mercoledì 29 maggio 2013

Twilight

Produttore di Satantango (1994), dialoghista in Le armonie di Werckmeister (2000), fonte di ispirazione per un giovane autore come Benedek Fliegauf che gli dedicò il suo Rengeteg (2003), György Fehér, deceduto nel 2002, è stato anche regista e sebbene il curriculum sia piuttosto esiguo ciò che rimane oggi del cinema che ha proposto è una versione satellitare del cinema di Béla Tarr, il che lo rende immediatamente degno di tutte le attenzioni possibili. Gli unici due lungometraggi di Fehér di cui si ha notizia (su IMDb sono elencate delle opere antecedenti ma tutte per la tv) purtroppo non hanno mai avuto una distribuzione commerciale (non ho trovato notizie in merito ma è probabile che Twilight non sia nemmeno uscito in sala), ergo la reperibilità di Szürkület (1990) e di  Szenvedély (1998) si riduce esclusivamente alla Rete che ci offre due copie in condizioni non ottimali, è un vero peccato ma non c’è da disperarsi: anche se la qualità audio/video non è eccellente, quando la raffinatezza, la stoffa pregiata, la possanza artistica ci sono, allora anche le defezioni materiali soccombono sotto i colpi di un cinema che è immersione artistica, esperienza sacra, liturgica, cerimoniale.

Ispirato dal libro di Dürrenmatt La promessa (da cui Sean Penn ha tratto l’omonimo film), Szürkület è pellicola dall’impianto noir con delitto (il cadavere di una bambina ritrovato in un bosco), con sospettato (un venditore ambulante che per primo ha denunciato alla polizia il corpo della vittima), con procedure investigative (le indagini dei due poliziotti), ma, come il sottoscritto auspicava prima della visione, da tale genere si distacca praticamente da subito rimettendosi un po’ a quello che sarà L’uomo di Londra (2007), ossia un’investigazione che affonda nell’abisso (umano, ça va sans dire), che mette in scena un tipico groviglio giallistico ma che ne lascia sospeso il corrispettivo sbrogliamento preferendo i lidi mentali di chi è sulle tracce dell’assassino, ed è qui che il tipico whodunit si sfalda inesorabile: dopo il suicidio del principale indiziato Fehér riesce ad ammantare di colpevolezza qualunque personaggio sullo schermo, ogni confronto si carica di un’ambiguità disorientante: “sono troppi gli uomini di quel tipo che soltanto per caso non uccidono”, nelle parole del misterioso professore è concentrato il nucleo nascosto di questa caccia all’uomo, di questa caccia verso se stessi.

Tecnicamente ineccepibile, la sintassi filmica si costituisce di pianosequenza in pianosequenza, un meccanismo che Tarr aveva iniziato a proporre con Perdizione (1988) e che successivamente diverrà proprio il marchio stilistico per eccellenza; Fehér dal canto suo sciorina un susseguirsi di traiettorie fluide, prospettiche, penetranti (che ci fanno penetrare dentro, nella nebbiosa campagna ungherese, nell’umidità di un viottolo sterrato, in un asettico commissariato, in un casolare sperduto chissà dove) che mutano il “thriller” in qualcosa di metafisico, perennemente in sospensione, che oscilla come uno spirito tra il sospetto e l’ossessione, tra le deboli prove e l’ombra sfuggente di un criminale inafferrabile, perché in fondo ogni crime dovrebbe fare così: disinteressarsi del killer e del movente, lasciare da parte la risoluzione dell’inghippo per gettarsi all’interno della fallibilità di quello che dovrebbe essere il Bene, del suo essere nudo di fronte alla crudeltà, dell’impossibilità di riuscire a proteggere chi ne avrebbe bisogno (la splendida immagine dei villici in attesa di una risposta). Ecco perché Szürkület è un grandissimo film lontano galassie dal cinema mite che spopola, screziato da un ipnotico motivo musicale, l’incredibile forza che ha nell’invadere quietamente lo spettatore lo fa gravitare, con ben pochi dubbi, fra le alte sfere, quelle dove placidi fluttuano i capolavori.

