sabato 30 settembre 2023

Juku

Ed ecco il predecessore di Viejo calavera (2016), anche Juku (2011), infatti, ha come set principale (e qui è pure l’unico visto che non ci sono riprese esterne) l’oscurità di una miniera che si trova a Huanuni, una città boliviana situata ad un’altitudine di circa quattromila metri sul livello del mare. Il titolo si riferisce ad una parola che nella lingua locale identifica i “mine thieves”, ovvero uomini che nottetempo entrano nella cava per rubare ciò che riescono, e il corto inizia proprio così: un pannello nero si squarcia e una luce avanza verso di noi rivelando le pareti rocciose del giacimento, è uno juku che in fretta e furia piccona delle pietre e se le infila nello zaino per poi sparire da dove è venuto, nelle tenebre. È un incipit di tutto rispetto che suggerisce la sfida raccolta da Kiro Russo, quella di fare cinema in un luogo a dir poco angusto senza illuminazioni artificiali, le uniche fonti luminose che permettono di vedere quanto accade nel film sono le pile poste sui caschi dei minatori. Se si vuole tirare in ballo l’atmosfera, questa entità non tangibile che tanto suggestiona, allora Juku ha le credenziali per poter sostenere di averla, sì, l’ambientazione fa molto (se non -issimo), ma comunque Russo è abile nel farci digerire la situazione senza particolari forzature aderendo il più possibile alla realtà circostante, solo la scelta di apporre una sorta di costante riverbero musicale sulle immagini potrebbe dare adito a piccoli dubbi, tuttavia nel complesso l’equilibrio raggiunto mi è parso piuttosto stabile e credibile.

Rispetto al lungometraggio d’esordio la vena narrativa, che già era piuttosto ridotta all’osso, viene pressoché eliminata, bene, è quello che sempre desidero da umile spettatore. Per fornire delle coordinate orientative il regista coglie un gruppetto di lavoratori che in un momento di pausa discorre sui pericoli (anche soprannaturali) che si annidano nella miniera, non ci sarebbe nulla di strano se non che le voci degli uomini paiono precedentemente registrate e solo in seguito inserite sopra il materiale girato, è un’inezia però è sufficiente a sortire un effetto, un mood, un’impressione dislocante. E la cosa prosegue anche durante la scena del soccorrimento fino a che le parole lasciano il posto ad una specie di distorsione elettrica che accompagna con solennità l’ipotetica uscita dai claustrofobici corridoi (che ad ogni modo non avverrà, i quattro più il moribondo spariscono nel chiarore abbacinante del giorno, noi ci fermeremo un bel po’ di metri prima), be’: niente male. Anche perché poi è servito il controfinale: a prescindere dal ladro e dall’incidente, il lavoro continua, tra trivelle idrauliche, pesanti carrelli da spingere e un frastuono infernale.

venerdì 29 settembre 2023

Mister Universo

Tizza Covi e Rainer Frimmel proseguono la loro esplorazione di un mondo ormai in via di estinzione: il circo, per farlo ritornano negli stessi luoghi di Non è ancora domani (La pivellina) (2009) concentrandosi sulla figura di Tairo Caroli, un domatore di leoni, alla ricerca del forzuto Arthur Robin che anni addietro gli diede in dono un portafortuna ora smarrito. Il registro del duo italo-austriaco è come di consueto un abbraccio della realtà catturata con pochi filtri, l’essenza del film si muove tra il confine dell’impostazione e quello dell’improvvisazione senza dare la possibilità a chi guarda di riconoscere agevolmente le due istanze, succede che in certi frangenti sembra di assistere ad un documentario mentre in talaltri ad un’opera di fiction, questa indeterminatezza è un asse portante nel cinema della coppia (ricordo identiche caratteristiche anche per The Shine of Day, 2012), non sarà il top dell’innovazione ma non è nemmeno poi così male. Il focus su Tairo permette di accedere nel mondo circense da diverse porte, tutte che conducono in stanze/tematiche degne di attenzione; l’inquietudine del ragazzo, specchio di una precaria situazione lavorativa, è il motore della vicenda dispiegata in una “caccia all’uomo” che si rivela una caccia verso se stesso, del resto Mister Universo (2016) potrebbe anche essere inteso come un racconto di formazione che enuclea un percorso di crescita personale, di cambiamento: parallelo di un circo che per forza di cose non può essere lo stesso del passato. Inoltre è carina la costellazione famigliare che il protagonista nel suo tragitto va a visitare, case-roulotte, nomi esotici, vite gitane che sfioriamo insieme a lui nello spazio di un caffè o una sigaretta, e poi i residui della tradizione, la superstizione, i tarocchi, gli amuleti, un’enciclopedia che arriva in punta di piedi ma che arriva.

Certo è che la pellicola in oggetto, al pari delle altre firmate da Covi & Frimmel, facendosi portavoce di una storia minima, risulta avere una piccola statura, e come in tutte le cose che sono piccole spesso delle fragilità ne minano l’integrità. Quando Mister Universo imbocca la strada finzionale emerge qua e là un’ingessatura che non è mai facile rimuovere, e ciò accade sempre in contesti del genere così ibridi, in particolar modo durante le interazioni tra gli “attori” dove anche la più alta percentuale di estemporaneità non può fare a meno di venire intaccata da un canovaccio preparatorio studiato a tavolino. Cito ad esempio l’incontro tra Tairo e Mr. Robin che cozza con l’impianto generale, troppo forzato e poco naturale. Vabbè, se si riesce ad aggirare tale scoglio (massì, suvvia ci siamo dovuti sorbire ben di peggio nella nostra carriera spettatoriale), il film ha energia sufficiente per condurci alla conclusione perché è vero che gli oggetti piccoli prestano facilmente il fianco a dei difetti, però è altrettanto vero che possiedono una forza inspiegabile e che sanno darci del tu senza chiedere grandi sacrifici in cambio, se non, al massimo, restare seduti neanche novanta minuti di fronte ad uno schermo. Nel cosmo della settima arte, popolata da infiniti corpi celesti dalle forme più varie, quello di Tizza e Rainer, pur non essendo una supernova, ha una sua luce portatrice di schiarore.

giovedì 28 settembre 2023

PhoeniXXX

PhoeniXXX (2017) è un documentario che si occupa di una narrazione odierna, dei cosiddetti “nostri tempi”, perché, banalmente, non sarebbe potuta essere mai di altri, infatti sebbene l’argomento trattato orbiti nella galassia del sex work, il regista Mihai Dragolea si interessa di una nicchia specifica, quella delle live webcam come Chaturbate, LiveJasmin, Camsoda e via dicendo. In pratica viene mostrata l’esistenza di un paio di ragazze che hanno deciso di intraprendere questo tipo di professione, come era abbastanza pronosticabile tenere in equilibrio la vita privata con quella lavorativa non è facile, soprattutto se, come una delle protagoniste, si ha una figlia piccola, tuttavia, sempre con un discreto margine di prevedibilità, il fatto di riuscire a portare a casa il pane quotidiano anestetizza i dubbi morali. Da un angolo di visuale sociologico sarebbe interessante analizzare anche il ruolo della controparte, ossia i clienti che stanno al di qua dello schermo, coloro che pagano per ottenere in cambio un godimento virtuale o comunque filtrato dall’insormontabile barriera dell’etere, ma PhoeniXXX, dato anche il minutaggio ridotto, non ha la capacità di uno sguardo così ampio per cui si limita a captare quello che riesce a riprendere. Parliamo di un lavoro routinario firmato da un regista che probabilmente è ancora all’inizio della carriera, pertanto saprete intuire in anticipo i limiti rintracciabili, però mettermi qui ad additarli pare fiato sprecato, a volte verso titoletti che trasudano onestà non ce la si fa ad essere cattivi.

