lunedì 29 maggio 2017

Argentinian Lesson

È una storia di emigrazioni Argentynska lekcja (2011), film firmato da Wojciech Staron, principalmente direttore di fotografia, che si gioca dall’inizio la carta della sottrazione; nella ripresa di una comunità d’origine polacca stabilitasi in Argentina il regista punta all’essenzialità e allora ecco tanta camera a mano con annesso pedinamento dei ragazzini in scena, dialoghi risicati e probabilmente parecchia improvvisazione. Ciò che viene a galla è una ricerca su un realismo naturale in cui Staron tenta di farsi fantasma, la sua trasparenza nonostante le inquadrature ravvicinatissime lascia i protagonisti apparentemente a loro agio dimostrandosi per lo più “veri” al nostro occhio, parimenti è però difficile non avere qualche perplessità sull’andamento che costituisce Argentinian Lesson, partendo come documentario (quasi) puro con l’introduzione di Marcia si ibrida trasportando il tutto in un limbo abbastanza tiepidino, chi scrive ritiene che in casi del genere il raggiungimento di un equilibrio tra finzione e non è una meta ardua da raggiungere che se mancata rischia di provocare una diffusa disomogeneità, il che, sempre a mio umile modo di vedere, è quanto accade nel film di Staron, ci sono dei deficit tra le componenti che lo istituiscono, a taluni episodi si guarda con indifferenza (di base: in una situazione dove non accade granché [o meglio, è più Staron a non fare di quel “niente” qualcosa di più] quanto appeal ha la vicenda di una famiglia polacca in Sud America?), ad altre con leggero sospetto (l’intensificato snodarsi dell’amicizia tra Janek e Marcia o le vicissitudini di quest’ultima).

È comunque un film strano Argentynska lekcja, pur avendo un’identità incerta e pur non raggiungendo i sessanta minuti di durata, contiene al suo interno l’accenno a svariate tematiche, ma la susseguente trattazione zoppica. L’argomento che fa da miccia, ovvero l’emigrazione dalla Polonia all’Argentina, si riduce a qualche parentesi dove i figli dei migranti tentano di studiare la lingua parlata dai propri genitori. La portata principale dell’opera localizzata nel concetto di amicizia è, smentitemi pure nel caso, alquanto piatta e prevedibile, posso apprezzare lo spirito dei piccoli sullo schermo ma qui ci si ferma. A rimorchio abbiamo poi la questione della scarsa abbienza con delle forzature notevoli (Marcia alle prese con vari lavori) che inquinano la naturalezza della storia. Mi preme dire che non è tanto il fatto in sé ad essere stonato (di undicenni che lavorano nei paesi poveri ce ne saranno fin troppi), quanto come ci viene proposto, forse c’è troppa celerità nel collage che Staron offre e quindi al posto di poter sentire oltre il vedere, vediamo e basta, il che è sempre avvilente per una sana propensione alla Visione. A bilanciare un paio di immagini si trattengono con piacere, l’ultimo sguardo di Janek in camera, con il successivo stacco sui titoli di coda, rimane.

mercoledì 24 maggio 2017

Un padre, una figlia

Devo dire che Bacalaureat (2016) mi ha annoiato abbastanza, e di questa noia Mungiu non è poi nemmeno così responsabile, è un discorso più ampio, oltre che strettamente soggettivo e pertanto chiedo scusa se scriverò in modo superficiale del film in sé, che si fonda su quei processi di sensibilizzazione verso l’arte affinati da centinaia di visioni, è, in particolare, la cogente necessità di poter assistere ad opere in grado ogni volta di alzare l’ipotetica asticella del disorientamento, che detta così sembrerebbe uno slogan da quattro soldi, ma, non so voi, io preferisco perdermi guardando il cinema (anche in me stesso) piuttosto che procedere con il navigatore satellitare perché poi succede che tu un film che non hai mai visto, in realtà lo hai già visto, sai tutto ancora prima dei crediti iniziali, conosci la struttura che costituirà la storia, predici con un basso margine di errore i possibili snodi narrativi, ipotizzi con ampia sicurezza le dinamiche sottotestuali che infarciscono la pellicola, sentenzi il fatto che comunque ci sarà un finale risolutore, negativo o positivo che sia poco importa, e tutto ciò non è granché appagante, non è questo, per il sottoscritto, “andare” al cinema poiché preferisco di gran lunga che sia il cinema ad “andare” in me, siamo noi la vera sala di proiezione in cui si manifesta il Film, e potrei anche andare avanti con altre mirabolanti similitudini ma il concetto penso sia stato recepito: Un padre, una figlia è il solito cerchio disegnato col compasso, noi di forme però non ne vogliamo più.

