Certo è che la pellicola in oggetto, al pari delle altre firmate da Covi & Frimmel, facendosi portavoce di una storia minima, risulta avere una piccola statura, e come in tutte le cose che sono piccole spesso delle fragilità ne minano l’integrità. Quando Mister Universo imbocca la strada finzionale emerge qua e là un’ingessatura che non è mai facile rimuovere, e ciò accade sempre in contesti del genere così ibridi, in particolar modo durante le interazioni tra gli “attori” dove anche la più alta percentuale di estemporaneità non può fare a meno di venire intaccata da un canovaccio preparatorio studiato a tavolino. Cito ad esempio l’incontro tra Tairo e Mr. Robin che cozza con l’impianto generale, troppo forzato e poco naturale. Vabbè, se si riesce ad aggirare tale scoglio (massì, suvvia ci siamo dovuti sorbire ben di peggio nella nostra carriera spettatoriale), il film ha energia sufficiente per condurci alla conclusione perché è vero che gli oggetti piccoli prestano facilmente il fianco a dei difetti, però è altrettanto vero che possiedono una forza inspiegabile e che sanno darci del tu senza chiedere grandi sacrifici in cambio, se non, al massimo, restare seduti neanche novanta minuti di fronte ad uno schermo. Nel cosmo della settima arte, popolata da infiniti corpi celesti dalle forme più varie, quello di Tizza e Rainer, pur non essendo una supernova, ha una sua luce portatrice di schiarore.
giovedì 28 settembre 2023
PhoeniXXX
E poi tra l’altro è anche fornito un breve quadro della Romania d’oggi (non che i grandi autori che questo Paese ha sfornato negli ultimi anni siano da meno, però una vocina che si aggiunge al coro male non fa) che stride con la Romania di ieri, il contrasto trova sintesi in Mona, figlia di agricoltori che vivono in campagna (il padre dice che quando c’era Ceaușescu le cose andavano meglio... e vabbè, tutto il mondo è paese), residente a Bucarest e impiegata in una sorta di studio dove si susseguono le dirette streaming. La domanda che ci si pone è: possibile che una giovane donna, per di più laureata, debba vendersi on line per mantenersi? E la domanda seguente è: possibile che la Romania non riesca ad offrire un’alternativa soddisfacente ad una persona in cerca di un impiego? Oppure non è che le motivazioni di Mona e di tutte le altre sue colleghe del mondo libere da una forma di coercizione siano da rinvenire in una comoda scorciatoia per avere del guadagno veloce, cospicuo e senza fatica? Non è che, se si rimboccasse davvero le maniche, riuscirebbe a conquistare un impiego “normale” che le permetterebbe di rimanere con la figlia alla notte e di non lasciarla con una baby sitter? Una risposta non esclude l’altra, la tematica è complessa e non liquidabile nello stringato commento di un altrettanto stringato documentario, tuttavia se PhoeniXXX ha fatto in modo che ci ponessimo quesiti del genere allora qualcosa da dirci ce l’ha.
mercoledì 27 settembre 2023
The Crying Conch
Ho la convinzione di non possedere dei possibili riferimenti extra perché la storia, dagli echi cristologici, ha un’essenza quasi parabolica che avanza di episodio in episodio lasciando l’impressione di seguire un canovaccio già scritto da qualcun altro. Si parte con un’immagine ad effetto dove il protagonista nudo emerge dalle acque e da lì comincia il suo cammino. Incontra una sorta di sciamano, arriva in un villaggio, incrocia lo sguardo di una donna con la quale si unirà carnalmente, lavora in un cantiere, aiuta una levatrice durante un parto, osserva degli uomini che sgozzano una capretta, perde dei soldi giocando d’azzardo, vede la sua amante flirtare con il capomastro e in un raptus di rabbia lo prende a pietrate, scappa e si infila in un corteo festante per poi ritornare definitivamente all’acqua. Magari il violento gesto compiuto nei confronti del capo è un rimando alla sovversione del potere (sebbene la scena in questione mi sia risultata la maggiormente forzata dell’opera), ma il movente è essenzialmente legato alla gelosia e non a principi rivoluzionari, quindi non saprei, e non sapendo sono moderatamente contento, qualche aggiustamento qui, qualche limatura là, ed ecco un nuovo filmmaker su cui puntare gli occhi.