E poi tra l’altro è anche fornito un breve quadro della Romania d’oggi (non che i grandi autori che questo Paese ha sfornato negli ultimi anni siano da meno, però una vocina che si aggiunge al coro male non fa) che stride con la Romania di ieri, il contrasto trova sintesi in Mona, figlia di agricoltori che vivono in campagna (il padre dice che quando c’era Ceaușescu le cose andavano meglio... e vabbè, tutto il mondo è paese), residente a Bucarest e impiegata in una sorta di studio dove si susseguono le dirette streaming. La domanda che ci si pone è: possibile che una giovane donna, per di più laureata, debba vendersi on line per mantenersi? E la domanda seguente è: possibile che la Romania non riesca ad offrire un’alternativa soddisfacente ad una persona in cerca di un impiego? Oppure non è che le motivazioni di Mona e di tutte le altre sue colleghe del mondo libere da una forma di coercizione siano da rinvenire in una comoda scorciatoia per avere del guadagno veloce, cospicuo e senza fatica? Non è che, se si rimboccasse davvero le maniche, riuscirebbe a conquistare un impiego “normale” che le permetterebbe di rimanere con la figlia alla notte e di non lasciarla con una baby sitter? Una risposta non esclude l’altra, la tematica è complessa e non liquidabile nello stringato commento di un altrettanto stringato documentario, tuttavia se PhoeniXXX ha fatto in modo che ci ponessimo quesiti del genere allora qualcosa da dirci ce l’ha.

mercoledì 27 settembre 2023

The Crying Conch

Un regista nato alle Mauritius (ma trasferitosi all’età di diciannove anni in Canada per studiare cinema) scrive e dirige un cortometraggio che si occupa di François Mackandal, uno schiavo di origini africane che fomentò una serie di sommosse contro i padroni francesi verso la metà del ’700. Be’, di sicuro a Vincent Toi non gli si può negare di proporre una multiculturalità che si riflette anche nella sua biografia, come altrettanto certamente è piuttosto facile essere sedotti da un lavoro come The Crying Conch (2017), cioè la cornice haitiana, così esotica e accattivante ha radici etnografiche che stuzzicano, in più aleggia fin dall’inizio (peraltro circolarmente connesso alla fine) una dose di astrazione che, data una situazione di similare indeterminatezza, ricorda un po’ Naufragio (2010) di Pedro Aguilera. Inoltre Toi crea un aggancio con il passato storico piazzando un uomo sulla spiaggia (forse per un qualche rito indecifrabile è proprio Mackandal in persona a parlarci) che accompagnato da un tambureggiare di bongo inquadra la faccenda come era un tempo, tutto in regola se non fosse che l’effettivo racconto che si sviluppa sullo schermo non ha un laccio concreto con la schiavitù nei Caraibi del diciottesimo secolo, eppure, attraverso quei capienti nonché sapienti processi che a volte si instaurano tra la settima arte e chi ne usufruisce, la sensazione di un collegamento attivo, al di là dell’evidenza geografica, il sottoscritto l’ha percepita.

Ho la convinzione di non possedere dei possibili riferimenti extra perché la storia, dagli echi cristologici, ha un’essenza quasi parabolica che avanza di episodio in episodio lasciando l’impressione di seguire un canovaccio già scritto da qualcun altro. Si parte con un’immagine ad effetto dove il protagonista nudo emerge dalle acque e da lì comincia il suo cammino. Incontra una sorta di sciamano, arriva in un villaggio, incrocia lo sguardo di una donna con la quale si unirà carnalmente, lavora in un cantiere, aiuta una levatrice durante un parto, osserva degli uomini che sgozzano una capretta, perde dei soldi giocando d’azzardo, vede la sua amante flirtare con il capomastro e in un raptus di rabbia lo prende a pietrate, scappa e si infila in un corteo festante per poi ritornare definitivamente all’acqua. Magari il violento gesto compiuto nei confronti del capo è un rimando alla sovversione del potere (sebbene la scena in questione mi sia risultata la maggiormente forzata dell’opera), ma il movente è essenzialmente legato alla gelosia e non a principi rivoluzionari, quindi non saprei, e non sapendo sono moderatamente contento, qualche aggiustamento qui, qualche limatura là, ed ecco un nuovo filmmaker su cui puntare gli occhi.

martedì 26 settembre 2023

Un Film Dramatique

Il progetto Un Film Dramatique (2019) è diverso dagli altri film fin qui visti di Éric Baudelaire così come essi stessi divergevano, bene o male, in un reciproco confronto: del substrato finzionale di The Ugly One (2013) non vi è traccia, l’interesse geopolitico di Letters to Max (2014) è praticamente assente, la trattazione di un argomento contemporaneo e stringente come per Also Known as Jihadi (2017) se c’è è parecchio flebile. È indubbio che si ha a che fare con un autore assai eclettico interessato in egual misura sia alle forme che ai contenuti. Per il film in esame parliamo forse del suo studio maggiormente teorico applicato alla materia, il contesto laboratoriale è una scuola media dei sobborghi parigini dove Baudelaire si è insediato per quattro anni avviando un percorso di pratica registica con alcuni degli studenti dell’Istituto. E proprio a loro chiederà all’inizio la domanda delle domande: di cosa deve occuparsi un’opera cinematografica? Ovviamente i ragazzetti forniscono i loro amabili punti di vista ma forse nessuna delle voci che udiamo su uno sfondo nero ha davvero preso coscienza di due aspetti: che il film li riguarderà da vicino, e che saranno in prima persona contemporaneamente al di qua e al di là della mdp. Il prezioso asse concettuale del documentario che incontra i favori del sottoscritto è dato da una libertà creativa e realizzativa che si fonda su un coraggioso principio, ovvero l’auto-esautorazione dal ruolo di regista che Baudelaire compie. Alla lontana è un po’ la medesima mossa attuata da Williams per Parsi (2019), affidare una videocamera a chi in linea ipotetica non avrebbe le credenziali per pigiare il tasto REC, si rivela una splendida dimostrazione di autonomia artistica che esemplifica un’idea romantica e bellissima: il cinema non ha bisogno di sofisticati orpelli, esso vive ovunque e comunque, ci circonda, è nelle nostre vite anonime, nella quotidianità dell’esistenza. E il fatto che siano dei dodicenni o giù di lì a darne prova empirica fa riflettere sulla malleabilità e la pervasività della settima arte.

Nello sfaccettato flusso di immagini dove ad ogni modo Baudelaire mantiene una percentuale di paternità (la maggioranza delle riprese scolastiche sono girate da lui), siamo spettatori di tanti eterogenei approcci messi in campo dai giovani filmmaker in erba, una dimensione ludica non viene mai meno perché l’attrezzo che maneggiano è pur sempre una novità, una modalità di vedere (e far vedere) il mondo agli altri, ma anche nell’amatorialità non manca una presa abbastanza profonda e abbastanza intima, magari involontaria, però presente, tangibile, che si riflette nella foto di un nonno appesa alla parete o in una video-confessione che non si riesce a fare perché... perché è così, e basta. Le uniche sbavature che non hanno pienamente incontrato i miei desideri si situano in alcune sequenze dove i ragazzi seduti intorno ad un tavolo discutono su questioni “da adulti” come il terrorismo, il razzismo (i componenti della classe protagonista hanno tutti origini extra-europee) e la politica, non discuto tale scelta che nell’economia filmica è anche fruttuosa visto che come spesso accade le parole dei bambini stupiscono per trasparenza e lucidità di pensiero, brontolo soltanto perché è un escamotage non troppo innovativo (penso a Silvano Agosti) che sta un passo indietro rispetto all’emancipazione esibita dai filmati degli alunni. Un Film Dramatique è uno di quei lavori di cervello che non puntano all’emozione superficiale, però se ascolti attentamente, ecco, sì, se tendi l’orecchio un tump tump regolare lo senti pure.

lunedì 25 settembre 2023

L’osservatorio nucleare del sig. Nanof

Se si riesce a digerire un aspetto un po’ vetusto, L’osservatorio nucleare del sig. Nanof (1985) ha dietro e dentro di sé una storia davvero affascinante, unica, una di quelle narrazioni sfuggenti che portano a immaginare le impossibilità che le caratterizzano, una vicenda, questa, che ha un unico e sconosciuto protagonista: Oreste Fernando Nannetti, un artista inconsapevole di esserlo, o forse ben più consapevole di altri sedicenti colleghi, che durante la sua permanenza nel manicomio di Volterra scolpì con le fibbie delle sue cinture due muri presenti nel cortile dell’Istituto dando vita ad un fittissimo intrico di quelli che potrebbero sembrare dei geroglifici, segni, lettere, parole che raccontano di un enigma impenetrabile disperso in dimensioni inaccessibili. Ad affrontare la misteriosa figura di Nannetti, a rielaborarla e filtrarla sullo schermo cinematografico, è il Paolo Rosa de Il mnemonista (2000), il fondatore dello Studio Azzurro ci restituisce la complessità di Nanof girando un’opera per nulla letterale e men che meno biografica. Seguendo un uomo (è una sorta di proiezione di NOF4?) e una donna (di mestiere fotografa), affiancando e mescolando piani temporali, giungono a noi stralci di un pensiero inafferrabile, elucubrazioni in bilico tra il nonsense e l’allitterazione, contorsioni celebrali, pseudo-fantascientifiche, filosofiche, mistiche, plausibili ricostruzioni (la scena nell’ufficio postale) e annesse decostruzioni (l’ultima carrellata sulle foto dei graffiti).