lunedì 27 maggio 2013

Silent River

Non sbalordisce l’ennesima proposta conflittuale (di conflitti interni, umani, ed esterni, dittatoriali, e nuovamente interni [nella nazione]) proveniente dalla Romania. Questa volta però non vengono sputate fuori le scorie sanguisughe della coscienza rumena, questa volta siamo trasportati in quel presente: è il 1986 e Gregor e Vali (Andi Vasluianu già visto nell’indelebile Bibliothèque Pascal, 2010) si organizzano per attraversare il Danubio a nuoto e introdursi così in Serbia clandestinamente. Con mezz’ora di tempo a disposizione la regista Anca Miruna Lazarescu sonda in Apele tac (2011) la paura dei due fuggitivi che fa rima con solidarietà, magari non esattamente sincera, tuttavia concreta e indispensabile per portare il piano a compimento. La realizzazione della fuga con tanto di preparativi (l’incipit) così come viene mostrata si comporta benino, piuttosto in linea con quanto era facilmente prevedibile, ma grazie all’introduzione del terzo personaggio acquista un moderato irrobustimento narrativo, e infatti: la donna squilibra il patto, permette un accenno di suspense (difficile però credere che il poliziotto si faccia gabbare in tale modo), e se non fosse per due sempliciotti dettagli come la gravidanza (intensificazione drammatica che vorrebbe significare “qualcosa” oltre la mera gestazione) e l’inopportuno scambio di battute tra moglie e marito, il finale, cuore (quasi) annegato del film ad un passo dall’apnea con delle belle riprese notturne sul pelo dell’acqua, avrebbe avuto un impatto maggiore perché meno romanzato, e l’alterazione si accusa anche in quella che è la chiosa conclusiva, una specie di morale che sta lì ad indicare di come una nuotata al chiaro di luna da una sponda all’altra del Danubio possa stravolgere l’identità (non solo quella sui falsi documenti): da perfetto sconosciuto a padre nel giro di un secondo.

Resta l’eloquenza: in Serbia l’antifona non cambia troppo, da una Romania iper-militarizzata lo stato confinante non vuole essere da meno, ad attendere i fuggiaschi due fucili tra le frasche e la parola libertà che è ancora un gusto lontanissimo dall’essere assaporato.

giovedì 23 maggio 2013

Post Tenebras Lux

Terminata la proiezione di Post Tenebras Lux (2012), con i sensi ancora assaltati dalle sue immagini, l’impressione immediata è stata quella di trovarsi al cospetto di un’opera che tratta il Male come forse non era mai stato fatto in ambito cinematografico; l’afrore di zolfo, trasposizione puntuale di ben note entità, slitta però sullo sfondo, tanto che il diavolo, qui nelle vesti molto kitsch di un demone rosso fluorescente, non c’entra nemmeno poi tanto, il vero afflato luciferino che Carlos Reygadas immette nel film è un qualcosa che va straordinariamente oltre la patina della visione per incunearsi nei territori della sensazione, avamposti di un cinema che affabula per mezzo di quanto vede e che ripropone con un realismo che sa oscillare con spiazzante disinvoltura tra sogno e realtà; d’altronde in merito a percezioni, onirismo e quant’altro basterebbe prendere il prologo per farsi un’idea di cosa si ha davanti: dieci abbacinanti minuti che ti si appiccicano agli occhi e che penetrano in profondità, giù per quelle corde dell’inquietudine agguantate da una bambina che invocando il nome dei propri famigliari sotto un cielo venato dai fulmini rimanda ad altro di infinitamente più grande, uno smarrimento universale che in fondo riguarda tutti coloro che calpestano il suolo di questo pianeta. Il Male sopraccitato si sedimenta in questi rimandi, epifanie di un dolore Umano che emergono dallo spartito di un geniale concertista: il raptus di Juan nei confronti del cagnetto, le confessioni del gruppo di alcolisti anonimi, la visita dei coniugi nello swinger club francese, il tradimento del Siete e l’ammutolente conclusione che lo vede protagonista (la decapitazione: il Male è nella testa?), tutti segnali pulsanti, allarmi urgenti dentro un contesto naturalistico e non che Reygadas immortala come sa fare soltanto chi ha un talento smisurato come il suo e che sullo schermo in 4:3 scorrono e si calcificano lontani dall’artificio.

