sabato 31 dicembre 2022

La mia condanna lo sai, è andare oltre

Così, assolutamente a caso e senza motivo, tre cose che mi sono piaciute di quest’anno, io che ascolto leggo guardo sempre meno, ma tant’è.

Il disco: Strangers di Twin Oaks

La canzone: Andare Oltre di Niccolò Fabi

Il libro: Melancolia di Mircea Cărtărescu

Il film: non ne ho idea

E poi? Le aspettative, accendersi, bruciare, bruciare, bruciare, scintillare nelle profondità di una cantina, la solitudine che si mitiga, che si arieggia, aperture!, proiezioni, al di là di un aldilà, racchiudere, preservare, non sbagliare e per favore non mi dimenticare. 
E poi? E poi, il 20 novembre 2023, sarà finalmente la Fine.

domenica 25 dicembre 2022

Per Ulisse

Dall’empia e santa Napoli di In Purgatorio (2009) Giovanni Cioni risale di qualche chilometro l’Italia per ritrovarsi a Firenze, nella “sua” Toscana, in un centro di socializzazione chiamato Ponterosso che raccoglie esseri umani raschiati via dal fondo della notte come ex tossici, ludopatici, schizofrenici e altra gente che in generale non ha avuto un passato facile al pari di un presente medicato un po’ da questo progetto di assistenza che (r)accogliendoli ha donato a tutti una nuova dignità unitamente ad una tenue speranza verso il domani che probabilmente sembrava perduta, e Cioni, insediandosi nel Centro per lungo tempo, guadagnandosi la confidenza ed il rispetto, partendo da riprese che in teoria non sarebbero dovute finire in un film, prendendo appunti e ascoltando grovigli e grovigli di storie, ha pian piano assemblato Per Ulisse (2013), un documentario che, come il titolo vi farà ben supporre, ha un afflato omerico perché nella macro-metafora che lo contiene c’è l’agiografia del naufrago per eccellenza, dell’uomo smarrito in un mare violaceo, del nostos eterno, di un ritorno a casa anche per chi una casa non ce l’ha più e per chi una casa, forse, non ce l’ha mai avuta. Ci sono così tanti Ulisse davanti alla camera di Cioni, soggetti ai margini della società che comunque, al di là di un percorso che si immagina, per i motivi più diversi, devastante e in alcuni casi autodistruttivo, hanno ancora un cuore che batte, per una figlia lontana, per un’altra morta, oppure per un’altra persona, e che sia all’interno di un breve segmento “di finzione” poco importa, sono, in sostanza, vivi, e il regista afferra gli sbuffi di questa vitalità che, seppur sghemba e sgangherata, resiste, infatti ritengo che Per Ulisse, oltre alla chiave di lettura epica, sia un film di piccole e sotterranee resistenze.

E mentre lo guardavo ragionavo sulla capacità che ha il cinema di trasmettere informazioni pur non avvalendosi di uno storytelling che illustra dalla A alla Z. Se ci pensiamo gli uomini e le donne che appaiono e scompaiono dal film non dicono granché sul proprio conto, certo, qualcuno si apre di più, qualcun altro di meno, ma per la maggior parte apprendiamo solo dei flash, che sebbene dolorosi e tragici restano i tasselli di un mosaico ulteriore che non vediamo né sentiamo ma che comunque aleggia, che si percepisce in una dimensione altra rispetto al racconto. L’alchimia creata da Cioni, non raffinata (ad un certo punto nell’inquadratura ci finisce un microfono che non doveva stare lì) e nemmeno autorialmente oltranzista, risulta una manifestazione di settima arte talmente genuina e al contempo professionale che trasporta lo spettatore in uno di quei stati fruitivi che sanno uscire dalla proiezione in sé, e grazie a ciò la sofferenza delle persone in video la si legge anche nei loro occhi, spenti, rassegnati, pimpanti, nervosi, o la si sente nelle loro voci, impastate fino all’incomprensibile, o in accenti che ne amalgamano indistinguibilmente altri, e la si vede nelle assenze, di denti, di un futuro a lungo a termine. Che poi non è di sicuro la prima volta che il cinema va ad occuparsi degli ultimi (ad esempio, il finale liberatorio con il bagno in mare, mi ha riportato alla conclusione di Nessun Fuoco Nessun Luogo [2014] altra opera dedicata a degli invisibili), è che quando lo fa, e quando lo fa bene, sembra ancora che ci sia la possibilità di credere in un valore meraviglioso, quello dell’umanità.

