mercoledì 31 marzo 2010

Satantango

Senza parole.

È così che si rimane, dopo. E allora farò parlare i numeri per sciogliere quell’emozione che si forma tra le mie dita e la tastiera ogni volta che provo a parlare di qualcosa molto più grande di me, anche se comunque tutto ciò che verrà scritto dopo non raggiungerà MAI l’anima di quest’opera perché sta troppo in alto, o forse, troppo nel profondo.
450 minuti di durata, 4 anni di lavorazione, 12 capitoli suddivisi in due parti, una manciata di attori, un grande regista.

Sátántangó è film d’una bellezza indeterminabile. Qualcuno diceva che il cinema è la vita senza parti noiose, il cinema di Tarr, invece, contempla anche quelle, che però, ad un giusto peso, risultano la perfetta compensazione a sequenze di luminoso estro, genialità folgorante, inestimabile valore artistico. Durante le 7 ore abbondanti di proiezione si è testimoni di un componimento imponderabile: sfuggendo alla normale concezione che abbiamo della settima arte, Satantango si spinge negli anfratti segreti del Cinema e del suo raccontare, riprendendo anche la noia insieme ad un tutto che vasto come il cosmo non può essere capito da noi, troppo terreni e maleodoranti per qualche cosa che racchiude in sé vette di tale precisione per cui è lecito domandarsi se la mente dietro tutto ciò non abbia amicizie lassù, o laggiù.
E questo tutto inafferrabile ha la capacità di colmare un vuoto, uno dei tanti, che ci appartiene. L’arte ha probabilmente anche questo compito, quello di saziare la nostra fame rendendoci un pochino migliori di come eravamo prima senza conoscerla. La storia epocale di questo film racconta una e una sola faccia dell’uomo, quella della disperazione. Ma è uno sguardo così abissale, totale e sconfinato che le nostre facoltà faticano a farlo proprio, eppure per un’alchimia incomprensibile sentivo che il tutto di questo Tango era qualcosa di cui avevo bisogno per riempire i miei deserti personali.

Non è una pellicola dalle grandi deduzioni, non necessita di particolari sforzi semiotici. È lì quel tutto, davanti alla mdp di Tarr, in una fattoria ungherese inzaccherata dal fango in cui svolazzano mosche sibilline e ragni tessono arabeschi arcani. Ci sono uomini e donne in questa fattoria con il viso patito dagli elementi, alcuni non hanno dignità, altri rubano, tutti danzano ubriachi in un’osteria ai confini del mondo sbiadito in cui vivono.
L’unicum proposto da Tarr si dilata nel tempo fino a diventare infinito, e come se non bastasse nei primi sei capitoli continua a rincorrersi tramite un procedimento visivo che qualunque tentativo di descrizione ne sminuirebbe la sostanza. Ci sono alcune sequenze nella prima parte che sfidano l’occhio umano con la propria inenarrabile finezza. Sembra quasi che l’obiettivo della camera sia sospeso a mezz’aria e che compia movimenti impercettibili ma assolutamente calcolati e ragionati. L’intero film pare attraversato in ogni frangente da un rigore matematico, mentre a quel che si legge in giro molto è stato improvvisato sul momento. C’è del caos incapsulato in una perfetta biglia di mercurio. Non riuscirete mai a prendere questo film, sarà lui a farlo.