Quindi Mungiu è esente da colpe, e forse proprio qui giunge ad un equilibrio globale che nei due titoli precedenti 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) e Oltre le colline (2012) sbilanciati da gratuite intensificazioni drammatiche non era registrabile. La perfetta orchestrazione sceneggiaturiale dà vita ad un impianto drammaturgico che cova i bollenti argomenti che più premono al regista, c’è un bel ventaglio di tematiche servite su un vassoio dorato che ha le sembianze di un sasso che infrange una finestra, ecco allora le grandi questioni etico-morali sui sogni (irrealizzati) dei genitori che si riversano sui figli, sulla condotta che un padre dovrebbe o non dovrebbe tenere durante un passaggio esistenziale della propria figlia, e poi, per ispessire la portata semantica, le questioni dei singoli vengono fatte copulare con quelle della collettività in un procedimento ripreso da molti – se non tutti – i registi della (ormai poco) new wave rumena, perché comunque siamo sempre in Romania e la Storia di sicuro non si può cancellare, in più ‘sta volta Mungiu va anche oltre il Paese di appartenenza illustrando meccanismi che ci ricordano, se mai ce ne fosse bisogno, come funzionano le cose in Italia e si presume in altri Paese del mondo, compiendo dunque un gesto che sfiora l’universalità e che mi sento di definire nuovo rispetto ai precedenti dell’autore nato a Iași. Eppure devo ritornare alla Noia, eh sì, non ne sono sfuggito nemmeno al cospetto delle innegabili qualità di cui Bacalaureat dispone, ho sentito e sento tuttora la noia sommergermi mentre il Dottore cercava di districarsi nel suo labirinto socio-personale, ed è sempre la noia a farmi tirare via svogliatamente queste righe che si sfibrano parola dopo parola, e prima di puntare il timone verso altre isole mi ricordo che tanto tempo fa avevo visto un film di nome Occident (2002), chissà se lì mi ero annoiato, mi pare di no...

lunedì 22 maggio 2017

Megaheavy

L’unico nonché pallido merito che si può attribuire a Fenar Ahmad, regista danese nato a Brno da genitori iracheni, è quello di essersi affidato a tal Gro Therp, una casting director che in Danimarca ha lavorato a film passati anche da queste parti (Dennis [2007]; Teddy Bear [2012]; A Hijacking [2012]), e che per Megaheavy (2010) scova una ragazzina dai tratti estetici che colpiscono, quasi un viso “difettoso” il suo, uno sguardo spento, un corpo sproporzionato: è Jolly, la teenager che a dispetto della sua goffaggine (e lo dimostrerà nel finale) sa ottenere quello che vuole.

Per il resto, cioè praticamente per TUTTO, Ahmad non pervenuto. È quasi superfluo stare qui ad elencare le grosse banalità che ingolfano il cortometraggio sotto esame, il banale, e di conseguenza il prevedibile, è diventato ormai il nemico giurato del sottoscritto: non sopporto letteralmente più una forma che vorrebbe inserirsi nella cerchia dell’arte visiva dove ogni sua componente costitutiva si infila nel gregge della normalità. È normale lo sviluppo narrativo che contempla una sottospecie di colpo di scena finale proprio perché è normale, soprattutto nei lavori brevi, metastatizzare la globalità con un rovesciamento conclusivo, ciò lo vedo come una forma alquanto bizzarra di ansia da prestazione dove un regista avendo paura di non essere all’altezza punta tutto sull’effetto sorpresa. Ed è normale l’impiego di ralenti (multerei tutti coloro che usano tale escamotage) poiché certo cinema per riuscire ad enfatizzare ha bisogno di espedienti intensificanti e di operare con elementi che finzionalizzano il girato, trucchetti che possono attirare al massimo l’attenzione di un pivello, per colui che ha un minimo di coscienza critica il risultato sarà come lo spazio nero che qui sotto ci separa dal prossimo paragrafo.