mercoledì 21 dicembre 2022

The Mad Half Hour

Mah, vi dirò, questa follia di trenta minuti decantata dal titolo non è che l’abbia granché vista, sì che a quanto pare si riferirebbe ad un particolare comportamento dei gatti domestici che ogni tanto, senza motivi particolari, vengono presi da raptus di energia lunghi giusto una mezz’oretta, però la relativa traslazione nella storia di Juan e Pedro è rimasta da qualche altra parte lontana dallo schermo. Spiace constatare che Leonardo Brzezicki non ha proseguito nel solco tracciato con il gioiellino Noche (2013), un film sensoriale, notturno, ectoplasmico, tutte caratteristiche che in The Mad Half Hour (2015) non ci sono, ciò che c’è è invece uno spiffero di commedia, addirittura slapstick con una duplice testata del protagonista, usato per insaporire una vacua trattazione esistenzialistica, di fatto Juan ha una specie di improvvisa crisi personale che obbliga il suo compagno Pedro a trovare un diversivo per ravvivare la situazione. Brzezicki non si adagia in toto ai canoni della tradizione narrativa, l’incipit con il video sul cavallo, ad esempio, è slegato dal resto, ed anche il piazzare qualche frammento disallineato dalla normalità (la visita alla mostra dove tra l’altro viene proiettato il filmato iniziale dell’equino; le due ragazze che si accapigliano nel bosco) è sintomo di un minimo di ricerca, immaginerete comunque che il tentativo non rovescia l’impressione anodina suscitata da The Mad Half Hour

Nemmeno la sospensione del racconto nel finale accende qualche fuocherello di interesse. Per via dello scenario nemorale il pensiero va a Noche, debolmente il regista argentino prova ad allargare le maglie della realtà, fa sparire Pedro, fa apparire un gatto triocchiuto (di cui si era discussa poco prima la possibilità che la coppia se lo tatuasse, un atto d’amore in pratica), poco, poco davvero. Se si voleva indagare con un approccio lontanamente bizzarro i problemi, i vuoti e le paure di una relazione (abbiamo anche un sotto-rimando alla faccenda sentimentale con le due tizie che sembrano quasi i doppioni del duo maschile - vedi la lotta nel karaoke), fatico, e non poco, a rintracciare anche un briciolo di densità tematica, se Brzezicki aveva invece altro per la testa e chi scrive non ha colto nulla, be’, buon per lui e male per me.
Presentato a Berlino ’15 nella categoria di riferimento. 

