mercoledì 30 aprile 2008

INLAND EMPIRE - L'impero della mente

A mio parere questo film è troppo avanti per noi. Davvero. Ho idea che fra parecchi anni verrà ripreso e studiato nelle università, non per la trama, che in fin dei conti è più limpida di quanto possa sembrare, ma per il modo in cui viene raccontata.
Il tempo di Lynch non è lineare, è fatto di continui piani che si sovrappongono l’un l’altro, così come Nikki diventa l’attrice di 47, e così come l’attrice di 47, prigioniera della maledizione polacca, rivede in una tv la vita di Nikki che si è fusa con quella del personaggio che interpreta, così come era successo a lei.
Capolavoro.
E alla fine, quando parte una musica celestiale, mi sono sentito disteso, appagato, ma non saprei dire il perché.

Comunque le parole sono inutili, meglio lasciar parlare le immagini.











martedì 29 aprile 2008

Eraserhead - La mente che cancella

La prima volta che vidi Eraserhead avevo 18 anni e mezzo. Fu un colpo di fulmine.
Fino a quel momento la mia concezione di cinema era circoscritta alle pellicole che venivano trasmesse nelle sale o alla televisione, non immaginavo neanche lontanamente di quale universo si celasse oltre quello che già conoscevo.
Non capii assolutamente nulla alla prima visione di Eraserhead, però rimasi così affascinato dall’atmosfera malata che lo permea, anzi direi che me ne innamorai, tanto da appropriarmi del nome nella mia vita virtuale.

A distanza di due anni e sei mesi ho deciso di rivederlo. Non so perché, non c’è un motivo.
Lynch non parla quasi mai pubblicamente dei suoi film, ed in particolare di questo, perché ritiene che lo spettatore debba farsi una personale idea di ciò che ha visto.
Premettendo che Eraserhead deve essere seguito con la massima attenzione, io l’ ho interpretato nel seguente modo:
Henry è una persona con dei problemi mentali, e Lynch ce lo fa capire (a modo suo) fin dai primi secondi. Quando il volto del protagonista è messo di sbieco sullo schermo appare l’immagine di una specie di spermatozoo sopra di lui, se si osserva bene la testa di questo essere è posizionata in corrispondenza a quella di Henry, e la sua “coda” assomiglia ad una colonna vertebrale. Subito dopo viene inquadrato un tizio che muove una leva, e contemporaneamente l’essere-cervello schizza via, precipitando in una pozza scura.
La qualità che rende Eraserhead un must assoluto è l’atmosfera che Lynch è riuscito a creare, lo score fatto di rumori metallici alimenta uno stato di ansia nello spettatore, cosicché anche una semplice cena dai genitori di Mary, la ragazza di Henry, tocca vette altissime di inquietudine che hanno l’apice nella scena del pollo insanguinato. Il sangue fa perdere la testa alla madre di Mary che chiede insistentemente ad Henry se ha avuto dei rapporti sessuali con sua figlia, ecco che il sangue del pollo, forse, è la rappresentazione dello sverginamento di Mary.
Appurata la relazione intima tra i due, Henry e Mary si trasferiscono a casa di lui insieme alla loro creatura, un mostro amorfo con la testa da rettile.
L’equilibrio della vita coniugale è spezzato dal pianto del figlio-mostro che esaspera Mary a tal punto di farla tornare dai suoi genitori.

Da questo momento in poi nel film si alternano scene oniriche e scene reali.
È sogno quando il protagonista vede la cantante coi guancioni che sembra vivere nel calorifero della sua stanza.
È realtà quando Henry va a letto con la sua vicina di casa, una prostituta.
Particolarmente importante è la sequenza delle matite. Si vede un pavimento a scacchi su cui schizzano via cervelli simili a quelli della sequenza iniziale, il volto di Henry è terrorizzato, picchietta nervosamente sulla ringhiera della balaustra a cui è appoggiato, ad un tratto la sua testa salta in aria e piomba sul pavimento a scacchi, al posto di essa affiora quella del figlio-mostro che piange. La testa mozzata intanto è circondata da una pozza di sangue, la mdp stringe su di essa mentre sprofonda dentro alla pozza, così come era successo nella sequenza iniziale. Inquadratura fissa e si vede passare la testa sul fianco di un palazzo, una volta a terra viene raccolta da un bambino che la porta da uno strano tizio. Quest'ultimo aspira da essa un tubicino di gomma che viene inserito all’interno di un macchinario adibita al posizionamento di gommette per cancellare sulla capocchia delle matite. Quando il processo ha fine il tizio testa la matita su un foglio di carta, tira una riga e poi cancella con la gomma, poi spazza via le “briciole” che si sono formate sul foglio. La mente che cancella. Più chiaro di così.
Infine, la vista soggettiva della prostituta che tra le braccia di un altro vede Henry come una persona acefala, forse è la considerazione che essa ha di lui.