Ed è purtroppo normale, per me, non essere neanche lontanamente sfiorato da un racconto del genere, nemmeno l’allestimento di un quadro dal sapore un po’ retrò (quasi dolaniano, siamo negli anni ’80-’90) riesce a scuotere qualcosa. A chi si accontenta lascio Megaheavy, le mie orbite oculari sono calibrate per scandagliare ben altro.

venerdì 19 maggio 2017

Queen of the Desert

Se questo fosse un blog che tratta assiduamente cinema da botteghino allora su Queen of the Desert (2015) si spenderebbero anche parole benevole, soprattutto se si vede il film nell’ottica della prova più commerciale di un regista che è sempre stato un po’ al limite tra l’autorialità e non. In fondo, si potrebbe pensare, quest’opera di Herzog fila via senza particolari intoppi ed inoltre, nonostante il palese taglio per il grande pubblico, permangono dei segnali di appartenenza al curriculum del bavarese. Ma ad oltre il fondo, che del vecchio Werner ha parlato molto nei tempi andati, l’arte di Queen of the Desert non interessa perché non c’è arte, solo dollaroni profumati che tradotti sullo schermo significano schematizzazione e preparazione algoritmica della biografia di Gertrude Bell che in realtà potrebbe tranquillamente essere la biografia di qualunque altro personaggio storico, e penso ciò perché è patetico assistere ad un’insistenza sulle tematiche sentimentali cucendo due impalpabili liasion addosso la lattea pelle della Kidman [1], ma quello che è patetico è il pane delle masse, per cui taccio lasciando a loro l’illusione di fruire qualcosa che trasmetta emozioni (sono solo situazioni prefabbricate, stolti!).

Primi quaranta minuti indecenti, probabilmente il peggior Herzog mai visto, a confronto i suoi due precedenti lungometraggi di finzione in terra yankee sono delle pietre miliari (Il cattivo tenente [2009] e My Son, My Son, What Have Ye Done [2009]), dopo si rileva il cuore della pellicola diviso a metà: da una parte è leggibile una sovrapposizione tra il creatore e la creatura, Gertrude è un avatar di Herzog l’esploratore/viaggiatore/archeologo di storie e scopritore di umanità, dall’altra si intuisce un possibile sottotesto che rimanda all’attualità dove le comunità arabe dell’epoca dimostrandosi accoglienti e rispettose verso la donna inglese proiettano un possibile messaggio di fratellanza. Tenendo bene a mente che quanto appena detto si genera da un impianto che più classico non si può, va ora ricordato che Herzog non è mai stato granché famoso per i lavori di fiction, a parte il fortunato periodo al fianco di Kinski tra gli anni ’70 e ’80, non sono stati di certo oggetti come Grido di pietra (1991) o L’alba della libertà (2006) ad averne accresciuto la fama e la rispettabilità, però con Queen of the Desert ha toccato davvero il punto più basso, qui c’è tutta una professionalità che non vorremmo vedere e c’è una barriera che limita la fruizione dato che il limite è proprio la rappresentazione poiché è essa stessa limitante di per sé: come si può credere ad un deserto che sembra una zona pedonale coperta di sabbia dove tutti, anche i beduini più dispersi tra le dune, parlano un buon inglese? La costruzione fittizia, il non volersi “fidare” della realtà, luogo dal potenziale filmico infinito, preferire la recitazione alla spontaneità della vita, sono queste le difficoltà che affliggono il film, ed Herzog paradossalmente saprebbe anche come comportarsi, eccome se lo saprebbe!, lui era già stato in un luogo così impervio, ma i tempi di Apocalisse nel deserto (1992) sembrano così lontani…
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[1] Ne vogliamo parlare di una cinquantenne spacciata per un’irrequieta giovinetta? Questo è il dazio da pagare quando conta più la vendibilità del prodotto che la sua concreta qualità.

martedì 16 maggio 2017

Un'ora sola ti vorrei

Opera di montaggio (si tratta, qui, esclusivamente di materiale d’archivio) e di memorie (perché tale materiale riguarda direttamente gli avi della regista Alina Marazzi), Un’ora sola ti vorrei (2002), che ha solo la colpa di aver anticipato quell’odiosa moda recente di intitolare i film come alcune canzoni della musica leggera italiana, è un modello di cinema che guarda a Chris Marker mitigando la portata sperimentale in favore di una fortissima intimità che genera una specie di caldo guscio contenente ciò che ci fa spesso tenere sulla corda della narrazione: una storia, no? Una storia in cui la Marazzi, già assistente di Paolo Rosa ne Il mnemonista (2000), riesce a trasmettere una portata di sentimenti che è quasi una bordata, e, pur non essendo un titolo altisonante, possiede comunque una filigrana preziosa che lo fa imporre, ma sempre con delicatezza, alla nostra attenzione. Noi, spettatori che niente sanno della famiglia Hoepli e dei suoi discendenti, subiamo la dolce invasione di questo cinema epistolare dove la strenua forza del ricordo, pur non appartenendoci minimamente, ci riempie, tale è la potenza della settima arte quando incontra la Grande Reminiscenza e quando il tutto è predisposto come la regista ha fatto, si tratta, in una parola, di colmatura.