giovedì 8 dicembre 2022

21 X New York

È possibile traslare su pellicola il magma emotivo che alberga dentro la popolazione di una delle più grandi metropoli del mondo, tipo New York? Probabilmente no, non è fattibile, e non c’entra tanto la geografia perché sarebbe complicato anche se si riprendessero gli esseri umani di un paesino sulle montagne, c’entra l’antropologia, se così si può dire, e l’ardua impresa di captare le vibrazioni sentimentali delle persone con lo strumento cinema in un film dalla durata limitata, e nel caso specifico di 21 x Nowy Jork (2016) alquanto limitata: settanta minuti. Però, insomma, ogni tanto capita che qualche impavido regista si imbarchi in missioni del genere e il nostro “eroe” odierno si chiama Piotr Stasik, polacco nato nel 1976 con una manciata di documentari in curriculum di cui con altissima probabilità non vedremo mai nulla (ma perlomeno registriamo una plausibile recidività: 7 x Moskwa, 2006), il quale si era recato nella Grande Mela per girare il suo film precedente Dziennik z podrózy (2013) e dove ha capito che c’era margine anche per fare quello successivo. Il numero 21 del titolo dovrebbe avere una duplice valenza: è ovviamente il secolo di riferimento in cui il documentario è ambientato ed è anche la quantità di soggetti che Stasik fugacemente illustra durante questo viaggio metropolitano. Quindi umanità dentro una precisa condizione temporale, è importante tenere a mente tale assioma durante la visione di 21 X New York, la natura del singolo e i connotati intimi che si porta appresso rapportati al periodo iper-veloce/connesso che qui si simbolizza nella metropolitana newyorchese, un’arteria che pompa senza sosta un sangue in preda ai più svariati stati d’animo.

Con un minutaggio così ridotto Stasik non riesce a soffermarsi granché sui personaggi che vuole raccontarci, questi tizi entrano ed escono dallo schermo con la medesima rapidità di uno sguardo che si dà ad uno sconosciuto seduto di fronte a te sulla metro, e se ciò era voluto l’effetto sortito non si può dire che abbia centrato il bersaglio perché come si diceva prima cogliere l’infinita complessità delle emozioni è pressoché impensabile, al contempo traspare una sincerità di fondo a cui non me la sento di voltare le spalle, no perché anche se in linea generale il precipitato del film era pronosticabile, ovvero che, seppur residenti in una delle città più popolose del pianeta, i suoi abitanti si sentono parecchio, ma parecchio, soli e perciò tentano di mitigare la solitudine con futili espedienti, nonostante la suddetta sintesi tematica, sfiorare la mestizia di ’sta gente non è poi così male forse perché “’sta gente” siamo anche noi, e allora dal ragazzino che si aggira a Coney Island cercando di rimorchiare qualche coetanea all’uomo di mezz’età che si è invaghito di un nerboruto spogliarellista passando per altre micro-storie ordinarie fatte della stessa materia di cui è fatta la vita, ci si può anche dimostrare accoglienti e prenderle nella loro effimera e sfuggente essenza. In aggiunta Stasik si lancia in qualche accento tecnico fatto di sfocamenti, inquadrature sporche e variegate che certificano le intenzioni di andare un pelo al di là del banale orticello, se molto manca in 21 x Nowy Jork, qualcosa, di contro, c’è.