Le righe scritte qui sopra sono soltanto mie supposizioni, forse è tutto sbagliato o forse è tutto giusto. Probabilmente, però, non ha molto senso spaccare il capello quando si tratta un film “weird”, lo stesso Lynch ha definito Eraserhead come “un sogno di cose oscure e inquietanti”, quindi non c’è altro da fare che lasciarsi trasportare dalle immagini che solo questo regista sa regalare.

domenica 27 aprile 2008

Tideland - Il mondo capovolto

Non so da dove cominciare per parlare del penultimo film di Terry Gilliam.
Solitamente, durante la visione di una pellicola, scrivo qualche nota su della carta perché per mancanza di tempo e di voglia, difficilmente riesco a vedere un film intero di fila, e dunque, centellinandolo in più giorni rischio di dimenticarmi qualcosa di importante che avrei voluto scrivere qui sul blog.

Il mio taccuino, riferito a Tideland è praticamente bianco. La domanda che si è affacciata nei miei pensieri immediatamente dopo i titoli di coda è stata: “Quindi?”.
Possibile che sia tutto qua? Una bambina che dialoga con la testa di una Barbie e che sbaciucchia un ritardato mentale sono lontani anni luce dalla trama cervellotica de L’esercito delle dodici scimmie (1995), o dall’acida ironia di Paura e delirio a Las Vegas (1998).
Eppure all’inizio Tideland promette molto bene, grazie ai genitori di Jeliza-Rose che sono dei pazzi furiosi. Il padre, un Jeff Bridges invecchiato per l’occasione, si fa aiutare dalla figlia nell' inniettarsi la dose di eroina, la madre invece soffre di depressione e affoga i suoi problemi nel cioccolato. Purtroppo però muiono entrambi nel giro di mezz’ora, ed il film perde una buona parte del suo potenziale. Nel mio piccolo avevo visto questa coppia, volutamente eccessiva, quasi fossero due caricature, simile ad un’altra coppia: questa. Sì lo so, il paragone è irriverente e quindi me lo tengo tutto per me.

Tornando al film.
Una volta sola, Jeliza-Rose, incontra Dickens, un ragazzo epilettico, e da qui in poi la storia prende una piega da favola nera. Il talento visionario di Gilliam è fuori discussione, ma dopo i primi scambi di battute tra la bimba, peraltro bravissima, e le sue bambole avevo già il latte alle ginocchia. Il problema è che oltre a questo non c’è niente. Non mi basta uno scoiattolo parlante, e neanche delle api vendicative. Non mi interessa sapere che Noah, il padre di Jeliza-Rose, ha avuto una relazione con la madre di Dickens, non mi garba molto vedere un adulto e una bambina che si baciano, non c’è malizia, i tempi di Maladolescenza (1977) sono lontanissimi (grazie a Dio), ma a me ha dato fastidio.