Ammantato da una nebbiolina metafisica che pare sfiatare via da una pellicola di Tarkovskij, L’osservatorio... ha questa qualità di smarcarsi dal banale ritrattismo per inquadrare la “cosa-Nannetti” da un’angolazione che a distanza di oltre tre decadi sa ancora essere efficace perché non si pone in una posizione interpretativa ma si appaia alla materia sotto esame, non ha la supponenza di voler e dover comprendere tutto ad ogni costo, preferisce galleggiare nel criptico limbo dal quale si abbevera, il risultato è un incrementarsi di interrogativi piuttosto che una ricezione di risposte, il che, ne converrete, è molto più stimolante. E poi Rosa, concedendogli delle sbavature ravvisate essenzialmente dal nostro essere spettatori moderni (ad esempio il doppiaggio è molto legnoso), dimostra un tatto autoriale da premiare grazie ad una miscela di registri che vanno dalla fiction al documentario con breccia su un filmato d’archivio che ipotizzo rarissimo. In generale, comunque, la sensazione è quella di scivolare in un dedalo audiovisivo che ben rappresenta la clandestinità di una mente ai margini di ciò che conosciamo. La vetta è una lunga sequenza ambientata nell’ospedale abbandonato dove un’eccellente progressione musicale sottolinea il rincorrersi di A e di B, di due fantasmi, di Nannetti e se stesso.

Qui uno splendido articolo sull’argomento.

sabato 23 settembre 2023

L’impossible - Pages arrachées

Bello concludere un ciclo di visioni ritornando all’inizio, in attesa di nuove uscite posso dire che nel campo del lungometraggio di Sylvain George il sottoscritto ha visto tutto quello che c’era da vedere (viceversa i lavori minori mancano e sono cospicui come da elenco sulla pagina di Wikipedia francese dedicata al filmmaker), ma è ancora più bello scoprire che dentro ad un’opera prima c’è già molto, se non tutto, di quello che verrà in futuro. Per la cronaca: lo sguardo sui clandestini è lo stesso di Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010), le apnee dei tumulti in strada si ripresenteranno in Vers Madrid: The Burning Bright (2012). È un grande George questo de L’impossible - Pages arrachées (2009), straripante nel restituirci pagine letteralmente strappate alla nostra epoca, e oculato nel costruire un quadro di disperato silenzio. Leggendo in giro viene più o meno sottolineato ovunque che il film è diviso in cinque parti, vero, però ciò che si percepisce maggiormente è una suddivisione in tre blocchi, anzi due più una coda disallineata dal corpo. Il primo è la “solita” immersione nei dintorni di Calais, non vediamo fisicamente molti rifugiati, piuttosto ci si concentra sulle loro tracce disseminate nella zona, il secondo è invece un travolgente reportage calato fino al collo dentro a delle manifestazioni scivolate nella violenza che si tennero a Parigi nella primavera del 2009 mentre il terzo, un breve epilogo, propone dei filmati d’archivio riguardanti la condizione degli omosessuali intorno al 1960. Ad esclusione di quest’ultima porzione che tematicamente è un po’ una mosca bianca nella filmografia del regista, il resto è il cinema fiammeggiante e d’assalto che abbiamo imparato ad apprezzare negli anni.

Doveroso porre l’accento sullo scarto che si consuma sullo schermo tra la parte dei migranti e la successiva cronaca-verità nella capitale. È una dissonanza portentosa: il ritratto sulla migrazione è girato in super 8, le immagini sono rovinate, bruciate e soprattutto totalmente prive di sonoro. È una realtà ammutolente che sembra giungere da un altro tempo quando invece è proprio il nostro di tempo che George va ad immortalare. La chiusura sul ragazzo afghano ucciso prima di poter attraversare la Manica è la pietra tombale che ci meritiamo, al pari dello scontro audiovisivo che ne consegue: la duplice e repentina immissione dei suoni in presa diretta e la scelta di una cromatura metallica che scintilla in un tanto nero e poco bianco, catapultano lo spettatore nelle trincee urbane, nella confusione, nella paura, nelle brutali cariche della polizia. È un cambio di prospettive micidiale che annienta e al contempo rafforza il segmento iniziale e che mi fa pensare a chi, nel panorama autoriale odierno, possiede non dico la medesima capacità di stare dentro la Storia e la politica (qui il bersaglio è Sárközy), ma perlomeno di avvicinarcisi e francamente non riesco a portare nessun altro esempio, per cui preserviamo la settima arte di Sylvain George, ne va della nostra coscienza e della nostra civiltà.

venerdì 22 settembre 2023

À l’entrée de la nuit

Tre scenari (Marocco, Spagna, Francia) intervallati da delle istantanee in negativo simili all’apparato formale visto in Noite Sem Distância (2015) di Lois Patiño (ma in composizione fotografica e non video), tre storie (chi parte, chi controlla, chi aspetta), una narrazione: l’emigrazione dall’Africa all’Europa. Il titolo un po’ céliniano di À l’entrée de la nuit (2020) non rende davvero giustizia alla profondità dell’opera, è ben più che un affacciarsi sull’uscio della notte, è venirne completamente avvolti, immersi, colmati del buio che inchiostra una foresta marocchina o un avamposto spagnolo, il lavoro compiuto dal regista francese Anton Bialas è eccellente, se non straordinario, e mi ha ricordato gli studi e le ricerche di Pablo Chavarría Gutiérrez o Eduardo Williams, e proprio da quest’ultimo, in particolare da Parsi (2019), Bialas sembra riproporre un flusso di immagini proveniente più da un live streaming che da una registrazione in digitale, c’è qualcosa che non quadra nello scorrere filmico sullo schermo, si verifica uno spostamento, tra il percettibile e non, dal concreto al metafisico, e la camminata dei due tizi nel bosco ne è modello: grazie al resoconto onirico di uno dei due, al commento non in presa diretta (guardateli: le loro bocche sono chiuse, sono voci sovrapposte successivamente) e, appunto, dall’estetica tout court, veniamo assorbiti in una dimensione parallela, notturna fino al midollo, separata da una qualsivoglia realtà quando al contempo proprio di realtà, di cronaca, ci parla.

Voglio tessere apertamente le lodi a questo cinema-sentinella, alla sua postazione di frontiera, non d’avanguardia, quello no, ma comunque molto oltre e molto più avanti di innumerevoli esemplari che non ci provano nemmeno a rischiare. Mi è piaciuta parecchio la tripartizione di Bialas perché è riuscito sfaccettare una precisa situazione senza ricorrere né a banali collegamenti né all’ovvietà di certe scritture, e ho parimenti apprezzato il senso di unità che il film riesce ad esprimere. Il fare-un-film-suoi-migranti può trasformarsi in un terreno assai scivoloso (Gianfranco Rosi ha preso una bella schienata con Fuocoammare, 2016), o ti chiami Sylvain George oppure ci puoi provare con risultati oscillanti (vedi un vertice come Naufragio [2010] o il perfezionabile The Last of Us, 2016), À l’entrée de la nuit, seppur nei venti minuti di cui dispone, è un alto compromesso tra artisticità e concretezza, una validissima e innovativa angolazione da dove provare a comprendere meglio il fenomeno (quanto è orribile questa parola...) dell’immigrazione senza perdere di vista le moderne coordinate autoriali capaci di rendere una produzione breve la breccia che si apre su una bellezza vergine e ammaliante.

mercoledì 20 settembre 2023

Just Don't Think I'll Scream

Ne croyez surtout pas que je hurle (2019 – letteralmente: Non pensare che io stia urlando) rientra in quella amata famiglia dei film di montaggio, il regista Frank Beauvais, ovviamente mai sentito nominare e quindi già messo nella lunga lista dei desideri che non riuscirò ad esaudire in questa vita, si apre a noi come un libro, anzi come un diario che va alle radici di un’intimità dove l’uomo Frank si trova in un momento complesso della propria esistenza: mollato dal compagno dopo anni di relazione, isolato nella casa di un paesino dell’Alsazia, senza lavoro fisso, costretto a vendere la collezione di libri e DVD per campare e desideroso di tornare a Parigi dagli amici. Beauvais costruisce un film che è innanzitutto un percorso terapeutico, un fluire di parole e pensieri adagiato su un magma di immagini tagliate e incollate da centinaia di film che il Nostro ha visto durante i bui mesi casalinghi. I ragionamenti da lui condotti riescono ad essere profondamente intrinseci alla persona che fu e che quindi ora è, e al contempo esulano dalla sfera famigliare per attecchire, ad esempio, su meri fatti di cronaca. È una caratteristica insita in proposte del genere, il trovare un equilibrio tra una dimensione interna e l’antitesi esterna è uno di quei piccoli miracoli per cui vale la pena sedersi di fronte ad uno schermo, qui abbiamo uno splendido e sofferto ricordo del padre che al pari di tanti altri padri non è stato all’altezza del suo ruolo, e poi, in un continuo inserirsi di eventi, ecco profilarsi gli attentati dell’ISIS del 2016, il terremoto in Italia, un viaggio in Portogallo con due colleghi di nome João (saranno Pedro Rodrigues e Rui Guerra da Mata?), l’autobiografia orale tradotta in un’estetica vorticosa (penso che non ci sarà un frame che duri oltre i cinque secondi) è un moto aspirante, una lavatrice, un turbine emotivo-riflessivo da serie A.