domenica 4 dicembre 2022

Nei miei sogni tu mi hai già salvato

Per una serie di ragioni karmiche che adesso non sto a spiegare ad un certo punto mi reincarnai in un gatto. Di quella specifica nascita non ho ricordi particolari, come del resto non riesco ad averne neanche per tutte le altre, deve esserci una legge cosmica o qualcosa di simile che regola il venire al mondo di ogni essere vivente e sempre la suddetta legge tende ad annebbiare gli scompartimenti della memoria: calore, tetta, latte, fratellini, questi potrebbero essere gli elementi cardine di un qualunque inizio a prescindere dall’ordine biologico di appartenenza, e sono proprio questi i dettagli che ora si accendono in quella che al tempo era la mia testa e che ora è un ologramma di purissima energia. Faceva caldissimo a Istanbul il giorno in cui nacqui, il Bosforo riluceva sotto il sole che colorava d’oro quella lingua di acqua azzurra, dai ristoranti sul ponte Galata proveniva il tintinnare delle forchette dei russi abbienti con le loro figlie magrine ed eteree mentre i venditori ambulanti arrostivano pannocchie nei baracchini. Non troppo lontano da lì, da quella carezza tra due continenti, io facevo il primo respiro per la centesima o millesima volta, batuffolo di peli sputato fuori da un ventre, cieco, piangente, come sempre, come tutto è sempre in un nuovo inizio. Io e gli altri vivevamo in una cantina non lontano da torre Galata, era un bel posto: umido e sicuro, io e gli altri vivevamo con quell’impeto giovanile che caratterizza ogni essere alle prese con la conoscenza della realtà che lo circonda, era un’avventura, ogni giorno, ogni notte. La mamma ci leccava forte prima che ci addormentassimo, la sua lingua ruvida era la stessa mano delicata che avevo sentito sul mio viso di neonato all’interno di una caverna migliaia di anni prima o la medesima che avrei percepito migliaia di anni dopo a bordo di un’astronave oltre la fascia di Kuiper, non c’è molto altro da dire, ma, come se fosse un mantra instillato nel nostro cervello, solo da vivere: e questo facevamo, tra i vicoli di quello che un tempo era un quartiere genovese, lungo le sponde, in mezzo al traffico irregolare, ai bar troppo occidentali e i negozi di abiti usati, sotto i tavoli a raccogliere gli scarti dei pranzi e delle cene, a leccarci i baffi di fronte alle perpetue rotazioni dei kebab nei loro spiedi, a dire miao alla luna che bianca sventolava sugli enormi drappi rossi appesi alle finestre, io e gli altri succhiavamo via questa linfa meravigliosa che sgocciola giù dai tramonti, poi tornavamo nella cantina e facevamo dei tipici sogni felini, tipo che dal tapetum lucidum dei nostri occhi si innalzavano due raggi di luce nello spazio profondo dove si incontravano con i raggi ottici di altri esseri provenienti da un’altra dimensione e ulteriori, similari, amenità oniriche.