Poi il finale, aspramente criticato, che invece a me non è dispiaciuto, in cui Gilliam ci riporta alla realtà, lasciando perdere Barbie e cazzate varie, dando coscienza a Jeliza-Rose e schiaffando la verità in faccia allo spettatore. Il grande squalo è un treno, e l’oggetto misterioso di Dickens è dinamite, e come ogni favola che si rispetti anche questa ha il suo lieto fine, almeno per Dickens.

venerdì 25 aprile 2008

Untrue

Vorrei poter dire che nella vita mi piace sempre cercare nuove sfide, nuovi stimoli, ma purtroppo non è così, ristagno sempre nella solita pozzanghera. Però sono una persona che pensa, e cerco, in qualche modo, di accrescere sempre di più il mio bagaglio culturale.
Una delle poche cose che ho imparato, è di avere rispetto per qualunque forma d’arte, che sia un quadro, un film, un libro, una canzone, possono non piacere, ma prima di giudicarle vanno osservate, lette e ascoltate attentamente, per capire che dietro c’è sempre lo sforzo notevole da parte di qualcuno.
Ora, io musicalmente non sono molto acculturato, me ne sto tranquillo tranquillo nel recinto delle mie convinzioni con i miei tre o quattro cantanti preferiti. Poi c’è un’altra parte “musicale” di me, che qui sul blog non è uscita fuori perché non l’ ho voluto io, fatta di bassi potenti e luci psichedeliche. Ho girato in lungo e in largo l’Italia per i club più all’avanguardia nel campo della musica elettronica, ed ogni volta che vedevo l’alba sorgere mi chiedevo se quella notte ci avevo perso o ci avevo guadagnato. Col passare del tempo, però, i suoni stanno diventando sempre più scontati; forse sono io che sto crescendo, o più semplicemente ho bisogno di nuove sonorità.
Dubstep.
Qui in Italia non so quante persone siano a conoscenza di questo genere musicale nato a Londra col nuovo millennio ed esploso in tutto il nord Europa negli ultimi anni.
La capitale inglese, sempre un passo avanti rispetto a tutte le altre grandi città europee, ha fatto da culla a questo genere che risente molto delle influenza breaks e garage dell’UK.
Il video qui sopra è tratto dall’omonimo album di Burial, un misterioso produttore dell’etichetta Hyperdub. L’album è uscito nel 2007 e contiene 13 tracce.
L’ascolto di “Untrue” non è cosa facile, i beat distorti, le cupe atmosfere lounge con vocal ossessivi faranno storcere il naso anche a chi mastica da tempo musica elettronica. Ma come ho detto all’inizio bisogna ascoltare attentamente per capire, e solo così si potrà comprendere che questo album è un capolavoro.

giovedì 24 aprile 2008

Incubo sulla città contaminata

Si dice che Danny Boyle si sia ispirato anche a questo film di Lenzi per il suo 28 giorni dopo (2002), Incubo sulla città contaminata ha avuto il merito di introdurre nel cinema horror gli zombi iper-veloci, fino a quel momento (1980) i morti viventi romeriani erano lenti ed anche un po’ stupidi, quelli lenziani invece oltre ad essere scattanti sanno anche maneggiare armi e oggetti contundenti, addirittura fanno saltare in aria l’impianto elettrico dell’intera città.

Non è corretto parlare di zombi per questo film, bensì di contaminati. I primi arrivano nella città a bordo di un misterioso aereo, sono esseri umani che a causa di alcune radiazioni hanno bisogno di sangue umano per sopravvivere. Come in ogni zombi-movie che si rispetti il contagio avviene attraverso un morso o anche un solo graffio.
A parte alcune scene splatter, molto artigianali, ma interessanti (l’asportazione di una tetta, o la testa spappolata di Maria Rosaria Omaggio), il film ha una struttura poco avvincente, con dialoghi assurdi (il giornalista che si mette amabilmente a dialogare con la moglie nel bar mentre fuori c’è il finimondo è da oscar), e personaggi “spessi” come carta velina.

Il finale, poi, con quella scritta “e l’incubo diviene realtà” fa crollare di brutto il mio giudizio.

mercoledì 23 aprile 2008

Magdalene

Irlanda 1964.
Margaret è stata stuprata da suo cugino durante un matrimonio, nonostante lei non abbia nessuna colpa la sua famiglia decide di rinchiuderla in una casa della Maddalena.
Bernardette ha ammiccato ad un ragazzo oltre la recinzione del suo collegio, la sua punizione è la lavanderia della Magdalene house.
Rose ha avuto un figlio fuori dal matrimonio, non sto nemmeno a scrivere dove andrà a finire.

