È dal 2010 con Deafness
che Slaboshpytskiy sta cercando di portare avanti un preciso discorso
sulle strade comunicative che caratterizzano il cinema odierno, non
per niente anche il successivo corto Nuclear Waste (2012),
sebbene privo del linguaggio dei segni, si focalizzava sulla scelta
del totale mutismo, zero battute per gli attori in scena. Ovvio che
tutto questo poteva e doveva trovare compimento in un lungometraggio,
più precisamente nei centoventi minuti di Plemya (2014) la
cui caratteristica fondamentale viene rimarcata all’inizio:
attenti, qua non ci sono sottotitoli né spiegazioni atte
alla comprensione dei gesti. A Slaboshpytskiy vanno riconosciuti dei
meriti poiché attraverso The Tribe e ai due lavori brevi che
lo anticipano ha dato dimostrazione che tra le varie potenzialità
della settima arte ce n’è una spesso sottovalutata: il silenzio.
D’altronde il cinema dopo il cinema muto non ha praticamente mai
abbandonato la possibilità di raccontare per mezzo delle parole, e a
ruota gli spettatori si sono cullati sull’ancoraggio fornito dagli
scambi dialogici, una specie di sicurezza che garantisce didascalia e
comprensione. Onore al regista ucraino quindi, e al “coraggio”
messo in campo, Plemya utilizzando il canale del linguaggio
dei segni, e perciò un metodo indecifrabile ai più, riesce a trasmettere le informazioni necessarie per leggere la storia tanto
che in alcuni frangenti si è così inconsciamente sintonizzati sulle
frequenze del film che non ci si interroga nemmeno più su che cosa
si staranno dicendo i ragazzi dell’istituto. Ciò conferma un’idea
che il sottoscritto si è fatto da tempo, ovvero che il cinema può
fare a meno dell’attorialità e perfino dell’ostensione dei
vocaboli, sono già sufficienti le immagini per costruire una
narrazione.
Bene. Adesso le note
stonate: appurata ed accettata una struttura teorica a cui è
doveroso rivolgere attenzione, chi scrive non è rimasto
particolarmente impressionato dal risultato che un tale impianto ha
modellato. Ok il racconto per immagini, ma se andiamo ad analizzare
il racconto in sé dobbiamo tirare fuori quella fastidiosa frasetta
che risponde a “niente di che”, ed è un pelo grave che si
risponda all’album di violenza, sottomissione e disumanità con
tale noncuranza. Forse sarà una certa abitudine all’eccesso forgiata dalla massmedialità accerchiante, fatto
sta che The Tribe, pur spingendo su una ferocia inaudita, non
suscita uguale ammirazione se si paragona il cosa al come. Nel
registro drammatico, contenente comunque momenti apicali (si riveda
la scena dell’aborto o il finale davvero brutale), si affastellano
episodi esplicitamente crudeli riguardanti bullismo, furti, prostituzione e
via dicendo, una risultanza di azioni esecrabili che però non
sconvolgono più di tanto, ad essere maligni parrebbe che
Slaboshpytskiy, obbligato a tenere desta l’attenzione spettatoriale
con modalità non verbali, abbia esagerato nella costante ricerca di
un impatto emotivo ficcando ogni due minuti un qualche sopruso di
vario genere. A mio avviso tale scelta riduce la forza dell’opera
che così facendo, pur avendo qualità innegabili, si accoda al
trenino del già visionato. Vedremo Slaboshpytskiy cosa combinerà in
futuro, dubito continui a battere codesta via, non so se vi sia la
necessità di un altro film come The Tribe.
Grazie per questa visione ed "eviscerazione" del senso della pellicola. Mi ero ripromesso di affrontare il cinema di Slabo e lo farò!
RispondiElimina... cos'è quell'emoticon nel tuo nome? Doraemon? :D
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