E tutto ciò va ad assembrarsi sotto la grande cupola che ogni cosa contiene: il cinema. Non apprezzo granché il termine “cinefilo” perché fatico a comprendere i gradi che si necessitano per potersene insignire, uno che guarda miriadi di film è un cinefilo? Se sì, di quali tipologie di film parliamo? Blockbuster? Cinema d’essai? Sperimentale? Se no, è sufficiente vedere un numero contenuto di opere ma studiarle a fondo con la disciplina di un filologo? Beauvais fornisce la sua versione: tra aprile e ottobre 2016 ha visionato oltre quattrocento pellicole per un solo ed unico motivo: perché stava male. Ecco allora che si schiude il tratto maggiormente fertile di Just Don’t Think... perché scocca un interrogativo verso un nucleo fondante, il punto è che Beauvais potrebbe essere tranquillamente io che scrivo o tu che stai leggendo, pur con le differenze del caso, chi non ha trovato nel cinema un caldo rifugio dove poter ripulirsi dalle impurità che ci circondano? Chi non ha sognato, pianto, patito e via dicendo al cospetto di una qualche sequenza da pelle d’oca così bella da sentirla parte di sé e di nessun altro? Chi non ha studiato, chi non si è formato, chi non è cresciuto approfondendo un autore o un movimento? A domande di tal fatta viene automatico rispondere che il cinema è La cura, e stop. Però il titolo in questione è abile a suggerire la nemesi, perché la settima arte è anche una malattia, una dipendenza patologica, un bisogno insensato di abbuffarsi di visioni rinchiudendosi in un mondo illusorio perdendo di vista il bene quotidiano. Dove sia la cosiddetta retta via non lo so, forse la scelta finale di Beauvais è il modo migliore per ricominciare, lasciarsi alle spalle un limbo di ossessioni, di download, di solitudine, di masturbazioni, e aprire un nuovo capitolo.

martedì 19 settembre 2023

Afternoon

All’inizio Tsai Ming-liang nota che le dita dei piedi di Lee Kang-sheng sono gialle, questo si deve al fatto che il fido compare del taiwanese ha dovuto sottoporsi a dei trattamenti per via della comparsa di alcune vesciche dovute a faticose camminate senza scarpe per esigenze di copione. Questo quadretto apparentemente innocuo metaforizza in realtà il senso di un’operazione come Na ri xia wu (2015): il regista ed il suo interprete hanno fatto insieme un lunghissimo cammino e ora, dopo quasi trent’anni, è giunta l’ora di un bilancio, quindi ecco un film-resoconto, un film-confronto, un film-dialogo, un film-memoria, soprattutto un oggetto che arriva poco dopo Stray Dogs (2013), lo spartiacque della filmografia tsaiana, che nelle intenzioni del Maestro sarebbe dovuta essere la pellicola definitiva, non sarà così perché poi sono stati dati alla luce altri esemplari della scuderia, però un cambio di rotta riguardante i formati e gli approcci c’è effettivamente stato. Per inquadrare l’intimità di una conversazione sia esistenziale che professionale era inevitabile l’utilizzo di un piano fisso che mettesse al centro chi fino a quel momento era sempre stato dietro la mdp, Tsai beve (sarà una coincidenza vista l’importanza che ha dato all’acqua nel corso della carriera?), Lee fuma, i due sono in una casa di loro proprietà ancora da ristrutturare circondata da un bosco, al di là del fatto che l’abitazione assomiglia a quella del già citato Jiao you, l’ambiente decadente ci restituisce una coppia che in linea con il set in cui si trovano può parlare molto di sé al passato, in verità è TM-l a condurre la chiacchierata tanto da trasformarla in una specie di soliloquio, mentre LK-s si stiracchia sulla poltrona, risponde a monosillabi, annuisce silenzioso, sembra continuare a vestire i panni di Hsiao-Kang, forse perché non vi è nessuna significativa interruzione tra la vita che conduce fuori dalla finzione cinematografica e quella che recita per il suo sodale.

Il discorso pare avere una certa spontaneità e per almeno tre quarti si sviluppa intorno ad un solo argomento: Kang-sheng. Non avevo mai sentito un atto di amore così limpido e viscerale di un regista nei confronti di un proprio attore, mai, perché è di ciò che si tratta: di amore, e Afternoon, se lo si vorrà ricordare in futuro, sarà perché dice al mondo intero che tipo di relazione sussiste tra queste due persone, le parole di Tsai potrebbero essere proferite da un padre, da un fratello o da un amante, è un’ammirazione totale che stupisce perché data la stazza dell’autore in questione era ipotizzabile che fosse Lee a venerare il diretto interessato e non viceversa. È una manifestazione d’affetto molto bella che oltre a mostrare un lato umano finora tenuto all’oscuro, aiuta a comprendere un modo di fare cinema tra i più coerenti della nostra epoca (almeno all’Anno Domini 2013), ovvero che se si è capaci di andare oltre le infinite sequenze mute, la procrastinazione degli stacchi del montaggio e i ripetuti ritratti di nera solitudine, ci sono dei sentimenti veri in gioco, un po’ il corrispettivo di Afternoon, un documentario privo di movimenti di camera (abbiamo solo due tagli se ho ben contato), inchiodato in una scenografia diroccata, respingente per via di una struttura lontana universi dai normali standard, che comunque rivela di possedere un grande cuore pieno di emozioni, paure, ricordi (“quale è il Paese visitato che preferisci?”) e riflessioni che esulano dalla settima arte. Sicuramente un’opera digeribile solo da chi ha il patentino tsaiano, può essere un limite, ok, però è ancora più limitante non conoscere l’eredità artistica che lascerà ai posteri.

Per completezza segnalo che nel 2016 anche Lee darà la sua versione dei fatti con Single Belief, un cortometraggio più rivolto verso se stesso, verso il ruolo attoriale ricoperto e meno votato alla nostalgia, all’introspezione, ma il link con Na ri xia wu esiste e va a formare un dittico da prendere in considerazione.

lunedì 18 settembre 2023

Parabéns!

È il giorno del suo trentesimo compleanno e Francisco viene svegliato dalla chiamata della fidanzata. Ma nel letto è insieme ad un altro uomo.

Tre anni prima del debutto nel lungo Il fantasma (2000) João Pedro Rodrigues dà alla luce questo micro episodio casalingo che anticipa uno dei temi portanti della filmografia del portoghese, ovvero l’autorializzazione di un cinema queer che nel prosieguo della carriera toccherà vette importanti. In Parabéns! (1997), e forse è fin scontato dirlo, non siamo in una fase embrionale: di più: sono proprio gli albori della visione artistica di Rodrigues e a parte il topic dell’omosessualità chi scrive non ha scorto ulteriori segnali di uno stile ricorsivo. Anzi, nell’appartamento di Chico (è un imberbe João Rui Guerra da Mata, l’amico/collega di sempre) tira un’aria quasi da commedia sentimentale dove si ha una netta distinzione dei ruoli tra l’uomo adulto e quello giovane, è quest’ultimo a sprigionare un’energia e una vitalità che si diffondono sullo schermo in aperto contrasto con la compostezza dell’architetto. Osserviamo un João impertinente girovagare per la casa invadendo con spensieratezza la privacy del proprietario (scena della doccia e dell’apertura del cassetto) al punto che l’intromissione diviene un’invasione che forse si certifica con i giochi insieme al gatto e alla sorta di sostituzione che si realizza (l’immagine del micio ritornerà d’improvviso esattamente due decadi dopo in Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues?, 2017), anche se i due “sono solo una scopata”, parrebbe che al regista interessi cogliere quella parvenza di intimità subordinata all’immediata carnalità (vedi il finale) che si crea tra due pressoché sconosciuti, una relazione probabilmente senza prospettive da vivere lì, d’istinto, sul pavimento di una cucina.