martedì 26 settembre 2023
Un Film Dramatique
Nello sfaccettato flusso di immagini dove ad ogni modo Baudelaire mantiene una percentuale di paternità (la maggioranza delle riprese scolastiche sono girate da lui), siamo spettatori di tanti eterogenei approcci messi in campo dai giovani filmmaker in erba, una dimensione ludica non viene mai meno perché l’attrezzo che maneggiano è pur sempre una novità, una modalità di vedere (e far vedere) il mondo agli altri, ma anche nell’amatorialità non manca una presa abbastanza profonda e abbastanza intima, magari involontaria, però presente, tangibile, che si riflette nella foto di un nonno appesa alla parete o in una video-confessione che non si riesce a fare perché... perché è così, e basta. Le uniche sbavature che non hanno pienamente incontrato i miei desideri si situano in alcune sequenze dove i ragazzi seduti intorno ad un tavolo discutono su questioni “da adulti” come il terrorismo, il razzismo (i componenti della classe protagonista hanno tutti origini extra-europee) e la politica, non discuto tale scelta che nell’economia filmica è anche fruttuosa visto che come spesso accade le parole dei bambini stupiscono per trasparenza e lucidità di pensiero, brontolo soltanto perché è un escamotage non troppo innovativo (penso a Silvano Agosti) che sta un passo indietro rispetto all’emancipazione esibita dai filmati degli alunni. Un Film Dramatique è uno di quei lavori di cervello che non puntano all’emozione superficiale, però se ascolti attentamente, ecco, sì, se tendi l’orecchio un tump tump regolare lo senti pure.
lunedì 25 settembre 2023
L’osservatorio nucleare del sig. Nanof
Ammantato da una nebbiolina metafisica che pare sfiatare via da una pellicola di Tarkovskij, L’osservatorio... ha questa qualità di smarcarsi dal banale ritrattismo per inquadrare la “cosa-Nannetti” da un’angolazione che a distanza di oltre tre decadi sa ancora essere efficace perché non si pone in una posizione interpretativa ma si appaia alla materia sotto esame, non ha la supponenza di voler e dover comprendere tutto ad ogni costo, preferisce galleggiare nel criptico limbo dal quale si abbevera, il risultato è un incrementarsi di interrogativi piuttosto che una ricezione di risposte, il che, ne converrete, è molto più stimolante. E poi Rosa, concedendogli delle sbavature ravvisate essenzialmente dal nostro essere spettatori moderni (ad esempio il doppiaggio è molto legnoso), dimostra un tatto autoriale da premiare grazie ad una miscela di registri che vanno dalla fiction al documentario con breccia su un filmato d’archivio che ipotizzo rarissimo. In generale, comunque, la sensazione è quella di scivolare in un dedalo audiovisivo che ben rappresenta la clandestinità di una mente ai margini di ciò che conosciamo. La vetta è una lunga sequenza ambientata nell’ospedale abbandonato dove un’eccellente progressione musicale sottolinea il rincorrersi di A e di B, di due fantasmi, di Nannetti e se stesso.