Potrà anche essere tacciato di incomprensibilità Post Tenebras Lux, si potrà additare quel zigzagare temporale che lo costituisce, le sue falle logiche o i grandi interrogativi orfani di risposte (ad esempio: Juan vivrà o no?), ma il premio per la miglior regia a Cannes ’12 è un Cinema Nuovo che a fronte di possibili mancanze squaderna una ricchezza espositiva e argomentativa che lo rende un giacimento preziosissimo, un pozzo vergine dal quale attingere a piene mani per restare meravigliati da ogni singolo approccio utilizzato dal regista: si parte dai problemi matrimoniali (retaggio, forse, di Silent Light, 2007) che seppur ordinari si ammantano di una sofferenza sottaciuta ma avvertibile per allargare il raggio d’interesse su tematiche che già sostanziavano il capolavoro precedente (Japón, 2002) e che, quindi, abbracciano l’escatologia, la fine e l’inizio di tutto. A guarnire la portata semantica l’autore messicano erige una sintassi estetica che oserei definire seminale, al di là della costante sfocatura ovale che sborda i contorni delle riprese (principalmente quelle esterne) e che conferisce una percentuale di straniamento molto elevata, la capacità di Reygadas nello scovare continuamente soluzioni innovative stupisce ed incanta e raggiunge picchi di purezza che ancora non avevamo visto, sequenze che per quanto mi riguarda possono già passare alla Storia del Cinema come quella sulla spiaggia, teatro, peraltro, di un possibile cortocircuito anagrafico da far girare la testa, la cui incisione ottica, alimentata da un sonoro che letteralmente inonda l’apparato uditivo, consegue un livello di intensità tale da produrre con niente (due bambini che zampettano sulla sabbia) quello che chiediamo imploranti all’arte: l’emozione.

Post Tenebras Lux è, oggi, un appuntamento da non perdere perché il film di Reygadas è un film da studiare fotogramma per fotogramma, mai conciliante e sempre intraprendente, un’opera del genere meriterebbe approfondimenti ben più corposi di quanto scritto in questa sede, trattato di come può e deve essere ancora il cinema contemporaneo: materia inesauribile su cui tornare e ritornare infinite volte come se ogni nuova visione fosse la prima. In un mondo come il nostro che, senza retorica, ha iniziato da tempo a scivolare in un buio denso e paludoso, la luce può arrivare da una torcia che arde tenace, da uno sconosciuto quarantaduenne nato a Città del Messico che col suo cinema anti-letterale dona Verità (sull’essere, sull’amore, sul sesso, sul dolore, ecc.) ad uno spettatore ignaro e sempre inadeguato a ricevere tali vastità.

lunedì 20 maggio 2013

They Came Back

In una città francese i morti resuscitano.

Allora, l’idea che sta alla base di Les revenants (2004) ha un suo perché, e ovviamente non parliamo della semplice questione “ritorno dall’oltretomba” vista l’inflazione dell’argomento nella letteratura horror, piuttosto la caratterizzazione del tema che prende le distanze dal sangue, e in generale da qualunque tipo di macelleria, proponendo al contrario una figura zombesca quasi candida, serafica, ultraterrena. Ergo: lo splatter ed il gore qui non c’entrano niente, anzi si tenta la carta antitetica dell’introspezione perché il film punta decisamente verso siffatti territori ai quali si affiancano ragionamenti relativi all’integrazione del diverso, e quindi riflessi socio-politici abbastanza evidenti. Peccato però che tutto ciò resti abbozzato, in una forma che è poco oltre quella embrionale e, soprattutto, macchiato da una risoluzione approssimativa.