Gli innumerevoli piani sequenza che costituiscono Satantango si potrebbero incensare da qui all’eternità, ma lascio ad altri più competenti del sottoscritto tali glorificazioni. Piuttosto lascerei alle immagini il potere della descrizione che nessun vocabolo riuscirebbe a raggiungere.
- scena nel bar con Irimiás e Petrina (clicca)
- scena del ballo (clicca), questo è il momento topico del film, peccato la qualità video sia bassa.
- scena nella casa abbandonata (clicca)

Ma è poco estrapolato dal suo tutto, anzi sono quasi pentito di averle messe queste clip perché sarebbe come far vedere solo piccoli pezzetti della Gioconda. Tuttavia se avrò stimolato alla visione di Satantango anche solo una persona che leggerà il post, potrò ritenermi soddisfatto. Per aver riempito un vuoto, per aver rischiarato un mondo. Anche se in questi casi germoglia sempre una strana forma di gelosia per cui sembra che una cosa così bella se condivisa con altri perda di fascino, ma è solo l’arzigogolato animo umano a giocare brutti scherzi, non si può essere così avari nel negare l’incommensurabile piacere dell’Arte agli altri, sarebbe un delitto se dopo aver visto Satantango non avessi scritto queste righe. Nel mio piccolo ho immesso nell’immenso ricircolo culturale di internet una gemma preziosa che spero venga carpita da un numero più alto possibile di persone, perché la storia del cinema contemporaneo passa da qui.
E comunque, visto che la distanza tra la tastiera e le mie dita resta incolmabile nonostante tutte queste misere parole, ne prenderò altre in prestito:

Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa ci giungerà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante e spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze, diffondendola sull’arco di tempo che fu loro concesso di trascorrere sulla terra.
(Hannah Arendt L’umanità in tempi bui, 1968)

martedì 30 marzo 2010

INTERMITTENZA # 2

- prologo: avevamo costruito castelli di carte di credito con le mie gonfie buste paga ascoltando lady gaga dentro ipod all’ultimo grido di dolore mentre attaccano kabul la bomba atomica in iraq sono tutti amici tranne abdul morgan si fa di crack corona gira col frac si costruisce più in sicilia che ad art attack
indifferenza: avevi le tue luois vuitton dopo l’ipod l’ultimo iphone in partenza per l’atollo johnston seguivi il trend nel farti un bong rimbombava nella tua testa un gong pisciavi sulle ong da uno shop all’altro come a ping pong ci vorrebbe una ceretta per king kong
epilogo: avevo un impero nel portafogli e il tuo cuore di plastica impartiva ordini dettati dalle passerelle ti compravo le stelle la copertina su elle insieme alle modelle più snelle alla fine non c’ erano più soldi per due mozzarelle delle bancarelle alla fine sono rimaste solo due farfalle posate sulle mie spalle come uno scialle a ricordo delle tue attenzioni fasulle -

lunedì 29 marzo 2010

You, the Living: Gioisci dunque o vivente!

Stimolato dall’eccentrica visione di Songs from the Second Floor (2000), mi sono buttato su quello che ad oggi è l’ultimo lavoro di Roy Andersson: You, the Living (2007).
Le assonanze col film precedente sono tante e tali che questo Du levande può benissimo essere considerato la sua prosecuzione naturale. Anche qui non esiste una vera trama, si tratta piuttosto di un procedere per quadri, accompagnati dalle palleggianti note di un trombone, in cui non c’è un protagonista principale né personaggi secondari. Andersson riprende frammenti, istanti, secondi di vita (vuota) sempre con occhio sarcastico, a più di un passo dal grottesco.
Il regista svedese ripropone il suo personalissimo stile caratterizzato dalla totale staticità della macchina da presa. La sua scenografia sembra un po’ quei fondali già prefigurati per videogiochi stile Resident Evil con cui i vari characters non potevano interagire. Può piacere o meno, di certo è un’operazione coraggiosa degna di nota.