Qui uno splendido articolo sull’argomento.
sabato 23 settembre 2023
L’impossible - Pages arrachées
Doveroso porre l’accento sullo scarto che si consuma sullo schermo tra la parte dei migranti e la successiva cronaca-verità nella capitale. È una dissonanza portentosa: il ritratto sulla migrazione è girato in super 8, le immagini sono rovinate, bruciate e soprattutto totalmente prive di sonoro. È una realtà ammutolente che sembra giungere da un altro tempo quando invece è proprio il nostro di tempo che George va ad immortalare. La chiusura sul ragazzo afghano ucciso prima di poter attraversare la Manica è la pietra tombale che ci meritiamo, al pari dello scontro audiovisivo che ne consegue: la duplice e repentina immissione dei suoni in presa diretta e la scelta di una cromatura metallica che scintilla in un tanto nero e poco bianco, catapultano lo spettatore nelle trincee urbane, nella confusione, nella paura, nelle brutali cariche della polizia. È un cambio di prospettive micidiale che annienta e al contempo rafforza il segmento iniziale e che mi fa pensare a chi, nel panorama autoriale odierno, possiede non dico la medesima capacità di stare dentro la Storia e la politica (qui il bersaglio è Sárközy), ma perlomeno di avvicinarcisi e francamente non riesco a portare nessun altro esempio, per cui preserviamo la settima arte di Sylvain George, ne va della nostra coscienza e della nostra civiltà.
venerdì 22 settembre 2023
À l’entrée de la nuit
Voglio tessere apertamente le lodi a questo cinema-sentinella, alla sua postazione di frontiera, non d’avanguardia, quello no, ma comunque molto oltre e molto più avanti di innumerevoli esemplari che non ci provano nemmeno a rischiare. Mi è piaciuta parecchio la tripartizione di Bialas perché è riuscito sfaccettare una precisa situazione senza ricorrere né a banali collegamenti né all’ovvietà di certe scritture, e ho parimenti apprezzato il senso di unità che il film riesce ad esprimere. Il fare-un-film-suoi-migranti può trasformarsi in un terreno assai scivoloso (Gianfranco Rosi ha preso una bella schienata con Fuocoammare, 2016), o ti chiami Sylvain George oppure ci puoi provare con risultati oscillanti (vedi un vertice come Naufragio [2010] o il perfezionabile The Last of Us, 2016), À l’entrée de la nuit, seppur nei venti minuti di cui dispone, è un alto compromesso tra artisticità e concretezza, una validissima e innovativa angolazione da dove provare a comprendere meglio il fenomeno (quanto è orribile questa parola...) dell’immigrazione senza perdere di vista le moderne coordinate autoriali capaci di rendere una produzione breve la breccia che si apre su una bellezza vergine e ammaliante.
mercoledì 20 settembre 2023
Just Don't Think I'll Scream
E tutto ciò va ad assembrarsi sotto la grande cupola che ogni cosa contiene: il cinema. Non apprezzo granché il termine “cinefilo” perché fatico a comprendere i gradi che si necessitano per potersene insignire, uno che guarda miriadi di film è un cinefilo? Se sì, di quali tipologie di film parliamo? Blockbuster? Cinema d’essai? Sperimentale? Se no, è sufficiente vedere un numero contenuto di opere ma studiarle a fondo con la disciplina di un filologo? Beauvais fornisce la sua versione: tra aprile e ottobre 2016 ha visionato oltre quattrocento pellicole per un solo ed unico motivo: perché stava male. Ecco allora che si schiude il tratto maggiormente fertile di Just Don’t Think... perché scocca un interrogativo verso un nucleo fondante, il punto è che Beauvais potrebbe essere tranquillamente io che scrivo o tu che stai leggendo, pur con le differenze del caso, chi non ha trovato nel cinema un caldo rifugio dove poter ripulirsi dalle impurità che ci circondano? Chi non ha sognato, pianto, patito e via dicendo al cospetto di una qualche sequenza da pelle d’oca così bella da sentirla parte di sé e di nessun altro? Chi non ha studiato, chi non si è formato, chi non è cresciuto approfondendo un autore o un movimento? A domande di tal fatta viene automatico rispondere che il cinema è La cura, e stop. Però il titolo in questione è abile a suggerire la nemesi, perché la settima arte è anche una malattia, una dipendenza patologica, un bisogno insensato di abbuffarsi di visioni rinchiudendosi in un mondo illusorio perdendo di vista il bene quotidiano. Dove sia la cosiddetta retta via non lo so, forse la scelta finale di Beauvais è il modo migliore per ricominciare, lasciarsi alle spalle un limbo di ossessioni, di download, di solitudine, di masturbazioni, e aprire un nuovo capitolo.