Di tutti i posti dove potevamo andare, uno era il nostro preferito e si trovava in Zürafa Sokak, una strada tutta in salita costeggiata da negozietti di souvenir. Nell’indifferenza generale, in cima, un cancello arrugginito reclamava attenzione, sopra qualcuno aveva scritto “whorehouse”, un uomo, a turno, controllava gli accessi aprendo e chiudendo una porticina, di qua un mondo, di là un altro. Oltre era tutto in sfacelo, il Governo regolamentava la prostituzione così: ghettizzando un’area ridotta quasi in macerie, così come erano decrepite le donne che ci lavoravano, maschere dipinte sotto solchi rugosi e corpi decisamente inadatti a vendersi. Noi guardavamo dalle finestre, spiavamo quell’affanno tipicamente umano, tipicamente maschile, pieno di sbuffi e gridolini: erano così goffi, tutti glabri e con quel pendulo carnoso tra le gambe (sono stato anche una prostituta in una vita passata, a Pattaya, iniziai poco dopo lo tsunami del 2004, avevo sedici o diciassette anni, gli stranieri che arrivavano erano ricchi e mi compravano abiti e scarpe che i miei genitori non avrebbero mai e poi mai potuto regalarmi. Scopare non era un problema, quando mai lo è stato del resto? I baht che mi infilavo in tasca il mattino dopo mi rendevano felice, mangiavo succosi durian e fumavo almeno un pacchetto di sigarette al giorno. Un tizio inglese ad un certo punto si innamorò di me, era vecchio ma gentile, per almeno due o tre anni ritornò puntuale al termine della stagione delle piogge, alla fine stavamo insieme senza fare niente, senza neanche toccarci, mi diceva che nel mio sorriso rivedeva qualcosa di sua moglie morta tempo prima, poi un giorno mi chiese di seguirlo a Londra, accettai, la mia idea era di rimanere giusto qualche mese e invece restai lì per otto anni fino a quando una notte se ne andò via nel sonno. Rientrai in Thailandia e vidi mamma e papà invecchiati come se di anni ne fossero passati cinquanta, li abbracciai forte e in quel momento capii molte cose, tutte molto intense e profonde, aprii una piccola agenzia di viaggi con i soldi che mi aveva lasciato, poi conobbi un altro uomo con il quale feci una bambina, la chiamai Elizabeth, crebbe così velocemente che quasi non me ne accorsi, ripensai ancora a lui, sempre meno però perché i ricordi sbiadiscono e non possiamo farci proprio niente, morii nel 2047 per un tumore ai polmoni, troppe sigarette forse, ma tutto sommato devo dire che quella fu una bella vita), alcuni insistevano sul fatto di poter sfilare via il preservativo, un supplemento rappresentava allora il migliore compromesso, qualcuno si presentava lì vergine, qualcun altro sfruttava l’occasione di essere andato a comprare il pane che in effetti sbucava poi dai sacchetti, ogni orgasmo che si propagava tra le mura scrostate e che arrivava alla cartilagine delle nostre orecchie ci faceva molto ridere, e quindi miagolavamo assai rischiando di beccarci qualche scarpa lanciata in direzione della finestra da dove ci godevamo lo show. Ricordo i bagni e le piastrelle dalle maioliche zozze, i lavandini sbeccati e la puzza di chiuso che forse si poteva trovare soltanto in museo d’arte ottomana, purtroppo non ricordo molto altro ora se non che a volte andavamo a strusciarci tra le sporgenti vene varicose delle donne e che qualcuna di loro ci dava anche qualcosa da mangiare.