Ma Un’ora sola ti vorrei non può e non deve sfuggire ad un’analisi attraverso l’ottica del legame madre-figlia perché nel suo nucleo c’è quel laccio che pulsa; un battito di lucore, un diffondersi dorato, è un documento davvero triste ma di una tristezza che sa di vita, e non di una sola, bensì di due e di come la figlia Alina, attraverso un processo di evocazione, diventi anche la propria madre Liseli che parla a lei, e quindi a se stessa, in un viaggio sentimental-coscienziale che è tanto elegia quanto elaborazione di una perdita fino al relativo, possibile, superamento, perché la protagonista del film non è Liseli Hoepli Marazzi, ma Alina, cui un dio ha donato lo stesso sguardo malinconico della mamma. Immagini-piume che dondolano nell’aria, fasci di particelle souvenir, la soggettività di una donna/figlia/regista che si apre all’altro uomo/figlio/spettatore, c’è, e lo si sente, un cordone ombelicale che in fondo lega ognuno di noi agli altri, se lo vogliamo, se lo vogliamo sentire. Meraviglia su un dettaglio: “aspettiamo un bambino…”

venerdì 12 maggio 2017

Deafness

Glukhota (2010), ovvero l’incubatrice di Myroslav Slaboshpytskiy per il progetto The Tribe (2014). Anche qui il regista ucraino, affascinato dal linguaggio dei segni fin da quando era un bambino poiché la sua scuola era vicina ad un convitto per ragazzi sordi, utilizza questo metodo per imbastire il canale comunicativo del film, che, a conti fatti, diventa un canale volutamente senza ricevente poiché i destinatari, cioè noi spettatori, orfani di sottotitoli, nulla conosciamo a proposito dello scambio animato che i due ragazzi hanno. La strategia di Slaboshpytskiy è dunque evidente: estromettere chi guarda dei e dai codici che solitamente normano una conversazione e di rimando anche un film prettamente narrativo come lo sono tutti quelli che arrivano nelle sale. Il regista non è che si lanci in una qualche forma d’avanguardia, più banalmente utilizza un’altra natura della narrazione per raccontare una storia, non c’è trascendenza, ma, almeno nei dieci minuti di Deafness, emergono punti di interesse.

Indubbio che così strutturato e così intessuto il corto esprima abbastanza bene le sue potenzialità, il fatto che chi assiste è all’oscuro delle motivazioni che mettono il poliziotto sulle tracce del giovane snellisce la trama da faccende che altrimenti sarebbero state superflue agendo, al contrario, sul possibile sforzo mentale dove abbondano i condizionali (“potrebbe essere che…”). Ma dato il ristretto minutaggio non c’è spazio per interrogativi personali, la presa realistica di Slaboshpytskiy, camera a mano in un angusto corridoio urbano (tutto accade in un metro quadrato di desolazione), ci costringe all’atto della testimonianza oculare: non è permesso comprendere i due sordomuti come allo stesso modo non è possibile carpire le invettive dei poliziotti con i loro modi ben poco ortodossi. Ed è proprio lì, in quel piano fisso disturbato dallo stordente ronzio dell’automobile, che si sostanzia Deafness: la crudeltà dell’immagine, recipiente di possibili e aperti significati.

Che tutto ciò funzioni in un contenitore di neanche un quarto d’ora non stupisce poi troppo, per The Tribe, film di oltre due ore, i discorsi da fare potrebbero essere altri. Vedremo.