martedì 19 settembre 2023
Afternoon
Il discorso pare avere una certa spontaneità e per almeno tre quarti si sviluppa intorno ad un solo argomento: Kang-sheng. Non avevo mai sentito un atto di amore così limpido e viscerale di un regista nei confronti di un proprio attore, mai, perché è di ciò che si tratta: di amore, e Afternoon, se lo si vorrà ricordare in futuro, sarà perché dice al mondo intero che tipo di relazione sussiste tra queste due persone, le parole di Tsai potrebbero essere proferite da un padre, da un fratello o da un amante, è un’ammirazione totale che stupisce perché data la stazza dell’autore in questione era ipotizzabile che fosse Lee a venerare il diretto interessato e non viceversa. È una manifestazione d’affetto molto bella che oltre a mostrare un lato umano finora tenuto all’oscuro, aiuta a comprendere un modo di fare cinema tra i più coerenti della nostra epoca (almeno all’Anno Domini 2013), ovvero che se si è capaci di andare oltre le infinite sequenze mute, la procrastinazione degli stacchi del montaggio e i ripetuti ritratti di nera solitudine, ci sono dei sentimenti veri in gioco, un po’ il corrispettivo di Afternoon, un documentario privo di movimenti di camera (abbiamo solo due tagli se ho ben contato), inchiodato in una scenografia diroccata, respingente per via di una struttura lontana universi dai normali standard, che comunque rivela di possedere un grande cuore pieno di emozioni, paure, ricordi (“quale è il Paese visitato che preferisci?”) e riflessioni che esulano dalla settima arte. Sicuramente un’opera digeribile solo da chi ha il patentino tsaiano, può essere un limite, ok, però è ancora più limitante non conoscere l’eredità artistica che lascerà ai posteri.
Per completezza segnalo che nel 2016 anche Lee darà la sua versione dei fatti con Single Belief, un cortometraggio più rivolto verso se stesso, verso il ruolo attoriale ricoperto e meno votato alla nostalgia, all’introspezione, ma il link con Na ri xia wu esiste e va a formare un dittico da prendere in considerazione.
lunedì 18 settembre 2023
Parabéns!
Tre anni prima del debutto nel lungo Il fantasma (2000) João Pedro Rodrigues dà alla luce questo micro episodio casalingo che anticipa uno dei temi portanti della filmografia del portoghese, ovvero l’autorializzazione di un cinema queer che nel prosieguo della carriera toccherà vette importanti. In Parabéns! (1997), e forse è fin scontato dirlo, non siamo in una fase embrionale: di più: sono proprio gli albori della visione artistica di Rodrigues e a parte il topic dell’omosessualità chi scrive non ha scorto ulteriori segnali di uno stile ricorsivo. Anzi, nell’appartamento di Chico (è un imberbe João Rui Guerra da Mata, l’amico/collega di sempre) tira un’aria quasi da commedia sentimentale dove si ha una netta distinzione dei ruoli tra l’uomo adulto e quello giovane, è quest’ultimo a sprigionare un’energia e una vitalità che si diffondono sullo schermo in aperto contrasto con la compostezza dell’architetto. Osserviamo un João impertinente girovagare per la casa invadendo con spensieratezza la privacy del proprietario (scena della doccia e dell’apertura del cassetto) al punto che l’intromissione diviene un’invasione che forse si certifica con i giochi insieme al gatto e alla sorta di sostituzione che si realizza (l’immagine del micio ritornerà d’improvviso esattamente due decadi dopo in Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues?, 2017), anche se i due “sono solo una scopata”, parrebbe che al regista interessi cogliere quella parvenza di intimità subordinata all’immediata carnalità (vedi il finale) che si crea tra due pressoché sconosciuti, una relazione probabilmente senza prospettive da vivere lì, d’istinto, sul pavimento di una cucina.