Ok, film non indispensabile e parecchio acerbo, ma vuoi mettere quanto fa figo andare in giro dicendo che tu, di Rodrigues, hai visto praticamente tutto?

domenica 17 settembre 2023

Also Known as Jihadi

Vedendo Letters to Max (2014) mi ero fatto l’idea che Éric Baudelaire fosse uno di quei registi-etnografi che amano scovare ciò che c’è lontano da noi, invece con The Ugly One (2013) e soprattutto con Also Known as Jihadi (2017) l’autore franco-americano dimostra, sempre seguendo i dettami del suo maestro giapponese Masao Adachi, di essere interessato a cosa succede in casa nostra, nel cuore di un’Europa che nel periodo in cui il film è stato girato conviveva con la minacciosa ombra dell’integralismo islamico. L’approccio del film in esame sfrutta un impianto narrativo tanto basico quanto efficace: la storia è quella di un ragazzo nato in Francia da una famiglia algerina che dopo una vita come tante intraprende un percorso di radicalizzazione religiosa viaggiando in Turchia e in Siria, l’aspetto curioso è che noi, Abdel Aziz Mekki, questo è il suo nome, non lo vedremo mai né sentiremo la sua voce. Eppure, al contempo, riceviamo una grande quantità di informazioni sul suo conto poiché l’opera si avvale di un doppio canale para-narrativo, due rivoli oltremodo antitetici che si attraggono per la legge degli opposti. Baudelaire, videocamera in mano, si mette fisicamente sulle tracce di Mekki, in un certo senso compie una biografia visiva senza la benché minima sottolineatura che parte dal suolo europeo per spostarsi in Medio Oriente e ritorno, non vi sono commenti, indicazioni, indirizzamenti, solo le immagini urbane, di un paese, di un albergo o di una strada da percorrere. Se lo si nota la fonte delle riprese effettua dei movimenti davvero simili agli spostamenti di quello che potrebbe essere il collo di una persona, l’occhio digitale si parifica all’occhio umano, è un’incarnazione nel corpo del jihadista, un POV di situazioni e scorci totalmente inessenziali perché, lo ribadisco, non accade niente di eclatante qua, è, in apparenza, un collage paesaggistico che preso singolarmente avrebbe poco da dirci.

La base teorica di Also Known as Jihadi ci obbliga però a cucire tutte le varie porzioni contemplative con il dispositivo descrittivo adagiato sulla fredda burocrazia. Di nuovo con estrema semplicità vengono fatti scorrere in video i documenti processuali a carico di Abdel, si tratta proprio di scansioni degli incartamenti stilati dalla polizia e dagli altri organi coinvolti nel caso riguardanti perizie psichiatriche, verbali e trascrizioni di conversazioni telefoniche. Accostando e incastrando l’oggettività dei fascicoli investigativi con la realtà concreta dei luoghi immortalati, ne esce fuori un’ innovativa (e lo affermo senza conoscere Adachi) scrittura di un profilo umano appartenente alla finestra storica che stiamo vivendo, un dossier che trova equilibrio collocandosi a metà via tra un sistema televisivo ed uno artistico. Di righe o vistose ammaccature sulla carrozzeria di Baudelaire non ne ho ravvisate, ovvio che non si sta parlando di un lavoro in grado di scaldare gli animi dello spettatore, non può, a causa di una natura che si pone in maniera asciutta e scarna, e probabilmente non deve farlo, però va rimarcato, se mai ce ne fosse bisogno, l’eventualità che il cinema di Baudelaire assume, in particolare nell’esplorazione (/esplosione) del modello documentaristico, ormai divenuto un campo di ricerca che garantisce ampia libertà espositiva e creativa, è la scoperta dell’acqua calda visto che le avanguardie operano nel settore da decenni ma è sempre bene ricordarlo quando si parla di autorialità, altrimenti il finale significativo di Also Known as Jihadi che è realmente una possibile conclusione della vicenda rischierebbe di passare troppo in sordina.

sabato 16 settembre 2023

Noite Escura

Come e più di Ganhar a Vida (2001), anche Noite Escura (2004) affida la propria patina visiva ad una cromatura bicolore che non è affatto casuale, infatti se il rosso ed il verde dominano la scena non è per via di un afflato nazionalista ma perché, citando testualmente le parole del padre, il “Portogallo è un Paese di merda”, trattasi di manifesta iperbole, però tutta la scenografia di João Canijo protende, nello spazio angusto in cui si sviluppa, a mettere in crisi l’architettura famigliare che forse si potrebbe leggere anche in maniera collettiva. Dico forse perché non è mica troppo centrata la storia in questione, volutamente il regista portoghese tiene un piede nella scarpa drammatica e l’altro che se la balla un po’ di qua e un po’ di là, ad esclusione del finale su cui tornerò tra poco, l’intera narrazione pur avendo momenti tragici svicola in un territorio lontanamente grottesco, stranuccio, non realistico, al massimo, come avevo appurato nel film precedente, iper-realistico. Tale impressione nasce da una notevole spinta sulla sintassi delle riprese, in pratica la vicenda è totalmente ambientata dentro ad un night club e Canijo si incolla ai volti dei suoi attori riempiendo il quadro visivo con una polifonia dialogica, nella dimensione quasi labirintica del locale le conversazioni si accavallano tra loro, alcune salgono in primo piano, altre rimangono sullo sfondo, la mdp si aggira con precisione in questo allestimento finzionale che ritornerà in vesti simili e diverse anche in Blood of My Blood (2011). Non è ciò che chiedo al cinema un’impostazione di tal fatta, cercando però di assumere una posizione neutra oggettiva il risultato globale sul fronte estetico si fa apprezzare, il Canijo che abbiamo qua non sarà l’ibridatore dei tempi recenti però non è nemmeno un bolso classicone che gira col pilota automatico, anzi la verve che si vede in video, bella concitata con campi e controcampi al fulmicotone, aggiramento di simmetrie fisiche e prospettive ottiche studiate a tavolino, medica una scrittura che semina qualche perplessità.

Ci ho pensato su e sono arrivato alla conclusione che Noite Escura difetta nella progressione che vorrebbe applicare al dramma. Le premesse noir non sono esaltanti con gli stereotipati mafiosi russi, le successive torsioni tramiche improntate ad evidenziare il marcio nel sistema, sia sociale che consanguineo, sta in piedi per la sua particolare eccentricità (il discorso ha un’eccezione negativa: quando si abbozza l’incesto, sequenza molto forzata che peggiora con il “fortuito” ingresso di Sonia), tuttavia una volta scese in campo le varie forze che cercano di mutare nel bene o nel male il destino della giovane cantante la pellicola si livella, cincischia tra il thriller e la soap-opera, e soprattutto non riesce a dare voce credibile all’accettazione del sacrificio da parte della figlia. Cioè, manca qualche passaggio razionale per cui la ragazza, dapprima convinta a diventare una star della musica spagnola, poi messa ripetutamente in guardia da Carla sul pericoloso futuro che l’attenderebbe via da lì, ad un certo punto decide di far saltare il piano di fuga ideato dalla sorella acconsentendo di essere “presa” dai malavitosi. Se lo fa per salvare il culo al padre non se ne capisce il motivo dato che l’uomo non pare farsi grandi scrupoli nei suoi confronti, allora sarebbe stato più coerente che avesse seguito il consiglio della sorella che pare davvero tenere a lei. Dovunque si situi il possibile senso, il nodo della faccenda è che quando in un film la sceneggiatura ha un peso rimarchevole il rischio è che certe dinamiche seguano delle evoluzioni (o involuzioni?) pensate per assoggettarsi a regole ingabbianti. E questo ci collega dritti dritti alla chiusura scelta da Canijo, a pensar male parrebbe che a prescindere dagli eventi nel club, Sonia sarebbe comunque salita sulla macchina scura, perché? Perché era necessario giungere ad un climax funereo qui tradotto in una sparatoria con accentuata coda cruenta. Se fino a quel momento gli strappi violenti reggevano per la loro essenza stralunata, l’ultima carneficina, così greve ed enfatica, non ci stava per niente, un atto di conformazione a certi modelli cinematografici che è l’opposto della libertà creativa desiderata dal sottoscritto.

venerdì 15 settembre 2023

Normal

Purtroppo non c’è molto da analizzare in un cortometraggio come Ya normalniy (2018), tipico lavoro da esordiente che nel nostro caso specifico si chiama Michael Borodin, uzbeko classe 1987 formatosi a Mosca. Il contesto, stravisto fino alla nausea, è quello di una realtà teen che si porta dietro i suoi inevitabili e accomunanti problemi, accentuati qui da una periferia russa che non permette alcuna realizzazione sul piano personale. Il canale di trasmissione adottato risponde ai dettami di un cinema-verità che ben conosciamo, per rimanere in territorio sovietico siamo dalle parti di Slaboshpytskiy, e quindi tanta camera a mano, pedinamenti e riprese concitate quando c’è bisogno di movimentare le acque. Niente, assicuro, che i vostri occhi non abbiano già ampiamente visionato in passato. Le dinamiche narrative sono banali e ricorrono a cliché a dir poco abusati (il bulletto del quartiere; il padre-padrone), lo sviluppo della storia è telefonato, piatto, prevedibile, anonimo: ecco la questione che a mio avviso dovrebbe far più male al regista, tutto è insipido, privo di una presa mordace, e aggiungo che se il corto fosse stato ambientato al di fuori della Russia in un qualche sobborgo francese o brasiliano non sarebbe cambiato niente. E non si tratta di uno spirito universale ma di un’omologazione verso grammatiche artistiche di scarso livello.