Non è tutto oro quel che luccica, difatti la banda suona con gli ottoni.
Il film, al pari del suo predecessore, accumula pian piano la necessità di uno scioglimento, anche di un minuscolo indizio che permetta di ricostruire il “caso”. Ma l’aspettativa rimane tale.
La sensazione è che se in Songs c’era un sottotesto bello forte con quelle frecciatine alla religione, qui si tende a sparare nel mucchio; una coppia in crisi o la teen-ager innamorata del chitarrista rock sono solo due delle tante figurine che affollano il film. Non c’è un vero filo conduttore tra di loro, a parte quello della mediocrità che le attanaglia, ma codesta rappresentazione dell’uomo medio non mi ha colpito granché per come è stata resa sullo schermo.
Le aspettative c’erano anche su una possibile scena conclusiva che riuscisse ad essere potente almeno un decimo di quella del giorno del giudizio, ma anche qui si è affacciata un po’ di delusione: non basta quella squadriglia di aerei che solca il cielo annunciata in apertura di film per chiudere in maniera convincente questo cerchio surreale.
Sorprende positivamente, invece, la sequenza onirica in cui il chitarrista si mette a suonare e il paesaggio dalla finestra inizia a scorrere come se quello fosse il vagone di un treno. Direi che in questo caso, per una volta, il termine visionario non è sprecato.

E Andersson lo è davvero un regista visionario, nonostante un passo falso commesso comunque con stile e probabilmente consapevolezza. C’è bisogno del suo contributo per smuovere le melmose paludi della banalità, peccato sia poco prolifico: solo 4 film dal 1970 a oggi!

venerdì 26 marzo 2010

Lucía y el sexo

Un buco.
Che non è l’inizio del film né la sua fine, ma l’escamotage narrativo che rinchiude la pellicola di Medem in una ruota (a)temporale di storie dentro ad altre storie costruite addosso a personaggi trasferibili, intercambiabili, moltiplicabili.
Di buchi logici, allora, ce ne saranno eccome e sospendere l’incredulità sarà un’azione consigliata ma al contempo facoltativa. Se si è in cerca di un realismo tangibile, di un’attinenza alla realtà, ne consegue che Lucía y el sexo (2001) non sarà mai il film che fa per voi.
Capisco le critiche piovute sul regista. D’altronde la messa in scena è talmente articolata e montata ad arte per cui la comprensione dei vari piani di lettura si fa così complicata che è più sbrigativo tacciare Medem di manierismo eccessivo piuttosto che calarsi in questo meandro di sentimenti.

Tuttavia, a dispetto di una costruzione artificiosa, il film ha un’indecifrabile forza che si avverte sorprendentemente sincera dove perfino le scene di nudo, quasi sempre specchietto per le allodole, si amalgamano in maniera naturale nella non-trama che sarà anche esasperata, sconnessa e pretenziosa ma che nel suo atto di spiegarsi ingarbugliandosi è terribilmente conturbante.
C’è però un’altra forza altrettanto impenetrabile che spiega le sue ali. Come ne Gli amanti del Circolo Polare (1998) tutto, e ripeto tutto, il film è attraversato da un tale continuo rincorrersi di epifanie che: o Medem vi risulterà pedante o vi manderà in brodo di giuggiole come il sottoscritto. Tutti i costanti richiami che evocano e rievocano a sé altre situazioni lasciano una piacevole sensazione di déjà vu come vero valore aggiunto dell’opera.
La fiaba cinematografica così creata, e una favola lo è per davvero vista dall’angolatura padre-figlia Lorenzo-Luna, rappresenta l’odissea dello spazio e del tempo dove piccoli amanti corrono intorno a una breccia (vagina) o a un faro (fallo) nel desiderio spesso umiliato di un paradiso terrestre impossibile: l’isola. Una Formentera disancorata, in balia del mare, genesi e apocalisse di tutto, lì sotto il chiaro di luna inizia, lì sotto il sole digitalizzato finisce. O meglio, la storia si getta in un buco ritornando a metà per continuare a raccontarsi in loop.

