Documentario di contemplazione ma non solo. Muñoz ed Herce instillano elementi che non mi sentirei di bollare come finzionali e che al contempo non possono rientrare nel registro del reale. La prima goccia che cade sul girato e che ritorna con discreta regolarità durante la proiezione riguarda l’innesto di un filo narrativo raccontato da una voce esterna che si annoda nel tempo, che si perde nella bruma del passato (ad un certo punto compaiono in serie delle affascinanti fotografie in bianco e nero) e che implementa una percepibile filigrana magica, poi ci sono degli accenni che si concentrano principalmente su un ragazzo figlio di un pescatore, la sua presenza sullo schermo segna il punto di massima incrinatura dell’apparato documentaristico perché è il protagonista di un’amicizia (o forse di qualcosa che lui vorrebbe andasse oltre) con una ragazza, l’unica donna in un mondo esclusivamente maschile, e tali maschi si manifestano in video nel loro guscio impenetrabile (perché uno riempie una carriola di sabbia per svuotarla poco più in là?) foriero di un mistero che è bene non venga inquinato così come l’essenza enigmatica che costituisce l’opera. Al di là della traccia ascetica si hanno dunque dei segnali da cogliere che per chi scrive non possono che essere arricchenti, e lo sono non tanto per arrivare ad una comprensione totalizzante quanto per ingemmare i recettori del sentire, per bersagliare di input l’ovulo della suggestione, il tutto accettando il compromesso di confrontarsi nel recinto meditativo in cui El mar nos mira de lejos è auto-asserragliato, chi non starà a queste condizioni non durerà nemmeno dieci minuti.
domenica 30 gennaio 2022
El mar nos mira de lejos
martedì 25 gennaio 2022
Kokoduna 19-ji
Spiace constatarlo ma ho trovato l’intero Kokoduna 19-ji veramente ingenuo, quasi come se recasse la firma di un esordiente e non quella di un cineasta dal cv chilometrico. Alla base non ci ho visto nulla di interessante nella metafora semi-distopica ivi imbastita, se l’intento era di fornire uno strumento per aiutarci ad analizzare meglio i fatti che stiamo vivendo dal 2020, a parte una sequela di banalità ammetto con candore di non aver rintracciato nient’altro. Le premesse (un’umanità ridotta ad un lockdown perenne a causa di un virus più potente della [sì, al femminile] COVID-19) hanno uno sviluppo prevedibile (oh: il protagonista dopo trent’anni esce dal confinamento) ed un sottotesto fiacco attraverso il quale viene suggerito che la distanza coatta non è la maniera giusta per vivere perché d’altronde “vivere non basta”, bisogna aiutarsi a vicenda, sorreggersi, baciarsi, ecc. No, dal mio punto di vista non può essere questo l’approccio giusto per affrontare il più grande problema in epoca moderna su scala mondiale di cui ho memoria, non con la superficialità e l’approssimazione messe in campo da Sono al quale ricordo umilmente che non è più il giovane filmmaker di Ore wa Sono Sion da! (1985) che riprendeva ciò che aveva intorno alla ricerca di un’identità personale, adesso è un uomo e una voce del panorama contemporaneo, non vogliamo favolette, vogliamo manifestazioni scomode, interroganti, vive. Il minimo è Citadel (2021), il resto deve ascendere.
sabato 15 gennaio 2022
Lek and the Dogs
lunedì 10 gennaio 2022
Habitat: Note personali
Il parallelo che si profila per Dante è incentrato tra la città e le persone che l’hanno abitata, la connessione designata tra le due entità vede per entrambe un concetto di ricostruzione che è sì attuabile e che, negli anni successivi al sisma si è parzialmente messa in moto, ma che comunque deve fronteggiare difficoltà non da poco, che possono essere la collusa burocrazia italiana al pari di un’idea di futuro divergente tra i componenti di una coppia. In pratica il regista assembla pezzi di vite di ragazzi a lui coetanei che conobbe un lustro prima nelle tendopoli allestite per gli sfollati, sono storie di uomini e di donne alle prese con le proprie macerie, con una riedificazione psicologica e professionale (non c’è stabilità emotiva senza stabilità economica) tutta in salita, con ciò che se ne è andato (Noemi, un nome, una dedica), che è rimasto (un legame, tra alti e bassi), che è arrivato (una figlia). Accompagnato da un commento dell’autore per nulla banale, ragionato sì, ma anche di pancia, malinconico, cupo, incazzato, speranzoso, in una parola: vivo, il film è una nicchia di resistenze scampate ad un collasso impossibile da comprendere appieno per noi esterni di cui porteranno per sempre delle scorie, è un puzzle di potenziali ricominciamenti che devono mettere in conto il verificarsi di una serie di assenze, anche e soprattutto materiali, a partire da una casa, la propria e non un surrogato, oltre al denaro e alla culla che per tanto tempo è stata la loro vita: L’Aquila, ed è anche un contenitore di riflessioni trasversali generato da un artista che cerca di metabolizzare la catastrofe filtrandola tra le maglie del cinema, e credo che alla fine, con sincerità, sensibilità e un pizzico di inventiva ci sia riuscito.