Poco da aggiungere inoltre sul concetto di normalità che fornisce il titolo. Relativizzando la situazione, ciò che è normale per il papà, ossia obbligare il proprio figlio a fare il militare azzoppando i suoi sogni scolastici, e quindi di riflesso per la società, non è altrettanto normale per il ragazzo che invece vorrebbe proseguire gli studi in un college in città. Come andrà a finire ce lo mostra Borodin nell’ultima scena casalinga intorno al tavolo che magari esprimerà anche un senso di ragionevole chiusura (data la pochezza che l’ha preceduta vince facile), ma che non riabilita sicuramente un film troppo semplice per le necessità di chi sta scrivendo. Vi basti pensare che Normal non dura neanche venti minuti eppure questo breve lasso di tempo l’ho percepito come triplicato. Incomprensibilmente selezionato nella Semaine de la Critique del 2018, per la serie: non oso immaginare come erano gli esclusi...

giovedì 14 settembre 2023

El mar la mar

Dedico questa canzone e sono sincero
A tutti quelli in coatta trasferta verso un più stabile ristoro
E che stanotte dormono sotto Ponte Salario
(Flavio Giurato – Ponte Salario)

Per quanto ho potuto vedere fino ad oggi, di J.P. Sniadecki, qui, c’è ben poco, affiancando un film come The Iron Ministry (2014) a El mar la mar (2017) si noterà subito la differenza estetica che li permea, molto ruvido e immerso nella realtà il primo, decisamente raffinato e “artistico” il secondo, probabilmente la presenza di un altro regista, Joshua Bonnetta, ha contribuito a far imboccare al documentario (però: etichettarlo così è sminuente) una direzione più curata (o almeno questa è la sensazione che se ne ha), ad ogni modo, comunque siano andate le cose, l’oggetto filmico che per un’ora e quasi quaranta minuti si distende davanti ai nostri occhi è un prodotto dalla qualità elevata, un valido punto di incontro tra sforzo autoriale e ingrandimento politico. Lo spazio di movimento è il deserto di Sonora, lo stesso territorio che Roberto Bolaño ha usato per ridisegnare i confini della letteratura contemporanea, e guarda caso è di una frontiera che la pellicola tratta, quella che ogni giorno, pardon ogni notte, decine di messicani tentano di varcare per entrare negli Stati Uniti. Questa transizione clandestina, questo passaggio drammatico ed inumano a noi è totalmente celato, in nome di un afflato laterale, la coppia registica preferisce concentrarsi su altro, sui dettagli, oltre che, e va sottolineato, sulle parole. Il film ha una struttura ricorsiva composta da blocchi alternati: a sequenze che vagano errabonde tra le colline di sabbia e che mostrano quali tracce sono rimaste della traversata, corrispondono degli stacchi in nero accompagnati dalle testimonianze di chi sta al di qua o al di là della linea. A me un tale avvicendamento è parso fruttifero, la non immediatezza del “tema migranti” (del resto non se ne vedrà praticamente nemmeno uno) è un plus a cui dire grazie perché evita di scivolare nella retorica, inoltre tutto l’apparato formale è una meraviglia che non andrebbe persa.

Assistendo a El mar la mar mi è venuto di farvi un indovinello: cosa può avere in comune un’area desertica, brulla e mezza disabitata nel sud degli USA con le calde acque del Mediterraneo tra la Sicilia e la Libia? Facile: la tragedia. Seppur ai poli opposti del globo terracqueo, è ipotizzabile che si siano verificate in questi due contesti diversi storie di identica disperazione: morire affogati, morire di stenti,  il filo che lega la triste epopea del migrante, ovunque egli sia, è la principale narrazione della nostra epoca e il cinema, al pari delle altre arti, ma soprattutto il cinema con la sua forza pervasiva, è un mezzo che accoglie e irradia come dio comanda l’incandescente questione, lo hanno fatto in parecchi prima di Bonnetta e Sniadecki e altrettanti lo faranno in futuro, e se pur saranno delle minuscole gocce speriamo di cuore che non potranno essere fermate da un muro di cemento e ignoranza. Tuttavia sapete che c’è? A proiezione conclusa non riesco ad inquadrare il film soltanto da una prospettiva sociale, in fondo il lavoro sotto esame è un Navajazo (2014) che cazzeggia di meno e che ama esplorare l’ambiente circostante. Si ricevono in dono potenti istantanee che nei fatti non si inseriscono nel filone saliente, l’esistenza di una panoramica con degli arbusti in fiamme, di un treno fermo sul binario, di piante grasse, di uno sciame di pipistrelli (grande scena, mi ha ricordato quella degli uccelli in Leviathan [2012], e infatti Sniadecki e la Paravel hanno collaborato insieme nel 2010 con Foreign Parts), di curiosi soggetti umani che svaniscono dentro una pozza tra le rocce, sono fotografie di un album sulla cui copertina è stampato a chiare lettere: 

The Sonoran Desert 

e il sottotitolo che potrebbe dire qualcosa del tipo “robe che si trovano a siffatte latitudini”, perché la preponderanza del luogo sul topic migratorio pian piano si fa sentire, si ha una coesistenza di entrambe le istanze perché comunque non manca l’insistenza sulle impronte lasciate dai “viaggiatori” (bottiglie di plastica, taniche, stracci, zaini, cellulari, ecc.), briciole di un Pollicino che non vuole tornare a casa, però non sono capace di scindere né emotivamente né concettualmente il set ripreso con mirabile maestria da quello che vi accade all’interno. La concertazione nell’insieme è ottima e ha nell’epilogo un picco di poesia elettrica, cupa e temporalesca.            

martedì 12 settembre 2023

The Hidden City

In apertura una scritta suggerisce di guardare La ciudad oculta (2018) al buio con delle cuffie o con un impianto audio adeguato. Da diligente spettatore ho seguito il consiglio del regista nato a Tenerife nel 1981 Víctor Moreno e per quanto la solita nonché solitaria visione casalinga sul proprio schermo del PC sia svilente per un esemplare con queste caratteristiche, non ho potuto fare a meno di ipnotizzarmi di fronte ad un allestimento di prima fascia che ha nel tappeto sonoro il suo fiore all’occhiello. È una specie di sondino gastrico il film di Moreno, una “cosa” che scende giù dall’esofago di un corpo che è la città (Madrid, per la cronaca) per aggirarsi nelle sue viscere, lì dove si intrecciano sistemi sanguigni e arteriosi, tunnel della metropolitana e tubi fognari, e dove alacri globuli rossi e bianchi antropomorfi, operai e tecnici, fanno sì che tutto continui a funzionare. Potenti i primi dieci minuti, un firmamento, il suolo lunare, le scintille sfiammanti, il prosieguo non è da meno e ci offre una panoramica senza commenti di ciò che accade nel sottosuolo, il tutto sempre accompagnato da uno score che violenta l’orecchio, infernale, cacofonico, metallico, riverberante, alieno, perfetta dotazione alle immagini oscure che l’opera contiene. La bellezza raggiunta dal risultato globale sta in un equilibrio che oscilla tra l’efferatezza dell’impasto audiovisivo (comunque c’è dello sporco, della fuliggine, della ruggine. Ci sono i ratti. Il fracasso dei convogli che sfrecciano, la melma dell’acqua stagnante) e la forza estatica che si propaga, tipo l’apparizione di un regale barbagianni, tipo i timidi raggi di luce che filtrano da una caditoia e vanno a posarsi sul volto di un uomo.

La concettualità che regola The Hidden City è, per fare due nomi di peso, la stessa che sta dietro a Leviathan (2012) o Dead Slow Ahead (2015). Il metodo di Moreno si costituisce nella registrazione di una realtà che, permettetemelo, è quella che è senza scappatoie, nello specifico è la rete sotterranea di una grande città europea, punto, non ci sono altre chiacchiere da fare. Poi sì, in post-produzione sono stati opportunamente miscelati taluni elementi per accentuare l’impatto su chi assiste, però la materia lavorata rimane altamente riconoscibile e concreta. Eppure chiunque si avvicinerà al film in esame non potrà mai affermare che esso si esaurisce nella sua componente illustrativa. L’oltre che si spalanca, ben più accattivante della catalogazione dei dati, ha a che fare con la percezione, quindi con l’invisibile. Perché qui, in un documentario, galleggiano, come quegli esseri diafani del brodo primordiale nei titoli di coda, suggestioni filmiche che esulano dall’etichetta di riferimento. La fantascienza (gli “astronauti” dell’incipit), l’horror (la sequenza da mockumentary nel condotto con gli scarafaggi) e altre categorie che orbitano nella galassia del perturbante bussano alle porte del nostro sentire. Probabilmente ad un tale gioco di riflessi nessuno dà particolare importanza, ciononostante un’enorme potenzialità del cinema si rintraccia esattamente nella capacità di trasmettere sensazioni, impressioni, mondi, senza ricorrere ai consueti algoritmi produttivi. È una roba meravigliosa che ci fa capire di come già nel reale sia contenuta ogni possibile narrazione, tolto il superfluo si resta abbagliati dalla prismaticità di una pietra solo apparentemente semplice.