Nella nostra lingua gattesca lo chiamavamo “the game” perché anche da non-umani gli inglesismi mantenevano un certo fascino, e quindi sì, il gioco, che però poteva diventare molto pericoloso: ogni tanto qualcuno moriva per via delle pedate dei pescatori. Succedeva di notte perché di notte, si sa, succedono le cose davvero importanti. In gruppo, compatti e silenziosi, partivamo dalla zona dove attraccavano i battelli turistici e leggeri come il vento salivamo le scale del ponte Galata che portavano sulla strada carrabile. Qui si manifestava di fronte a noi uno spettacolo inusuale, decine e decine di uomini facevano dondolare le loro canne da pesca sulla balaustra del ponte, viste da sotto quelle cannule lenzate penso che sarebbero potute sembrare delle zampe di enormi mantidi che nel buio si infilavano sottili nell’acqua per poi riuscire e rientrare, così, in un movimento ipnotico e sensuale che però ci interessava fino ad un certo punto, del resto, a noi, interessavano i pesci. Li stipavano dentro a secchi di dubbia igiene oppure dentro a cassette di polistirolo che posizionavano affianco al loro sgabello dove si sedevano per fumare o bere o entrambe le cose fino al sorgere del sole. La tattica quindi era fin semplice (in una vita successiva, lontana, ma non troppo da questa, sarò un profugo climatico. Partirò da Malaga, ormai assorbita da un processo di desertificazione che ingloberà buona parte dell’Italia e della Spagna meridionali, insieme a mia figlia a bordo di una vecchia Seat rubata ad un concessionario di auto usate. Saprò fin dall’inizio che il viaggio, al pari di tutti i viaggi clandestini, sarà disperato, Helsinki rimarrà un punto sulla cartina distante oltre quattromila chilometri, ma io, in qualità di padre, esattamente come tutti gli altri padri che prima di me hanno provato di tutto per ridare un colore alle labbra dei propri figli, tenterò l’impossibile. Arriveremo in Costa Brava poco dopo il tramonto, lungo il tragitto altri profughi provenienti da sud accampati sulle spiagge, bambini disidratati che sbucano fuori dai tombini in cerca di acqua, Barcellona militarizzata, Lloret de Mar un parco giochi abbandonato, oltre il confine, forse a Perpignano, una stella cadente lacererà la volta notturna, ci perderemo dalle parti di Lione, senza viveri, in una Europa già immersa nel gelido inverno, chiederemo aiuto casa per casa, fino a quando una vecchietta ci darà da mangiare e ci ospiterà per una notte nel suo garage, solo una notte s’il vous plaît, non voglio problemi con la polizia dirà. Mia figlia inizierà a stare male, dissenteria, febbre, vomito, cercherò una farmacia a Colmar, una cittadina incantevole in cui sognerò di ritornare in futuro con più calma, nessun medico accetterà di vendermi alcunché in quanto sarò privo di assicurazione sanitaria, a Strasburgo entrerò in un ospedale con la mia bimba in braccio, esanime, vedrò i volti di queste persone consapevoli ma ignare di quello che era il mondo non troppo lontano da loro e che adesso si incarnerà in me, in noi, lì davanti, incrostati e chiazzati dalla malattia, sporchi e puzzolenti, straccioni, help me please, dirò solo questo, stravolto, poi sarà il buio e ancora poi una stanza bianca, una flebo, disorientamento, un’infermiera affaccendata nei suoi lavori si renderà conto del mio risveglio, chiamerà un medico che con toni gentili e l’alito profumato si chinerà su di me e con un filo di voce mi dirà in uno spagnolo elementare che purtroppo mia figlia non ce l’ha fatta. Vivrò ancora per qualche anno girovagando per la Germania, diventerò un senzatetto, un paria, morirò a Colonia accoltellato da un gruppetto di giovani neonazisti che mentre infilzeranno ripetutamente il mio addome intoneranno il canto di Horst Wessel), dovevamo aspettare, sornioni come solo noi potevamo essere, rannicchiati sul marciapiedi fingendo totale noncuranza verso il mondo intero, e poi, appena uno dei pescatori si distraeva quel tanto che bastava, partivamo all’attacco: eravamo rapidi e quasi invisibili, saette di pelo che si lanciavano con tutto loro stessi verso la preda, mentre loro, gli umani, imprecavano fino alla quarta generazione la stirpe dei felini, certo, come dicevo, poteva capitare che qualcuno non fosse abbastanza rapido, ma chi ce la faceva, chi vinceva il gioco, scappava via con questi pesciolini che stretti tra le nostre fauci diventavano pesci volanti grazie alle vibrisse che ci davano un tono da pirati all’assalto, e tutti insieme, una volta al sicuro, ci acquattavamo a terra per sbranarci il nostro bottino, quella carne fresca e bagnata, bianca, salata, era una sensazione purissima e quasi orgasmica, alle spalle avevamo una moschea illuminata dai primi raggi del mattino che le donavano una solennità a cui neanche noi potevamo sottrarci, dal minareto si alzava un canto fatto di colla e di anelli, ce ne stavamo allora stretti stretti, una cartolina sacra e pagana, un presepe di mici, mentre Istanbul si risvegliava incuneata come da millenni tra l’Europa e l’Asia.