Ok, film non indispensabile e parecchio acerbo, ma vuoi mettere quanto fa figo andare in giro dicendo che tu, di Rodrigues, hai visto praticamente tutto?
domenica 17 settembre 2023
Also Known as Jihadi
La base teorica di Also Known as Jihadi ci obbliga però a cucire tutte le varie porzioni contemplative con il dispositivo descrittivo adagiato sulla fredda burocrazia. Di nuovo con estrema semplicità vengono fatti scorrere in video i documenti processuali a carico di Abdel, si tratta proprio di scansioni degli incartamenti stilati dalla polizia e dagli altri organi coinvolti nel caso riguardanti perizie psichiatriche, verbali e trascrizioni di conversazioni telefoniche. Accostando e incastrando l’oggettività dei fascicoli investigativi con la realtà concreta dei luoghi immortalati, ne esce fuori un’ innovativa (e lo affermo senza conoscere Adachi) scrittura di un profilo umano appartenente alla finestra storica che stiamo vivendo, un dossier che trova equilibrio collocandosi a metà via tra un sistema televisivo ed uno artistico. Di righe o vistose ammaccature sulla carrozzeria di Baudelaire non ne ho ravvisate, ovvio che non si sta parlando di un lavoro in grado di scaldare gli animi dello spettatore, non può, a causa di una natura che si pone in maniera asciutta e scarna, e probabilmente non deve farlo, però va rimarcato, se mai ce ne fosse bisogno, l’eventualità che il cinema di Baudelaire assume, in particolare nell’esplorazione (/esplosione) del modello documentaristico, ormai divenuto un campo di ricerca che garantisce ampia libertà espositiva e creativa, è la scoperta dell’acqua calda visto che le avanguardie operano nel settore da decenni ma è sempre bene ricordarlo quando si parla di autorialità, altrimenti il finale significativo di Also Known as Jihadi che è realmente una possibile conclusione della vicenda rischierebbe di passare troppo in sordina.
sabato 16 settembre 2023
Noite Escura
Ci ho pensato su e sono arrivato alla conclusione che Noite Escura difetta nella progressione che vorrebbe applicare al dramma. Le premesse noir non sono esaltanti con gli stereotipati mafiosi russi, le successive torsioni tramiche improntate ad evidenziare il marcio nel sistema, sia sociale che consanguineo, sta in piedi per la sua particolare eccentricità (il discorso ha un’eccezione negativa: quando si abbozza l’incesto, sequenza molto forzata che peggiora con il “fortuito” ingresso di Sonia), tuttavia una volta scese in campo le varie forze che cercano di mutare nel bene o nel male il destino della giovane cantante la pellicola si livella, cincischia tra il thriller e la soap-opera, e soprattutto non riesce a dare voce credibile all’accettazione del sacrificio da parte della figlia. Cioè, manca qualche passaggio razionale per cui la ragazza, dapprima convinta a diventare una star della musica spagnola, poi messa ripetutamente in guardia da Carla sul pericoloso futuro che l’attenderebbe via da lì, ad un certo punto decide di far saltare il piano di fuga ideato dalla sorella acconsentendo di essere “presa” dai malavitosi. Se lo fa per salvare il culo al padre non se ne capisce il motivo dato che l’uomo non pare farsi grandi scrupoli nei suoi confronti, allora sarebbe stato più coerente che avesse seguito il consiglio della sorella che pare davvero tenere a lei. Dovunque si situi il possibile senso, il nodo della faccenda è che quando in un film la sceneggiatura ha un peso rimarchevole il rischio è che certe dinamiche seguano delle evoluzioni (o involuzioni?) pensate per assoggettarsi a regole ingabbianti. E questo ci collega dritti dritti alla chiusura scelta da Canijo, a pensar male parrebbe che a prescindere dagli eventi nel club, Sonia sarebbe comunque salita sulla macchina scura, perché? Perché era necessario giungere ad un climax funereo qui tradotto in una sparatoria con accentuata coda cruenta. Se fino a quel momento gli strappi violenti reggevano per la loro essenza stralunata, l’ultima carneficina, così greve ed enfatica, non ci stava per niente, un atto di conformazione a certi modelli cinematografici che è l’opposto della libertà creativa desiderata dal sottoscritto.