Paz Vega è un raggio di sole (oh-oh), l’ultimo desiderio prima di morire.
E Julio Medem anche se non sarà il primo né l’ultimo a dirci queste cose, l’importante è che ce le dica così.

martedì 23 marzo 2010

Irina Palm - Il talento di una donna inglese

Il piccolo Ollie è affetto da una malattia curabile solo in Australia. I giovani genitori non hanno i soldi per pagare il viaggio, così la nonna Maggie si mette a cercare lavoro. Rimbalzata in più posti a causa dell’età, si butta nell’ultima spiaggia del night club. Dapprima riluttante a smanettare piselli attraverso un glory hole, viene convinta da Miki, il proprietario del locale, che oltre a ricoprirla di soldi le affibbia anche un nome d’arte: Irina Palm. Il rapido prologo getta le basi per una classica favoletta stile Walt Disney. In effetti il povero bimbo malato, i genitori squattrinati, la nonna amorevole che prende spallate per strada, sono ingredienti zuccherosi che alzano il tasso glicemico manco fosse una storiellina della buonanotte. Ed anche se si tratta di una vecchia che fa seghe a sconosciuti in uno strip club, ogni virata nello squallore, nella drammaticità, nell’avvilimento della professione, è addolcita da una costante sensazione di happy end imminente e inesorabile.
Eppure, Irina Palm è un film che si fa voler bene.
Perché alla fine il buonismo ad ogni costo ad ogni modo non può bastare a discriminare una pellicola che avrà sì il “germe” del Mulino Bianco dentro sé, ma che comunque ha la capacità rendersi simpatica allo spettatore medio.

La sorgente di questa empatia si genera con il netto divario (separazione: separa Maggie, separa!) che sussiste anche quando la nonna va a spipettare uccelli per il nipotino ammalato. La donna non riesce a dividere la sua vita dal lavoro portando quadri e piantine nello sgabuzzino, sicché vediamo una signora di mezza età con tanto di grembiule affaccendarsi in cose che non le appartengono più. La forza comica sta nell’aver calato all’interno del contesto lussurioso del night un personaggio atipico, e da qui nasce il divario diegetico che stuzzica lo spettatore.
Ma anche se nel buio del locale vige la legge dell’immoralità, almeno in apparenza, il regista Sam Garbarski suggerisce di come alla luce del sole si possano trovare personaggi molto meno umani di Miki. Ne sono un esempio le amiche impiccione (e traditrici) che sembrano uscite dalla penna di Reg Smythe. Quello del mondo in superficie contrapposto a quello sotteraneo è il livello di lettura più interessante dell’opera, di sicuro non facile da cogliere a causa degli attacchi diabetici che subirete. Nota negativa che dimenticavo: Garbaski utilizza così spesso le dissolvenze in nero da farmele quasi odiare.

Marianne Faithfull, intravista da ‘ste parti con Intimacy (2001) ma anche e soprattutto cantante rockeggiante, sfodera una recitazione volutamente sottotraccia, goffa e ingolfata dal cappottone rosso che praticamente non abbandonerà mai. Miki Manojlović, conosciuto in Italia per Il macellaio (1998), è uno dei migliori attori slavi in circolazione, e se un giorno dovesse smettere di recitare avrebbe un futuro assicurato tra pali oleati e ballerine in perizoma.

domenica 21 marzo 2010

The Untold Story

L’irritabile cuoco Wong stermina una famiglia proprietaria di un ristorante per un debito non pagato. Si impossessa così del locale senza riuscire a reprimere i suoi istinti omicidi, e a farne le spese saranno alcuni dipendenti della trattoria. Nel frattempo la polizia indaga.

Filmetto hongkonghese del ’93, dall’improbabile titolo originale (Baat sin faan dim ji yan yuk cha siu baau) diretto dall’anonima coppia Danny Lee – Herman Yau.
Molto conosciuto (e apprezzato) dagli afecionados dello splatter orientale, la pellicola vive più per il passaparola selvaggio che per ciò che in realtà è.
Di non detto come da titolo non c’è niente, anzi l’efferata crudeltà dell’assassino, ma non solo, viene ovviamente mostrata con dovizia di particolari. Il gore c’è, ma c’è anche qualche pezzo di manichino che dovrebbe essere un avambraccio umano, e in generale un’attenzione quasi amatoriale agli effetti speciali. Da qui probabilmente deriva l’aura cult che circonda il film, ma a distanza di circa vent’anni The Untold Story suona esteticamente un bel po’ consumato.