Non ci fidavamo dei cani, ce lo aveva insegnato la mamma fin da piccoli, ma di lui, di quel vecchio spinone che lercio vagabondava tra i vicoli nei pressi di İstiklal Caddesi, be’, diciamo che ci piacevano le storie che raccontava e un giorno disse così: ma come? Non avete mai visto la Porta sul Bosforo? Così mi deludete molto cari amici. Focus group urgente: in cerchio a decidere il da farsi, tempo cinque minuti e si decise di partire seduta stante per questo posto che pareva si chiamasse Palazzo di Dolmabahçe. Quando ci spostavamo in gruppo eravamo invincibili, un contingente peloso che si muoveva ai margini del caos, in mezzo alle tonnare di turisti che si facevano abbindolare dai ristoratori locali, oltre le nuvole di fumo dei narghilè, incontrando altri gatti con i quali ci scambiavamo qualche soffio giusto per far capire chi eravamo, la vita, per noi, era questa: respirare con i nostri piccoli polmoni particelle di un’esistenza gigantesca, incomprensibile, abbacinante. Però, dovetti ammettere, che questo Palazzo in fondo non era granché. Specchi, tappeti, mobili, vasi, quadri, perché alle persone piaceva questa roba? Un po’ delusi uscimmo fuori, qualcuno faceva le fusa sperando di essere ripagato con del cibo, qualcun altro si riposava nelle aiuole del grande giardino, io mi avvicinai a quel cancello che, vista la quantità di gente che c’era intorno a farsi le foto, doveva essere parecchio importante, e in effetti, appena riuscii a inquadrare bene la situazione, quella porta, quell’immagine, aveva tutta una serie di suoi perché, il mare azzurro oltre le inferriate ti faceva sentire anche a te un po’ azzurro (sono, in questo istante che dura millenni, un essere che voi terrestri chiamereste alieno, per il vostro sistema di misurazione arrivo da lontanissimo, ma in realtà è come se fossimo vicini di casa, non ho un corpo così come lo intendete voi, ne ho centinaia, il mio sistema biologico risponde a reazioni chimiche che voi non conoscete, la mia stirpe è inserita in un processo di evoluzione avanti miliardi di secoli rispetto a quello umano, noi abbiamo lasciato indietro la scienza in favore dello spirito, abbiamo sconfitto il dolore, la rabbia, la sofferenza, l’odio, abbiamo eliminato i dogmi delle società organizzate, non c’è più potere, denaro, classi, ricchezza o povertà, eppure, per ragioni che nemmeno noi siamo ancora riusciti a comprendere, facciamo tutti parte di un unico, inimmaginabile, disegno, ogni essere dell’universo che si può definire tale risponde, anche inconsapevolmente, ad una legge superiore che in qualche modo ci affratella, ed è per questo che sono venuto qua, che sono arrivato sul vostro pianeta per far sì che io possa capire meglio voi e voi me, che poi siamo la stessa cosa, la stessa scintilla che brucia come un fiammifero nelle profondità siderali dello spazio. Ora che mi avete rinchiuso in questa base militare a decine e decine di metri sotto terra, so che mi ucciderete, non ve ne faccio una colpa, siete ancora legati a schemi mentali involutivi e reazionari, ciò che importa è che voi sappiate che non siete, che non siamo soli, che il cammino è al di là di ogni calcolo matematico lungo e complicato, abbiate fede e fiducia, io tornerò, o magari no, magari finalmente dopo questa vita sarò libero e diventerò pura e inesprimibile luce), e anche un po’ felice ma quella felicità intrisa di malinconia, non so, pensieri troppo complessi per un semplice gatto, era meglio tornare indietro che perdere tempo in simili elucubrazioni, se non fosse che, che poi accadde, e accadde forse per una mia distrazione o forse perché, banalmente, doveva accadere, fatto è che attraversando la strada un taxi mi investì spiattellandomi sull’asfalto, già, le zampe posteriori, straaaak, tranciate di netto, budella, feci, sangue e organi che non sapevo nemmeno di avere dentro di me. Sì, quell’istante fu molto doloroso, ma così come le nascite anche le morti si assomigliano un po’ tutte, che siano improvvise o meno. In quel momento, per un secondo veramente impercettibile, puoi fare un bilancio della tua esistenza, spoiler: c’è sempre molta nostalgia alla fine. Ma quella volta successe qualcosa di diverso. Dall’altra parte della strada vidi una bambina staccarsi dalla mano della mamma e correre in mezzo alla carreggiata dribblando motorini e facendo inchiodare le automobili, con la vista già appannata notai appena appena che la bimba si stava chinando su di me, di certo non l’avevo mai vista prima e a lei non importò nulla della pozza di ghiandole e frattaglie che mi circondava, si inginocchiò sulle viscere assediata dal frastuono dei clacson, mi prese la testa e iniziò ad accarezzarla con un’innocenza che non conoscevo, e così, poco prima che la mia anima venisse proiettata in un altrove per incarnarsi in un altro corpo e ricominciare daccapo una nuova vita, capii che tutto quanto ricerchiamo fin dall’inizio, ma proprio dal primo vagito o gnaulio o guaito, quale che sia il tempo, lo spazio o la dimensione, ha una sola ed unica verità, e che questa verità si trova nell’amore.