Nel capolavoro di Spike Lee, La 25°ora (2002), Edward Norton, nella celeberrima scena del “fuck you”, dice: “In culo alla chiesa che li protegge NON LIBERANDOCI DAL MALE.” La frase è riferita ai preti pedofili, ma quello che più mi preme è la parte che ho scritto in maiuscolo. Paradossalmente un luogo come le case della Maddalena, costruito sui dogmi della cristianità, invece di proteggere dal male, lo cova dentro di sé. Ammettendo che una casa “riabilitativa” per ragazze che hanno avuto rapporti sessuali non prima del matrimonio possa anche essere concepibile seguendo la dottrina cristiana, ciò che fa letteralmente rivoltare l’anima è l’annullamento delle ragazze all’interno della casa dovuto al regime totalitario imposto dalle suore.

La spersonalizzazione delle donne è costituita da piccoli fatti e non da punizioni esemplari, quando una delle ragazze tenta la fuga essa viene rasata in modo che se uscisse di lì sarebbe umiliata e derisa dalla gente. All’interno della casa le Sorelle si divertono in giochetti stupidi come quello di classificare le ragazze in base alla peluria o alla grandezza del seno, non meno importante è il divieto di parlare durante il lavoro in lavanderia che isola maggiormente le giovani.
Questa demolizione psicologica spinge a comportamenti estremi; Bernardette, che non è mai stata con uomo, pur di uscire da quel posto si concede al fattorino che porta la roba sporca nella lavanderia, sperando che la porti via da lì, ma viene scoperta e punita dalla spregevole madre superiore. Quest’ultima è l’incarnazione del demonio sotto un velo, prendete un dizionario e guardate tutti i sinonimi di “stronza”, questa suora li possiede sicuramente tutti.

Se tutto il film merita davvero un’attenta osservazione, ci sono due scene che definirei impedibili.
La prima: tutte le ragazze si stanno recando ad una messa all’aperto, durante il tragitto, sulla cima di una collinetta, Margaret si accuccia per allacciarsi una scarpa quando nota dei strani movimenti oltre la finestra di un palazzo, aguzza lo sguardo e vede Crispina, la ragazza più debole e leggermente ritardata del gruppo, che fa un pompino al prete. Poco dopo, durante la messa, lo stesso prete dice: "Fammi giustizia o Dio e difendi tu la causa contro gente senza pietà, salvami tu dall’uomo ingannatore.”
La seconda: Margaret ha parlato attraverso il cancello con la sorella di Crispina che nel frattempo è stata chiusa in manicomio, siccome è vietato qualsiasi contatto con il mondo esterno, la madre superiore decide di frustrarla per bene. Mentre la sta fustigando a dovere Bernardette entra nello studio annunciando la morte di una delle donne più vecchie della casa, la suora non si volta neanche, accenna gelidamente: “che riposi in pace”, e continua a frustare.
E questa è una storia vera. Roba da pazzi.

Regia volutamente fredda, quasi priva di colonna sonora, esclusa la canzone iniziale che è davvero bella. Grande prova di tutti gli attori, in particolare l’attrice che impersona Crispina, semplicemente strepitosa.
Giù il cappello, questo è un film con la f maiuscola, intenso, alto, penetrante, in una parola: bellissimo.

martedì 22 aprile 2008

ABORYM!!!!!!!!!!


Gioite comuni mortali, Aborym è tornato!

Per ironia del destino qualche giorno fa scrivevo che La croce dalle sette pietre era l’unica opera di Marco Antonio Andolfi, ma ieri sera, durante qualche ricerca internettarola, sono venuto a conoscenza della notizia del secolo. Andolfi ha girato un corto di mezz’ora intitolato Riecco Aborym, il trailer mi sembra all’altezza del suo famoso predecessore, le smorfie di Andolfi sono ancora più ridicole.
Lo voglio.

John Rambo

Mai visto un film di Rambo in vita mia prima di questo, non so se sia un bene oppure un male, di conseguenzail mio è un giudizio “monco” perché mi saranno sfuggiti dei rimandi alle pellicole del passato.