Robin Campillo, stretto collaboratore di Cantet con il quale ha scritto A tempo pieno (2001) e La classe (2008), opta per una struttura elementare in cui si avvicendano le teorie scientifiche a proposito dei redivivi con i singoli quadretti famigliari, se la prima operazione non infastidisce nemmeno troppo (anche se la roba delle videocamere termiche lambisce il trash), è nell’affrontare questa specie di contro-elaborazione del lutto che la pellicola zoppica visibilmente. Le tre diverse vedute che corrispondono alle tre età generazionali (il bimbo, il giovane, la vecchia) si diluiscono nel nulla e si perdono in schermaglie tanto preconfezionate quanto prevedibili. Ma la carenza più evidente sta probabilmente altrove, perché sebbene i rapporti vivi-morti siano deficitari di pathos, l’alone di mistero che avvolge le diverse situazioni fa sì che l’encefalogramma non si appiattisca in maniera definitiva, tuttavia risalta agli occhi di come Campillo, una volta portate avanti le premesse, giunto alla resa dei conti non fornisca uno scioglimento accettabile: infilatosi in un vicolo cieco il regista tenta goffamente la via di fuga della cospirazione da parte dei deceduti senza che in precedenza avesse creato alcun presupposto a riguardo.

Tenendo conto poi di uno stile registico pressoché assente e dell’obbligo di applicare la propria sospensione dell’incredulità praticamente in ogni riga della sceneggiatura, They Came Back da opera simil-intellettuale quale vorrebbe essere finisce in un limbo di vacuo intrattenimento, pallido risultato di uno spunto che poteva essere trattato molto meglio.

sabato 18 maggio 2013

Mourir auprès de toi

La libreria di Parigi Shakespeare and Company chiude la saracinesca e le stampe sulle copertine prendono vita…

Cortometraggio nato da un’ammirazione reciproca dove i due soggetti principali sono Spike Jonze, che non ha bisogno di presentazioni, e Olympia Le-Tan, stilista anglo-francese che nel 2009 ha lanciato una collezione di borse ispirata alla letteratura. A spiegare come sono andati i fatti ci pensa Simon Cahn, co-regista con alle spalle soltanto videoclip e commercial, che in un’intervista a Vogue (link) racconta della proposta della Le-Tan di fare un corto sui suoi lavori, proposta subito accettata dal regista statunitense grande estimatore di Olympia (ma in Rete girano voci che Jonze abbia semplicemente ricambiato un favore: la Le-Tan gli avrebbe infatti addobbato un muro della sua casa con decorazioni tratte da Il giovane Holden!).

Il frutto di questo incontro è Mourir auprès de toi (2011), produzione che ha tutti i presupposti per splendere di luce propria nell’universo jonziano, ma che nella pratica si rivela un po’ vuota in termini di sviluppo dell’idea base. Perché occhei, dotare magicamente di vita dei disegni inanimati è una figata e lo è ancora di più se si tratta delle copertine di un libro poiché qui l’aspetto giocoso si amplia e, davvero, un film così impostato potrebbe non terminare mai. Jonze & Cahn, per chi sta scrivendo, non sfruttano appieno le innumerevoli potenzialità che lo spunto di partenza offre, praticamente la biblioteca di Alessandria del nostro tempo, limitandosi ad eseguire la commissione, questo perché i libri presenti sugli scaffali sono creazioni reali della stilista messi in vendita sottoforma di pochettes ed accessori simili. Non è quindi nella realizzazione che il dito indice del sottoscritto punta Jonze perché esteticamente il cortometraggio è irreprensibile e dubito che possa non piacere, piuttosto sono deluso dallo spirito che muove gli ingranaggi, un afflato su disposizione che paradossalmente pur essendo fatto benissimo stinge di “artisticità” e si chiazza di pubblicità.
Il romanticismo, è quello che mi frega.

martedì 14 maggio 2013

Girotondo, giro attorno al mondo

Personaggio periferico Davide Manuli, il regista nostrano che non ti aspetti con una gavetta oltreoceano al fianco di un peso massimo come Al Pacino e forte di una amicizia stretta con Abel Ferrara, salito alla ribalta, si fa per dire, con La leggenda di Kaspar Hauser (2012) terzo lungometraggio di fiction per una carriera a latere che inizia con un paio di cortometraggi, i primi sono compresi nel biennio ’96-’97, e che arriva con Girotondo, giro attorno al mondo (1998) al debutto, sofferto, definito da Manuli stesso clandestino, girato in Francia con trenta milioni delle vecchie lire, montato in Italia e distribuito in qualche sala da dove ben presto è sparito; dieci anni dopo la Millennium Storm lo ripropone in DVD fino a che al Festival di Venezia ’12 non viene nuovamente proiettato alle Giornate degli Autori accompagnato da un libro che tra le altre cose contiene l’intera sceneggiatura.