lunedì 8 maggio 2017

In Memory of the Day Passed By

Praejusios dienos atminimui (1990) è uno dei lavori giovanili di Sharunas Bartas (prima dovrebbe esserci solo un cortometraggio dal titolo Tofolaria, 1986), un film dal corpo smembrato, tagliato, ma comunque fatto di corpo, irriducibilmente. A parte il percepibile stato di acerbità che aleggia, dato più che altro da dei mezzi al tempo non così moderni (siamo pur sempre in una Lituania satellite della Russia), il substrato su cui Bartas ha voluto erigere la propria creatura è percepibile e condivisibile: già a ventisei anni questo regista vedeva il cinema da una posizione laterale, e destituendo le coordinate tutto si svolge in un limbo, una zona votata all’apertura abissale, sicché uno storpio che si sposta a fatica su un carrellino o degli esseri umani che si decompongono in una discarica riescono a tendere verso l’infinitezza, e vedendo immagini del genere ci si eleva: il corpo di cui sopra, nonostante venga spezzettato in tasselli diseguali come sono gli sguardi accidentali sugli abitanti di una città, lievita in una dimensione aurea e al contempo putrida come è giusto che sia, ché dai diamanti… ad ogni modo, il passaggio ubriacante dal microscopico al macrocosmico è un salto vertiginoso che trova compimento in quel cinema che sa stimolare gli invisibili organi della sensibilità, categoria in cui In Memory of the Day Passed By accede con diritto.

Il merito di Bartas è quello di restituirci un’estetica forte nella sua fragilità, un vero e proprio immaginario storico-artistico che flirta con i monoliti della cinematografia sovietica e che successivamente troverà per mano di altri registi un approdo nelle sommosse autoriali di Aristakisian (fondamentale il suo dittico Le palme delle mani [1994] e L’ultimo posto sulla Terra [2001]) e di Tarr, in realtà a partire dai lungometraggi seguenti il lituano abbandonerà i rimandi russi per farsi eterico come le iridi della sua musa Katja Golubeva, e già in Three Days (1992) e in The Corridor (1995) vi sarà un affrancamento (ma forse non del tutto) da certi stilemi, qui invece il richiamo ad un’”atmosfera” riconoscibile è solido e di conseguenza il ventaglio dei sentimenti potenziali si materializza nei tag di povertà, di senso escatologico, di altro-mondo, ecc. Il tour full-day di un Bartas poco più che principiante in una città sconosciuta trasporta ogni cosa nel nucleo e al contempo ai confini dell’universo, fate buon viaggio di non ritorno.

Inutile nota a margine: a causa di un mio personale disturbo maniacale cerco sempre di far corrispondere il titolo con la correlata locandina. Ora, per questo film non ho idea e nemmeno voglio sapere cosa sia successo al tempo della sua uscita (ammesso che sia uscito), fatto sta che la titolazione inglese In Memory of the Day Passed By trova riscontro in un malandato poster rinvenibile in Rete dove però è stampata la dicitura “In memory of a day gone by”. Visto l’inghippo ho preferito lasciare il titolo inglese ufficiale (almeno per IMDb) e l’unica altra locandina disponibile su Internet, quella per il mercato russo. Insomma, un mezzo pasticcio a cui nessuno, e per primo Bartas immagino, importerà niente.

venerdì 5 maggio 2017

Qu'ils reposent en révolte (Des figures de guerre)

Quando il cinema ha incontri ultra-ravvicinati con il reale, e quando copula con esso fino ad incastrarvisi in una sovrapposizione che rasenta la totalità, allora non può che generarsi Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010) di Sylvain George che è un film grande e non solo per il suo metodo di trasmissione ma anche per l’incandescente nucleo argomentativo che affronta, e questi due rivi che si compenetrano creando un corpo che è “la realtà delle cose” danno luogo ad una proiezione che sa vestirsi di un’autorialità e di un’artisticità che forse non sono esattamente proprie di oggetti del genere, e qui sta la bravura di George che non cede al mero reportage giornalistico né ammicca allo spettatore (vedi Fuocoammare, 2016) ma fa della sua camera una porta che è lì, esattamente lì a Calais, in mezzo ai poveracci sfiancati da traversate omeriche, e che al contempo non è solo lì ma anche nella dimensione di un cinema che si atuodilata, che contempla una battigia e la schiuma delle onde fatta vibrare del vento, che nel bianco e nero diventa atemporale, e(s)terno, altro, senza mai esserlo del tutto, sostando dunque in un limbo uguale a quello in cui sono impaludati i rifugiati in quella zona della Francia. La chiave che ci permette di leggere l’opera è sita nella capacità della stessa che ha nel fare ciò che è quasi commovente se si parla di settima arte, e mi riferisco alla cosa più semplice, e perciò più difficile per un regista, che è l’essere in grado di estrapolare dalla realtà una possibile storia, perché, come già ripetuto all’infinito, la realtà contiene tutte le storie senza bisogno di finzionalizzare alcunché.