Il Rambo del nuovo millennio è un signore di 60 anni tirato a lucido per l’occasione, con mascella di marmo e vene “autostradali” in gran spolvero. Un po’ disilluso dal mondo che lo circonda, lo si capisce dal dialogo che ha con la bionda, dopo i (ne)fasti del passato vive cacciando serpenti per un teatrino. Ma sotto quell’ammasso di fibre muscolari oramai un po’ allentate batte ancora un cuore da guerriero, d’altronde lo dice lui stesso che “quel che facciamo è quel che siamo”. E lui è un soldato, punto e basta. Un soldato super-cazzuto però. Penso che il copione di Stallone non sia stato più lungo di due pagine, nell’ultima mezz’ora non spiccica parola, a direil vero nessuno parla, a parte le urla strazianti di qualche malcapitato, però questo è un action-movie e le parole devono lasciare spazio alle pallottole, non ci sono cazzi.
Infatti accade proprio questo, per un’ora e venti non si assiste altro che ad un Piedigrotta versione tailandese dove saltano in aria pezzi di carne umana come fossero grilli. Una sorpresa piacevole è stata la presenza di scene estremamente violente ed estremamente ben girate, su tutte l’apocalittica sequenza finale, che avrei preferito un po’ meno lunga, in cui John Rambo fa un macello con la mitragliatrice.

Non sono un grande esperto di film d’azione ( non lo sono proprio in generale) ma i personaggi mi sono sembrati perfettamente calzanti con il film, non credo che in pellicole di questo genere ci sia bisogno di una particolare introspezione dei vari attori, e Stallone è bravo a farci costruire un’idea su tutti gli interpreti senza approfondire troppo il loro “personaggio”, anzi, per quanto riguarda il cattivo di turno, quello con ray-ban e baffetti, lo si odia pur non sentendolo mai aprire bocca.
Per il resto c’è da segnalare qualche immagine reale di alcune guerre, molto simile alla scena in Cannibal Holocaust (1980) quando il direttore della tv mostra un documentario al giornalista, e mi è tornato in mente il film di Deodato anche quando viene ripreso lo sterminio nel villaggio.
Nota di merito a Rambo che riesce a pescare con l’arco, ma come caspio fa?
La lunga strada che lo riporta a casa lo fa uscire di scena, è la fine gloriosa di un simbolo del cinema e non solo. I crediti finali durano più di dieci minuti.

sabato 19 aprile 2008

Il Palazzo - Quinto piano

Uno e Altra si trovavano lì, separati da un tavolo, ma erano distanti mille miglia. Il silenzio che riempiva la cucina, il Palazzo, e forse il mondo intero, fu spezzato da Altra: “Tesoro devo dirti una cosa…”
Un brivido percorse la spina dorsale di Uno, la stessa sensazione che si prova un secondo prima di un incidente: è un momento, ma sembra eterno, non c’è salvezza. Mai.
“Che cosa?”
“Sono incinta.”
Lo schianto fu tremendo: il vetro che si spezza, i frammenti si conficcano sotto la pelle e penetrano in profondità, nei tessuti celebrali, e ancora più dentro, nel buio, nell’anima. È l’equilibrio che si frantuma, si sgretola, diventa polvere e poi sparisce, spazzato dal vento.
Molti anni prima, su una panchina di un parco, sedeva una ragazza con in mano un libro, un giovanotto, che passava di lì per caso, le chiese che libro fosse. Ancora non sapevano che erano fatti l’uno per l’altra, ma ormai quel ricordo, cristallizzato dal tempo, si stava sfuocando e lentamente svanendo.Uno e Altra erano lì, ma c’era un mondo a separarli.
Lui si alzò dalla sedia, lei rimase immobile a fissare il vuoto.

venerdì 18 aprile 2008

Il cerchio dei morti

Locandina S-P-E-T-T-A-C-O-L-A-R-E- per un mediometraggio italiano realizzato da Andrea Falcioni e Lucas Pavetto, entrambi presenti come attori nel film. Insieme a loro recitano altri due ragazzi e due ragazze, tutti non professionisti.

Sei persone si addormentano su un autobus che avrebbe dovuto portarle in vacanza, quando si risvegliano dell’autista non vi è traccia e quindi decidono di cercare aiuto nella campagna circostante, trovano riparo in una casa disabitata (che nella realtà è di proprietà di Falcioni) dove verranno sterminati uno dopo l’altro da un serpentone famelico vestito con una palandrana nera (ecco cosa li sta aspettando, come recita il sottotitolo).