¡Muchas gracias Dries!

lunedì 11 settembre 2023

Tungrus

Una famiglia indiana e il loro particolare animale domestico.

Tungrus (2018), l’esordio del regista Rishi Chandna, è un cortometraggio che affronta la seguente questione: in uno dei Paesi più popolosi al mondo dove il consumo di pollame è per forza di cose esorbitante può un gallo insediarsi pacificamente in un appartamento di Mumbai? Quale sarà la predisposizione dei vari componenti del nucleo famigliare nei riguardi dell’animale? Da queste premesse viene tirato fuori un lavoro ovviamente “casalingo” che attraverso una certa leggerezza di fondo si distende in un piccolo impianto documentaristico. Il procedimento nei dodici minuti di durata è all’incirca così strutturato: vengono intervistati il padre, la madre o i figli in relazione alle problematiche causate dal pennuto e subito si mostra l’uccello che ci dà conferma di quanto è stato detto sul suo conto, esempio: si asserisce che è stato comprato dal papà per giocare con i gatti di casa ma vediamo i due mici parecchio spaventati dall’ospite piumato, oppure si sottolinea che le sue deiezioni sono oltremodo frequenti durante la giornata ed eccolo lì che sgancia ripetutamente i propri bisogni sul pavimento, insomma l’andazzo semi-comico è quello appena descritto e Chandna si impegna a riprendere il galletto bianco da angolature che gli donano un aspetto quasi autoritario, altezzoso, il che incrementa il tasso di umorismo generale.

Mentre assistevo a Tungrus non immaginavo che potesse prendere la svolta conclusiva che effettivamente imbocca per almeno due motivi: primo la succitata ironia che imbeve la storiella e secondo perché, dopotutto, credevo che il bipede con cresta e bargiglio fosse al centro di uno di quei rapporti di odio/amore per cui noi umani alla fine sentiamo una responsabilità genitoriale verso delle creature più piccole sicché avvertiamo l’obbligo etico di prendercene cura, anche se sono delle pesti che fanno passare le notti insonni (poi ci sono anche gli imbecilli che abbandonano, ma è meglio non inoltrarci in discorsi che poco c’azzeccano con il presente scritto). Invece no. Il genitore mette il gallo in un trasportino diretto al Bismillah – Quality chicken, un luogo di non ritorno per il nostro volatile che finirà sgozzato dentro ad un barile blu. E quindi il mood scherzoso si adombra un pelo insieme al sorriso che si riduce un poco. Carta velina in formato audiovisivo, valido se avete un buchetto della vostra vita spettatoriale da riempire. 

domenica 10 settembre 2023

The Bloody Child

Ancora un oggetto alieno all’interno di una filmografia altrettanto aliena, The Bloody Child (1996) è un concentrato di suggestioni menkesiane dove con piacere si rintracciano segnali distintivi riconducibili alla regista americana. Lo spunto del film pare ricalchi un caso di cronaca nera che vide un marine impegnato nella guerra del Golfo uccidere la moglie una volta tornato a casa, e in effetti l’uccisione di una ragazza, un po’ come era già accaduto per Magdalena Viraga (1986), è la benzina della vicenda, solo che mai come per il film sotto esame non vi è alcuna evidenza crime, nessun apparato thriller. Per cominciare bisogna riconoscere la natura strutturale dell’opera che più che ripetitiva diventa praticamente ossessiva, è una roba non così comune nel cinema e per certi versi la Menkes ci aveva fornito un piccolo assaggio con la scena del casinò in Queen of Diamonds (1991), ma qui la sintassi ricorsiva è nettamente più organica e quindi più complessa. Il centro gravitazionale è un checkpoint militare dove l’assassino è stato beccato mentre forse tentava di occultare il cadavere, a noi, però, qualunque visione esplicativa ci è sottratta, nei numerosi segmenti con gli uomini dell’esercito non accade nulla se non la riproposta e potente (proprio perché brutalmente reiterata) immagine di un soldato che schiaccia la testa del killer contro il corpo insanguinato della donna. Prima, dopo e tutt’intorno, la pellicola subisce degli attacchi dinamitardi, la narrazione si scompone in una sequela di possibilità. È possibile, ad esempio, che nei primi venti minuti alla succitata situazione del posto di blocco vengano alternati stralci del tempo libero di alcuni militari all’estero. Perché tra l’altro anche geograficamente avviene uno sbalestramento, data la presenza di Tinka Menkes sembra di trovarci nuovamente dalle parti di The Great Sadness of Zohara (1983), un Medio Oriente, una zona, magari, del nordafrica che ritorna proteiforme nell’amalgama filmica.

Ho citato la sorella di Nina, Tinka, la quale oltre ad essere una degli ufficiali in postazione di controllo nonché protagonista di un breve brandello casalingo con il proprio compagno, è anche soggetto completamente estraneo al girato vestendo panni di difficile interpretazione: la vediamo come una sorta di ninfa nuda nel mezzo del bosco che si tagliuzza il braccio oppure con un trucco pesante insieme ad un ragazzino di colore, mentre fuori campo si accavallano delle voci infantili al limite del comprensibile. Sconquassati e provati realizziamo che il lavoro compiuto in fase di montaggio è fondamentale nel dare una significazione al film, e trattandosi di una messa in serie oltremodo scombinante succede che non si può ricorrere ad una chiave razionale che faccia da collante, c’è necessità di valicare il confine della concretezza per allinearsi alle frequenze invisibili emanate dalla strega-Menkes. Un aspetto risaltato dai commenti in Rete riguarda la bravura della regista nell’aver affrontato il tema della violenza (nell’ambito delle forze armate, il che spalanca ulteriori scenari) con un approccio a dir poco singolare, ciò è vero al pari del fatto che questa è comunque soltanto la superficie, The Bloody Child è un catino in ebollizione infiammato da frustate che fanno il loro (adesso ho capito da dove veniva quel cavallo in Dissolution, 2010), ostinato nel demandare il senso in un altrove (ad ogni modo, alla fine, i fatti sono all’incirca ricostruibili), meriterebbe un restauro estetico perché anche visivamente dice la sua (vedi il prologo e l’epilogo desertici e crepuscolari). Gran temperamento artistico questa Menkes, un recupero da chi ne sa in materia sarebbe doveroso.

sabato 9 settembre 2023

The Ugly One

Una certezza, almeno una, ce l’abbiamo: che The Ugly One (2013) è un film molto diverso da Letters to Max (2014), lo è nel suo principio essenziale dove vibra una finzionalità sui generis, così lontana dagli schemi che solitamente caratterizzano la categoria, così vicina a impostazioni autoriali che fanno leva su concetti come memoria e Storia con impepata sentimentale. Per dire subito una cosa banale, l’opera di Éric Baudelaire non è esattamente semplice ed immediata, la sua genesi si deve alla conoscenza tra il regista francese (ma nato in America) ed il collega giapponese Masao Adachi che qui ricopre il ruolo di narratore e sceneggiatore. Adachi, a seguito della sua militanza presso un’organizzazione di estrema sinistra nipponica, visse per parecchi anni in Libano dove sostenne attivamente la rivoluzione palestinese, da questo periodo espresso sotto forma di immagini erranti tra i vicoli di Beirut nel bel prologo, germoglia una pellicola che, cercando di diradare le nuvole delle perplessità, si sviluppa su due piani: il primo è un’azione pseudo-meta, un qualcosa che esplicita allo spettatore la costruzione progressiva delle battute, delle scene e quindi del film stesso, il “tipico” disvelamento dei meccanismi che stanno dietro al racconto sullo schermo, il secondo piano è il concreto evolversi degli sforzi concettuali, ossia il modellarsi in pratica della storia. Qui bisogna tenere gli occhi aperti perché si sceglie di non essere diretti ma di mischiare la cronologia temporale (passato / presente) e la natura categoriale (verità / finzione), lo si ripete: l’accessibilità manca, al pari, forse, della voglia di sforzarsi nel levigare gli spigoli con la nostra comprensione.