venerdì 15 settembre 2023
Normal
Poco da aggiungere inoltre sul concetto di normalità che fornisce il titolo. Relativizzando la situazione, ciò che è normale per il papà, ossia obbligare il proprio figlio a fare il militare azzoppando i suoi sogni scolastici, e quindi di riflesso per la società, non è altrettanto normale per il ragazzo che invece vorrebbe proseguire gli studi in un college in città. Come andrà a finire ce lo mostra Borodin nell’ultima scena casalinga intorno al tavolo che magari esprimerà anche un senso di ragionevole chiusura (data la pochezza che l’ha preceduta vince facile), ma che non riabilita sicuramente un film troppo semplice per le necessità di chi sta scrivendo. Vi basti pensare che Normal non dura neanche venti minuti eppure questo breve lasso di tempo l’ho percepito come triplicato. Incomprensibilmente selezionato nella Semaine de la Critique del 2018, per la serie: non oso immaginare come erano gli esclusi...
giovedì 14 settembre 2023
El mar la mar
martedì 12 settembre 2023
The Hidden City
La concettualità che regola The Hidden City è, per fare due nomi di peso, la stessa che sta dietro a Leviathan (2012) o Dead Slow Ahead (2015). Il metodo di Moreno si costituisce nella registrazione di una realtà che, permettetemelo, è quella che è senza scappatoie, nello specifico è la rete sotterranea di una grande città europea, punto, non ci sono altre chiacchiere da fare. Poi sì, in post-produzione sono stati opportunamente miscelati taluni elementi per accentuare l’impatto su chi assiste, però la materia lavorata rimane altamente riconoscibile e concreta. Eppure chiunque si avvicinerà al film in esame non potrà mai affermare che esso si esaurisce nella sua componente illustrativa. L’oltre che si spalanca, ben più accattivante della catalogazione dei dati, ha a che fare con la percezione, quindi con l’invisibile. Perché qui, in un documentario, galleggiano, come quegli esseri diafani del brodo primordiale nei titoli di coda, suggestioni filmiche che esulano dall’etichetta di riferimento. La fantascienza (gli “astronauti” dell’incipit), l’horror (la sequenza da mockumentary nel condotto con gli scarafaggi) e altre categorie che orbitano nella galassia del perturbante bussano alle porte del nostro sentire. Probabilmente ad un tale gioco di riflessi nessuno dà particolare importanza, ciononostante un’enorme potenzialità del cinema si rintraccia esattamente nella capacità di trasmettere sensazioni, impressioni, mondi, senza ricorrere ai consueti algoritmi produttivi. È una roba meravigliosa che ci fa capire di come già nel reale sia contenuta ogni possibile narrazione, tolto il superfluo si resta abbagliati dalla prismaticità di una pietra solo apparentemente semplice.
¡Muchas gracias Dries!