Essendo un prodotto low-budget sono evidenti alcuni limiti, salta subito all’occhio, anche di un profano come me, la scarsa recitazione degli attori che sono amici, o conoscenti dei due registi; può far sorridere questa cosa, però come viene precisato da Lucas Pavetto in una intervista su splattercontainer: “Per quanto riguarda l’interpretazione... dove li trovavamo gli attori professionisti non avendo ancora un nome?". Dura la vita dei giovani cineasti, anche perché tutto ciò che concerne la realizzazione del film, luci, montaggio, doppiaggio, effetti speciali, e persino le riprese, sono state effettuate dai due giovani, aiutati in alcuni casi dagli altri attori presenti nel film, niente troupe insomma.
Se si riesce a superare qualche ostacolo, non tutti possono essere Al Pacino o Robert De Niro, Il cerchio dei morti è un prodotto abbastanza valido che può regalare qualche brivido.

P.S.: Mitico Tommy che sul braccio sinistro ha tatuato l’etichetta del Jack Daniel’s, se quel tatuaggio è vero quell’uomo ha tutta la mia stima.

giovedì 17 aprile 2008

The XXXorcist

Prodotto dalla Burning Entertainment, una casa americana che annovera solo attori e attrici tatuati più di Materazzi, e distribuito anche dalla Troma - figurati se si lasciavano scappare una perla del genere - The XXXorcist è la versione hard de L’esorcista (1973).
Il cast è composto dalla madre, con tanto di crocefisso che utilizzerà come dildo, un po’ fastidioso forse, però la piccola figlia non sembra soffrirne molto, anzi.
Poi c’è il prete, che sconfigge il demonio posizionando tre dildi in tre punti mooooooolto strategici.
Infine l’indemoniata, che lo è in tutti i sensi che potete pensarei, sìsì anche quelli più zozzi.
Menzione speciale alla crema di piselli che spurga da qualunque orifizio possibile ed immaginabile, e che ricopre le pareti della stanza e non solo. Sottolineo il non solo.

A causa del mio inglese biscardesco non sono riuscito a carpire i brillanti dialoghi presenti in quest’opera, però “fuck me Jesus, fuck me” l’ho capito eccome, e bellissima la scena successiva in cui il prete chiede scusa a Dio e poi si cala i pantaloni. In 47 minuti non c’è un attimo di respiro per il povero servo del Signore che prima se la deve vedere con la ragazzina, poi con la madre posseduta anch’essa in seguito ad una scena lesbo con la figlia, e poi nuovamente con quest’ultima, davvero insaziabile.
Colonna sonora heavy metal che ci sta benissimo e che si ferma solo quando il sacerdote si lancia giù dalla finestra, si perché The XXXorcist è fedele all’horror più terrificante di sempre, almeno così si dice, per me non lo è; comunque ha una buona dose di ironia che non guasta mai nei porno, anzi dovrebbe essercene sempre in grossa quantità.
Consiglierei la visione durante una bella escursione parrocchiale, tra una chitarra ed un falò, giusto per movimentare la serata.

mercoledì 16 aprile 2008

Picnic ad Hanging Rock

Tratto da un romanzo della scrittrice Joan Lindsay, Picnic ad Hanging Rock ha fatto conoscere al mondo intero il cinema australiano e la raffinatezza di Peter Weir, almeno così ho letto, fino a poco fa questo regista mi era totalmente sconosciuto.
Come ben si sa, l’eleganza, il decoro e la pudicizia sono caratteristiche di base dell’età vittoriana, credo che una delle chiavi di lettura del film sia di considerarlo come una critica velata, ma forte, al sistema sociale di quel tempo, poi ovviamente c’è il discorso filosofico sull’uomo vs. natura, però quello se non lo leggevo non ci arrivavo, e quindi non ne parlo.