L’evento centrale sembrerebbe essere un attentato terroristico che è stato, che non è stato, che forse sarà. Nel mezzo, da qualche parte, anche la ricorsiva assenza di una bambina di nome Elena, e al contempo: Michel e Lili, coppia gravitazionale un po’ in crisi (del resto parlano due lingue diverse) un po’ no, ammantati da un velo di falsificazione, obbligati a ricoprire ruoli decisi dai due demiurghi, tritati dall’irregolare flusso di eventi che li vede effettuare un nuovo primo incontro. Vista l’importanza che i fidanzati hanno nel film mi sono chiesto chi fossero, se dei terroristi rivoluzionari o semplicemente un uomo e una donna che all’interno del sistema artificiale piazzano un ulteriore strato di fiction, e, con dispiacere, non ho trovato una risposta. A naso intuisco che la figura di Masao Adachi va ben oltre l’aspetto realizzativo, potrebbe esserci della biografia (d’altronde Baudelaire lo ammira oltremodo avendogli dedicato anche il lavoro preparatorio The Anabasis of May and Fusako Shigenobu, Masao Adachi and 27 Years Without Images, 2011), come c’è, con ben pochi dubbi, una riflessione sull’attuale situazione politica libanese (la sequenza della cena è in tal senso esplicativa) per la quale ben poco mi sento di aggiungere a causa della crassa ignoranza che ho in materia. Sommando tutti i vari elementi continuo a percepire, a distanza di qualche ora dalla visione, una sensazione di inefficacia dovuta ad un’elaborazione troppo celebrale, mi piace quando si spinge a livello teorico a patto però che vi siano benefici tangibili. Rimane la profonda incompetenza del sottoscritto sull’argomento, sicché non vi conviene prendere per oro colato le mie parole.

venerdì 8 settembre 2023

Ganhar a Vida

Alvaro viene ucciso in circostanze non chiare durante una sparatoria tra la polizia e un gruppo di delinquenti. Cidália, la madre, cerca di far luce sulla faccenda. Seguono complicazioni.

Un evento “nero”, una morte, un omicidio, tre dei quattro film che ho visto di João Canijo, chi più, chi meno, annoverano al loro interno un’accelerazione sanguinosa che diventa fulcro, centro da cui si dirama la narrazione. In Ganhar a Vida (2001) il fattaccio accade subito e quindi in maniera altrettanto rapida si acquisisce consapevolezza sul percorso personale studiato dal regista portoghese per la sua protagonista (ancora una volta Rita Blanco), un tragitto emotivo ma anche sociale che viene ripreso in un modo che non era di Filha da Mãe (1990) e che non sarà di Blood of My Blood (2011) o É o Amor (2013), il taglio è un ibrido tra un’impostazione abbastanza classica e la ricerca di un realismo che si esplicita in asfissianti sequenze con la mdp letteralmente appiccicata al volto degli attori, un procedimento che quasi trasforma il reale in iper ma che, al contempo, delinea un Canijo forse in transizione, non ancora votato ad un prosciugamento delle umidità finzionali in favore di un racconto capace di sgorgare dal concreto, dalla vita che scorre, si rimane un po’ in un limbo autoriale che si accusa per via del processo di precoce invecchiamento che spesso colpisce molti esemplari cinematografici, esteticamente un’opera di vent’anni fa, oggi, ci appare vecchia, questo è, poi sotto la scorza secca e amara si possono rintracciare dei segnali artistici che danno respiro al discorso del lusitano, nuovamente, infatti, spicca un’attenzione appositamente studiata verso i colori e quelli predominanti sono il rosso e il verde, i medesimi della bandiera del Portogallo (e visto che l’azione si svolge in Francia è un dettaglio che piace), vieppiù che un paio di geometrie negli interni abitativi confermano la tendenza a creare una simmetria visiva e divisiva dentro gli appartamenti e tra chi risiede in essi (non a caso, alla fine, la famiglia di Adelino si sgretola).

Sul piano della scrittura, dell’intreccio, delle scelte argomentative, Ganhar a Vida mi è parso altalenante. Il dolore di Cidália è l’asse portante della storia e ok, non si eccede né in patetismo gratuito né in registri bislacchi, è un lutto sommesso e contenuto che non entrerà nell’Olimpo del Cinema ma che risulta vedibile, a cascata le dinamiche famigliari si avvalgono dello stesso basso tenore, trattasi inoltre di nucleo allargato che si assembra in una casa piccola e angusta dove è difficile avere un briciolo di requie. Al di là dei rapporti consanguinei che per il sottoscritto sono sufficientemente oliati, Canijo affronta, alla larga, una sorta di impegno civile perché l’uccisione di Alvaro per mano di un poliziotto diviene una battaglia portata avanti da sua mamma che però manca di sprint, le immagini della protesta fuori dal commissariato hanno molta artificialità e poca veridicità. Sulla medesima lunghezza d’onda metterei il poco incisivo contorno criminale, appena accennato, leggermente confuso (che ruolo ha il tizio con la coppola?), non esplorato (atto voluto? Mah!), in subordine c’è lo snodo che meno mi ha convinto in assoluto, ovvero l’infatuazione tra Cidália e Orlando, una forzatura sceneggiaturiale sbrigata alla veloce che suggerisce a chiare lettere la proiezione affettiva della donna verso un ragazzo coetaneo del figlio scomparso, un escamotage utile solo per far scappare via il padre da Parigi. Neutra, invece, la decisione di inserire uno sguardo (digitale) nella diegesi, non aggiunge granché, se non la speranza di avere giustizia. Tuttavia la conclusione semina il dubbio che a Cidália, arrivata fin lì, non le importi più niente di nulla, tranne che scomparire.

giovedì 7 settembre 2023

Los Abducidos

La parola chiave di Los Abducidos (2011) è etnografia, ed è una mossa che non mi aspettavo da Juan Daniel Fernández Molero, lui, un regista non particolarmente interessato a certe tematiche, eppure il soggetto principale della storia è lampante: i Machiguenga, una popolazione amazzonica che vive in una regione meridionale del Perù, per presentarci questa cultura si ricorre ad un bianco e nero nettamente più limpido rispetto a quello di Sol Quieto (2015) e si affida tutta la componente descrittiva ad una voce fuori campo (in spagnolo, quindi non la lingua ufficiale della comunità) che racconta di tempi arcaici, di miti, di tradizioni, contemporaneamente le immagini segnano un percorso di viaggio (se notate in apertura, nella distorsione sonora, vediamo le pagine di un passaporto) che poi è il corrispettivo tragitto del filmmaker stesso, il suo arrivo nel territorio autoctono è preceduto da una traversata fluviale con annesso attracco, dopodiché la visione del corto è una soggettiva di Molero che si aggira nel villaggio, ad onor del vero ciò che vediamo non risulta essere il tipico villaggio di nativi, ci sono casette, elettricità (la tv), uomini intenti a tagliare l’erba di un campo che appaiono piuttosto civilizzati, dunque, a meno che non mi sia perso qualche passaggio, se i Machiguenga sono quelli ripresi si tratta di un gruppo indigeno che non rispecchia molto i risaputi canoni, ad ogni modo, al di là del cosa, il come, ovvero le modalità che mostrano l’avvicinamento e la susseguente breve esplorazione di JDFM mi sono garbate, non mi sarebbe dispiaciuta un’estensione e un approfondimento perché il materiale a disposizione poteva permetterlo.

Poi, all’incirca a metà proiezione, ecco una mossa che invece mi attendevo da Fernández Molero, nient’altro che uno smottamento interno, una riduzione in scala delle intermittenze di Reminiscencias (2010) e Videofilia: y otros síndromes virales (2015), in pratica succede che: le persone, uomini, donne e bambini, scompaiono in un lampo di suoni disturbati. Ci sarebbe da riflettere se tali repentine sparizioni possiedono una lettura “sociale”, se, in altri termini, i rapiti del titolo (o, in gergo ufologico, gli adotti) richiamano simbolicamente la concreta realtà odierna, del resto si potrebbe immaginare che i Machiguenga, al pari di molte altre micro-popolazioni in via d’estinzione, si stiano pian piano eclissando fagocitati da politiche aberranti, ma io questo non lo so con certezza, resta comunque l’impronta di un’idea interessante che assesta un discreto colpo quando col finale anche l’autore di fronte allo specchio, puff, si dissolve nel nulla. Al peruviano si rinnovano i complimenti, anche per un lavoro minore, la speranza di vederlo nuovamente alla direzione di un lungometraggio resta.

A margine segnalo un vecchio articolo scovato in Rete (link) dove è pubblicato uno scambio di mail tra il comitato tecnico di un concorso di cortometraggi che compie delle osservazioni ridicole su Los Abducidos e l’annessa risposta di Juan Daniel.