lunedì 11 settembre 2023
Tungrus
domenica 10 settembre 2023
The Bloody Child
Ho citato la sorella di Nina, Tinka, la quale oltre ad essere una degli ufficiali in postazione di controllo nonché protagonista di un breve brandello casalingo con il proprio compagno, è anche soggetto completamente estraneo al girato vestendo panni di difficile interpretazione: la vediamo come una sorta di ninfa nuda nel mezzo del bosco che si tagliuzza il braccio oppure con un trucco pesante insieme ad un ragazzino di colore, mentre fuori campo si accavallano delle voci infantili al limite del comprensibile. Sconquassati e provati realizziamo che il lavoro compiuto in fase di montaggio è fondamentale nel dare una significazione al film, e trattandosi di una messa in serie oltremodo scombinante succede che non si può ricorrere ad una chiave razionale che faccia da collante, c’è necessità di valicare il confine della concretezza per allinearsi alle frequenze invisibili emanate dalla strega-Menkes. Un aspetto risaltato dai commenti in Rete riguarda la bravura della regista nell’aver affrontato il tema della violenza (nell’ambito delle forze armate, il che spalanca ulteriori scenari) con un approccio a dir poco singolare, ciò è vero al pari del fatto che questa è comunque soltanto la superficie, The Bloody Child è un catino in ebollizione infiammato da frustate che fanno il loro (adesso ho capito da dove veniva quel cavallo in Dissolution, 2010), ostinato nel demandare il senso in un altrove (ad ogni modo, alla fine, i fatti sono all’incirca ricostruibili), meriterebbe un restauro estetico perché anche visivamente dice la sua (vedi il prologo e l’epilogo desertici e crepuscolari). Gran temperamento artistico questa Menkes, un recupero da chi ne sa in materia sarebbe doveroso.
sabato 9 settembre 2023
The Ugly One
L’evento centrale sembrerebbe essere un attentato terroristico che è stato, che non è stato, che forse sarà. Nel mezzo, da qualche parte, anche la ricorsiva assenza di una bambina di nome Elena, e al contempo: Michel e Lili, coppia gravitazionale un po’ in crisi (del resto parlano due lingue diverse) un po’ no, ammantati da un velo di falsificazione, obbligati a ricoprire ruoli decisi dai due demiurghi, tritati dall’irregolare flusso di eventi che li vede effettuare un nuovo primo incontro. Vista l’importanza che i fidanzati hanno nel film mi sono chiesto chi fossero, se dei terroristi rivoluzionari o semplicemente un uomo e una donna che all’interno del sistema artificiale piazzano un ulteriore strato di fiction, e, con dispiacere, non ho trovato una risposta. A naso intuisco che la figura di Masao Adachi va ben oltre l’aspetto realizzativo, potrebbe esserci della biografia (d’altronde Baudelaire lo ammira oltremodo avendogli dedicato anche il lavoro preparatorio The Anabasis of May and Fusako Shigenobu, Masao Adachi and 27 Years Without Images, 2011), come c’è, con ben pochi dubbi, una riflessione sull’attuale situazione politica libanese (la sequenza della cena è in tal senso esplicativa) per la quale ben poco mi sento di aggiungere a causa della crassa ignoranza che ho in materia. Sommando tutti i vari elementi continuo a percepire, a distanza di qualche ora dalla visione, una sensazione di inefficacia dovuta ad un’elaborazione troppo celebrale, mi piace quando si spinge a livello teorico a patto però che vi siano benefici tangibili. Rimane la profonda incompetenza del sottoscritto sull’argomento, sicché non vi conviene prendere per oro colato le mie parole.
venerdì 8 settembre 2023
Ganhar a Vida
Un evento “nero”, una morte, un omicidio, tre dei quattro film che ho visto di João Canijo, chi più, chi meno, annoverano al loro interno un’accelerazione sanguinosa che diventa fulcro, centro da cui si dirama la narrazione. In Ganhar a Vida (2001) il fattaccio accade subito e quindi in maniera altrettanto rapida si acquisisce consapevolezza sul percorso personale studiato dal regista portoghese per la sua protagonista (ancora una volta Rita Blanco), un tragitto emotivo ma anche sociale che viene ripreso in un modo che non era di Filha da Mãe (1990) e che non sarà di Blood of My Blood (2011) o É o Amor (2013), il taglio è un ibrido tra un’impostazione abbastanza classica e la ricerca di un realismo che si esplicita in asfissianti sequenze con la mdp letteralmente appiccicata al volto degli attori, un procedimento che quasi trasforma il reale in iper ma che, al contempo, delinea un Canijo forse in transizione, non ancora votato ad un prosciugamento delle umidità finzionali in favore di un racconto capace di sgorgare dal concreto, dalla vita che scorre, si rimane un po’ in un limbo autoriale che si accusa per via del processo di precoce invecchiamento che spesso colpisce molti esemplari cinematografici, esteticamente un’opera di vent’anni fa, oggi, ci appare vecchia, questo è, poi sotto la scorza secca e amara si possono rintracciare dei segnali artistici che danno respiro al discorso del lusitano, nuovamente, infatti, spicca un’attenzione appositamente studiata verso i colori e quelli predominanti sono il rosso e il verde, i medesimi della bandiera del Portogallo (e visto che l’azione si svolge in Francia è un dettaglio che piace), vieppiù che un paio di geometrie negli interni abitativi confermano la tendenza a creare una simmetria visiva e divisiva dentro gli appartamenti e tra chi risiede in essi (non a caso, alla fine, la famiglia di Adelino si sgretola).