E adesso, cari lettori, parte la rubrica “non è un caso che”.
Non è un caso che la scomparsa delle ragazze avvenga il giorno degli innamorati, come una fuga impossibile dagli schemi impostati del collegio. Non è un caso che le protagoniste siano tutte femmine, la scalata rappresenta, a mio avviso, la ricerca di un’identità soffocata dalle regole ferree della rettrice, inoltre la montagna, che poi è una collina ma Weir la rende imponente, nella sua antropomorficità ha un vago aspetto fallico, e quindi le ragazze potrebbero esserne state attratte in quanto si trovavano in un collegio esclusivamente femminile, di fatto c’è un legame che unisce Miranda e una sua compagna, e non è un caso che miss Mc Craw venga avvistata l’ultima volta senza la gonna, qui non c’entra la teoria dello stupro, anche l’istitutrice, succube dei modelli, si ribella, si emancipa, così come le ragazze che rimangono a piedi nudi.
Non è un caso che l’orologio di miss Mc Craw sia fermo perché il tempo dell’uomo è diverso da quello della natura, ma qui si entra in un discorso che è troppo complesso, e di cui scriverei soltanto delle grandi stronzate (che forse ho già scritto).

Ma a parte le possibile teorie sulla scomparsa delle ragazze che lasciano aperti spiragli a molte interpretazioni, cosa resta di questo film?
Non molto devo dire, quando ho capito che al regista non importava dare spiegazioni la mia attenzione è scemata notevolmente, io sono per i finali aperti, però in questo caso il film sarebbe potuto finire con la sparizione delle fanciulle, dopo c’è davvero poco.
Però resta interessante cercare di capire che fine abbiano fatto le ragazze, scartabellando alcuni siti si trovano le spiegazioni più fantasiose, dal rapimento UFO, allo stupro di gruppo, o ad una semplice frana, tutte tesi supportate da accurate spiegazioni. Probabilmente nessuno, neanche il regista, sa quale sia la soluzione del mistero, però è divertente provare a darla.
Non è un capolavoro, ma accende la curiosità dello spettatore, almeno nella prima parte.

martedì 15 aprile 2008

Tappetini

Quando visito un blog mi soffermo sempre sull’intestazione iniziale, quella in cima per intenderci. Per me anche solo il titolo può rivelare molto del blogger. Siccome vedo l’intestazione una specie di tappetino sull’uscio, cerco sempre di mettere immagini suggestive per invogliare il lettore a “scrollare” in basso col mouse. E mi sono accorto che dal 20 novembre io ho già cambiato 7 illustrazioni compresa questa. Visto che mi piacciono molto perché rispecchiano lo stato d’animo in cui mi trovavo quando le ho pubblicate, le posto nuovamente tutte di fila e farò la stessa cosa con le successive, così chi mi segue dall’inizio (ma chi???) potrà dire: “Cazzo sì, questa me la ricordo.”, per chi invece è arrivato solo ora dirà: ”Nooo, cosa mi sono perso.” Infine, chi capita qui per caso affermerà: ”L’Italia va a rotoli e sto qui ci propina queste stronzate, e poi manco avesse aperto il blog da dieci anni.” Io voglio bene a tutti in ogni caso.

Ah, sono in ordine cronologico.




lunedì 14 aprile 2008

La croce dalle sette pietre

Quando è possibile catalogare un film come una pellicola trash? Fondamentalmente l’etichetta che io ho creato con quel nome è sbagliata, “trash” non è un genere come può essere il “drammatico”, il “thriller” o il “sentimentale”, se si escludono le produzioni della Troma, che infatti ho deciso di separare, nessuna regista ha, o ha avuto in passato, l’idea di fare un film brutto; per me la definizione più calzante è quella data da Tommaso La branca che identifica il trash “nell’emulazione fallita di modelli alti”.
La croce dalle sette pietre è considerato il peggiore film mai girato in Italia, se si cerca qualcosa in rete non si troverà altro che giudizi negativi su questa prima opera di Marco Antonio Andolfi, il quale è anche il protagonista di questo scempio.