E allora quanta potenza etico-estetica c’è in un ragazzo che fugge sotto un camion diretto chissà dove? E quali mondi si scoperchiano di fronte ad un altro ragazzo, lo stesso, diverso, che si rannicchia su un marciapiede per dormire? Seguendo queste vite smarrite che lasciano dietro di sé gli scarti di una loro presenza come se fossero un esercito di Pollicini (un sacchetto di H&M, le scritte sui muri), George ci somministra un documento che è politica piuttosto che un “banale” documentario, una politica sempre urgente in cui non è facile trovare un’uscita di sicurezza [1] e dove il regista stesso si tuffa facendoci provare l’asprezza del conflitto: fa male, davvero, la confusione e l’incomprensione che inevitabilmente sfocia in violenza fra persone che non hanno niente in comune, a parte il “dettaglio” di appartenere alla stessa razza, umana ovviamente. Senza retorica spicciola, come del resto George insegna sapientemente, Qu’ils reposent en révolte interroga e scomoda, esalta senza piedistalli, addita senza paternali, racconta senza una storia perché non fa altro che raccontare la Storia che è la nostra, e mentre io uso i polpastrelli delle mie dita per scrivere queste parole, qualcun altro, proprio adesso, o ieri, o sicuramente domani, sta-va/rà marchiando le sue stesse dita con le spirali di una vite arroventata per cancellarsi le impronte digitali disidentificandosi per trovare un’identità: a ciò ambisco quando vedo un film, arroventarmi a mia volta per bruciare nell’intensità della visione e non essere più io, ma un profugo qualunque che non mangia da giorni e che ha perso tutta la sua famiglia da qualche parte in Turchia.
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[1] Si pensi al fatto che sebbene assistiamo allo sgombero della Giungla nell’anno che dovrebbe essere il 2009, per circa tutto il lustro successivo la baraccopoli ha comunque continuato ad espandersi diventando il più grosso campo rifugiati europeo, almeno fino ad ottobre ’16, data di quello che ad oggi dovrebbe essere l’ultimo smantellamento.

martedì 2 maggio 2017

Ore wa Sono Sion da!

Dal titolo si srotola un lungo tappeto percorribile con gli occhi, perché Ore wa Sono Sion da! (1985), che si tradurrebbe all’incirca con Io sono Sono Sion!, contiene quel potere ostensivo che si percuoterà come un sisma in tutta la filmografia di lì a venire del giapponese. Sfido a trovare un film di Sono dove non ci sia uno slancio autobiografico dei personaggi sulla scena (ce n’è più di uno, e guarda caso si tratta di due delle opere peggiori: Be Sure to Share [2009] e The Land of Hope [2012]), slancio occultante null’altro che la vera autobiografia, quella di Sono stesso che nel suo cinema ha spesso trovato nei vari personaggi degli evidenti alter ego, e qui il discorso trova apice per ora in Why Don’t You Play in Hell? (2013). Constatato il focus sull’identità riassunto nel titolo e ripetuto due tre volte da un giovane Sono davanti alla cinepresa, ciò che costituisce il resto di Ore wa Sono Sion da! è di una amatorialità lampante, tanto da far apparire il corto d’esordio Love Song (1984), di cui vengono riproposti dei brandelli, un lavoro più “maturo” con almeno una sottospecie di idea a sorreggerlo.

Che cosa accada in Ore wa Sono Sion da! è un mistero imperscrutabile, inizialmente parrebbe una specie di diario dove Sono annota date, ore e minuti facendo il countdown del suo compleanno (il pensiero va a Keiko desu kedo, 1997), ma nel giro di poco si degenera in un pasticcio dilettantesco che forse, e sottolineo forse, vorrebbe mostrare la realizzazione di un film in itinere e quindi fare del metacinema ante litteram, il risultato è però lontanissimo dal minimo sindacale e lo spettatore è costretto a vedere Sono che: con una vocina stridula e comportandosi come un buffone intervista una ragazzina; si fa rapare la testa urlando e ansimando; amoreggia nudo con dei busti di statua. Il tutto, come detto, trasmesso con un metodo privo della benché minima professionalità e, mi permetto di aggiungere, orfano di un progetto guida. È davvero un film in preda a raptus insensati e mal assortiti, l’unico spunto interessante è quando Sono, verso la fine, inizia a dissertare sull’effettiva presenza nella diegesi e su ciò che la camera riesce a cogliere o meno, briciole teoriche che nella prima stagione della carriera troveranno poi completamento in alcuni fugaci blitz sperimentali.