Sul piano della scrittura, dell’intreccio, delle scelte argomentative, Ganhar a Vida mi è parso altalenante. Il dolore di Cidália è l’asse portante della storia e ok, non si eccede né in patetismo gratuito né in registri bislacchi, è un lutto sommesso e contenuto che non entrerà nell’Olimpo del Cinema ma che risulta vedibile, a cascata le dinamiche famigliari si avvalgono dello stesso basso tenore, trattasi inoltre di nucleo allargato che si assembra in una casa piccola e angusta dove è difficile avere un briciolo di requie. Al di là dei rapporti consanguinei che per il sottoscritto sono sufficientemente oliati, Canijo affronta, alla larga, una sorta di impegno civile perché l’uccisione di Alvaro per mano di un poliziotto diviene una battaglia portata avanti da sua mamma che però manca di sprint, le immagini della protesta fuori dal commissariato hanno molta artificialità e poca veridicità. Sulla medesima lunghezza d’onda metterei il poco incisivo contorno criminale, appena accennato, leggermente confuso (che ruolo ha il tizio con la coppola?), non esplorato (atto voluto? Mah!), in subordine c’è lo snodo che meno mi ha convinto in assoluto, ovvero l’infatuazione tra Cidália e Orlando, una forzatura sceneggiaturiale sbrigata alla veloce che suggerisce a chiare lettere la proiezione affettiva della donna verso un ragazzo coetaneo del figlio scomparso, un escamotage utile solo per far scappare via il padre da Parigi. Neutra, invece, la decisione di inserire uno sguardo (digitale) nella diegesi, non aggiunge granché, se non la speranza di avere giustizia. Tuttavia la conclusione semina il dubbio che a Cidália, arrivata fin lì, non le importi più niente di nulla, tranne che scomparire.
giovedì 7 settembre 2023
Los Abducidos
Poi, all’incirca a metà proiezione, ecco una mossa che invece mi attendevo da Fernández Molero, nient’altro che uno smottamento interno, una riduzione in scala delle intermittenze di Reminiscencias (2010) e Videofilia: y otros síndromes virales (2015), in pratica succede che: le persone, uomini, donne e bambini, scompaiono in un lampo di suoni disturbati. Ci sarebbe da riflettere se tali repentine sparizioni possiedono una lettura “sociale”, se, in altri termini, i rapiti del titolo (o, in gergo ufologico, gli adotti) richiamano simbolicamente la concreta realtà odierna, del resto si potrebbe immaginare che i Machiguenga, al pari di molte altre micro-popolazioni in via d’estinzione, si stiano pian piano eclissando fagocitati da politiche aberranti, ma io questo non lo so con certezza, resta comunque l’impronta di un’idea interessante che assesta un discreto colpo quando col finale anche l’autore di fronte allo specchio, puff, si dissolve nel nulla. Al peruviano si rinnovano i complimenti, anche per un lavoro minore, la speranza di vederlo nuovamente alla direzione di un lungometraggio resta.
A margine segnalo un vecchio articolo scovato in Rete (link) dove è pubblicato uno scambio di mail tra il comitato tecnico di un concorso di cortometraggi che compie delle osservazioni ridicole su Los Abducidos e l’annessa risposta di Juan Daniel.