A parte le scene di lotta e quelle di sesso che rasentano l’idiozia (in La bestia in calore -1977- forse sono peggio), a parte la recitazione di Andolfi che è espressivo come una statua di marmo, a parte le trasformazioni in uomo-lupo di quest’ultimo in cui ci regala smorfie di rara bellezza, a parte i dialoghi dove certe volte gli attori fissano la mdp invece che il loro interlocutore, a parte le musiche che sono orripilanti, a parte i nomi dei mafiosi come Totonno il cafone, a parte che una divinità di nome Aborym sembra uscita dalla bocca di Mughini, a parte gli effetti speciali improponibli, a parte la recitazione di tutti gli attori che (spero) siano stati presi per strada, a parte che durante il film continuano a ripetere ad Andolfi che è un bel ragazzo (?), a parte che della trama non si capisce un cazzo, a parte mille altre cose, La croce dalle sette pietre è davvero una roba allucinante. Non accenno neanche la trama da quanto è sconclusionata; il bello è che il film è stato girato nell'87, invidio molto Andolfi per il suo coraggio, mentre nel mondo uscivano Full Metal Jacket, Gli intoccabili o Il cielo sopra Berlino, lui si presentava con La croce dalle sette pietre aka L’uomo lupo contro la camorra. Che grand’uomo!
Nel 2007 Andolfi ha girato il seguito: Riecco Aborym.

Posto qualche frame del film in modo da mettere in guardia qualche coraggioso che volesse intraprendere la visione di sta roba.

mercoledì 9 aprile 2008

Piano 17

Vabbè, lasciamo perdere le solite menate e vediamo che cosa ci offre Eraserhead TV stasera.
Oh bene, un lungometraggio italiano, Piano 17, Manetti Bros in regia, anno di produzione 2005.
Dai cerchiamo di dire qualcosa di intelligente su questo film.

Se qualcuno mi segue con costanza avrà notato che solitamente batto altre strade (cinematograficamente parlando) che quelle italiane recenti. Così a caldo posso dire che soltanto L’imbalsamatore (2002) di Matteo Garrone mi è piaciuto davvero molto, per il resto, tra vanzinate e muccinate varie mi tengo ben lontano dal cinema nostrano (e ho fatto pure la rima, tiè). Questo per dire che se ho visto Piano 17 è perché sia nel film di Garrone che in questo c’è la stessa attrice, Elisabetta Rocchetti.

La struttura costruita dai fratelli Manetti assomiglia molto alla lontana a quella di Memento (2000) perché col procedere della narrazione le continue analessi scoprono alcuni punti oscuri della vicenda.
Sarà che ho una naturale avversione nei confronti del cinema italiano, ma io una banda di rapinatori che ha per capo Massimo Ghini e come vice Enrico Silvestrin non ce la vedo proprio, in più a me Silvestrin non sta simpatico sin dai tempi in cui faceva il vj su MTV ed il ruolo che interpreta gli calza davvero a pennello. Lui è il traditore della banda che intrappola il fratello di Mancini (Ghini) dentro ad un ascensore con tanto di bomba ad orologeria a carico. L’attentato dinamitardo è in pratica un baratto con la direttrice della banca rapinata in precedenza che in cambio di alcune informazioni necessarie per il furto vuole l’eliminazione di certi documenti che si trovano al diciassettesimo piano di un mega palazzone.

Questo è un film sui precari legami umani, le figure rinchiuse all’interno dell’ascensore sono volutamente (almeno credo) stereotipate: la segretaria che scende a compromessi per fare carriera e l’impiegato frustato che spera in un contratto a tempo indeterminato sono modelli della nostra società, a trovarne di segretarie così però!
Non ho apprezzato molto il personaggio del fratello di Mancini, un po’ cavaliere senza macchia e senza paura e un po’ filosofo, ostinato nel portare a termine l’incarico di distruggere i documenti quando invece avrebbe potuto fregarsene dopo tutto il casino che era successo.
La regia è rapida, quasi nervosa, con i flashback ben inseriti all’interno della trama che presenta però alcune incongruenze; per esempio come è possibile che subito dopo la rapina si siano preoccupati di portare via il corpo di Mancini? E poi ancora, come faceva il fratello di Mancini a sapere con esattezza dove si trovasse la cabina di comando dell’ascensore? Ma soprattutto: perché la segretaria e l'impiegato non hanno chiamato subito il 112 appena intrappolati nell’ascensore?

Happy end con, udite udite, la voce di Max Pezzali in sottofondo, spettacolo!