L’emersione storica della pellicola appare la traslazione di ciò che viene raccontato al suo interno: è una storia da oblio, film non identificato dove i suoi protagonisti sembrano, sono fantasmi erranti, quindi morti: non c’è pace, l’estasi allucinata risiede nella musica a 140 bpm, non c’è luogo, le cartoline da mondi paralleli, e che siano discariche o cessi di bar di provincia poco importa, non c’è parola, inglese francese italiano, l’identità è incerta, multiculturale, spaccata, volatilizzata, eppure, sorprendentemente, c’è amore: sincero perché fra gli ultimi, fra due che hanno pestato il proprio passato, di lividi divenuti tatuaggi, trip lisergici, tipi psichedelici, ingenui (come ingenuo è l’ultimo dialogo) che però trovano l’amore, riemergono, e il dramma assurdo costellato da maschere pasoliniane sotto effetto di LSD diventa fiaba, sporca, fetida, laida, ma comunque, in qualche modo, con un lieto fine.

giovedì 9 maggio 2013

Jiro e l'arte del sushi

Il sushi. Questo prodotto culinario ormai capillarmente sdoganato in ogni parte del mondo, e il suo Maestro indiscusso: Jiro Ono, un arzillo ultra-ottantenne che ha dedicato, e sta dedicando tutt’ora, la sua vita a quella strisciolina di pesce crudo (e non) sorretta da una manciata di riso. Poi c’è il cinema del newyorkese classe ‘83 David Gelb, misurato ma anche sfacciato nel tentativo di carpire i segreti di una cucina che per rigore, geometria e pulizia non può che avvicinarsi all’arte.
Arte sì, ma anche e soprattutto dedizione totale al lavoro, quasi un sacrificio, una missione che il vecchio Jiro, nonostante i riconoscimenti internazionali, non si sente ancora di aver portato a termine. Nelle continue testimonianze che il film offre si può afferrare in primo luogo quale sia l’etica personale/professionale dello chef, e in secondo luogo, allargando lo spettro visivo, di come la cultura di un paese sia fondata su basi che si rispecchiano tranquillamente nei suoi singoli cittadini.

Il sopraccitato attaccamento al lavoro di Jiro che ha trasformato un’attività ristorativa in un culto con il suo tempio (il Sukiyabashi Jiro premiato con tre stelle dalla guida Michelin) e i suoi fedeli (le prenotazioni slittano a uno o due mesi dopo), è stato trasmesso con eguale efficienza ai suoi due figli maschi. All’abnegazione si accompagna qui un’altra peculiarità giapponese che vede la famiglia tradizionalmente patriarcale laddove il padre è l’unica figura di riferimento. Anche se in Jiro Dreams of Sushi (2011) tale aspetto è secondario nei confronti del macro-argomento, ad occhi occidentali risalta l’assenza di un accenno da parte di Jiro a sua madre o a sua moglie. Allo stesso tempo i due figli mostrano (anche se indirettamente) l’influenza paterna poiché il più grande pur avendo dei sogni lavorativi ha dovuto lasciarli nel cassetto per dedicarsi anima e corpo al ristorante, mentre il più piccolo, anche se proprietario di un locale tutto suo, esibisce un forte influsso avendolo arredato in maniera speculare a quello del papà.
Scampoli di Giappone anche nelle interviste allo staff di Jiro (e in ogni componente è ravvisabile la stessa fedeltà al mestiere) e nelle riprese all’interno del mercato con le sue strambe procedure di compravendita a cui si collegano le difficoltà dovute alla pesca selvaggia di recuperare del tonno fresco. 

Oltre al comunque interessante quadro socio-culturale, è il sushi il focus principale di Gelb, un cibo che come viene detto all’inizio non ha ingredienti particolari né richiede articolate ricette, è molto più probabilmente una ricerca di equilibrio tra i vari componenti per giungere alla perfezione del sapore, un sortilegio che manda in brodo di giuggiole le papille gustative, un’estasi di delicatezza il cui segreto, inafferrabile dal cinema, non può che essere celato dietro a quell'ultimo sorriso, sornione, serafico, sincero.