Particolare la scelta di coniugare comicità e brutalità. Se da una parte le gag comiche della polizia spezzano l’andazzo truculento che avrebbe sminuito ancora di più il film, dall’altra è anche vero che le suddette scenette sono di un umorismo che tocca la demenzialità. Pur strappando a fatica qualche mezzo sorriso, la banda di poliziotti così rappresentata è uno stuolo di stereotipi viventi: l’ispettore latin lover, l’agente palestrato che vorrebbe imitarlo, la collega che cerca di essere donna e altre due macchiette bidimensionali. Aspettarsi introspezione in un film del genere sarebbe sbagliato, però un briciolo di fantasia in più non sarebbe stato un delitto.
E a proposito di delitti, vera crème della pellicola, in generale sono molto crudi, anche rozzi contando una cameriera che vede finire nella sua vagina un paio di bacchette cinesi. Ma soprattutto politicamente scorretti con il massacro finale in cui a perdere la testa (in senso figurato) non è solo Wong ma anche sette bambini la quale testa viene staccata veramente, a colpi di mannaia.

La cosa che io dico è che se un’opera diventa “famosa” solo per i suoi scotennamenti mi pare ci sia qualche mancanza. Si avverte di come poi tutto sia costruito per sorreggere ed erigere l’eccidio familiare conclusivo, che poi è l’unica sequenza che urterà seriamente la vostra sensibilità, d’altronde quando ci sono di mezzo dei bambini è difficile restare cinici. Quindi tutto il resto appare come un pretesto gratuito per mostrare un po’ di sangue, in ogni caso ampiamente digeribile per chi mastica il genere. A parte il flashback finale, come detto.

The Untold Story è stato classificato come CAT III (sistema di censura che vige ad Honk Kong) al pari di Riki-Oh (1991). Ma se dovete scegliere buttatevi senza esitazioni sul secondo, decisamente più divertente e buffo, quando si dice intrattenimento.

giovedì 18 marzo 2010

Il grande capo

L’idiota Kristoffer trova un modo per svolgere la professione che ama: recitare, e lo fa sotto mentite spoglie nel ruolo di Grande Capo in un’azienda informatica. “Scritturato” da Ravn, il vero capo (ir)responsabile dell’azienda, viene incaricato di vendere la società ad un pragmatico islandese con tanto di traduttore al seguito.

La perfidia di Lars von Trier è cosa nota. Sia nell’illustrare storie drammatiche, sia nei mezzi, sovente fastidiosi e didascalici, con i quali le racconta. Difficilmente a fine visione di un suo film non vi rimarrà in fondo al palato un retrogusto vontrieriano che, a seconda dei casi, vi farà amare, odiare, o entrambe le cose, la pellicola. Sarà scontato dirlo, ma questo regista danese ha la capacità di rendersi protagonista (anche di una recensione) pur non facendo parte del profilmico, sebbene in questo caso appaia di sfuggita. La sua mano così marc(hi)ata è un biglietto da visita inconfondibile, indi per cui non mi sono stupito affatto di questa declinazione tragicomica del suo cinema, non mi sono stupito del sistema Automavison (potrà esserci anche un computer a dettare le inquadrature, ma ci sarà sempre un “capo” sopra di esso), non mi sono stupito della presenza fisica, o per meglio dire riflessiva, di von Trier perché l’eccentricità non è una dote che gli manca. Eppure, nella complessità che si cela sotto l’apparente sempliciotto vestito, Il grande capo mi ha stupito.

Probabilmente trovandomi di fronte a quello che sulla carta sembrava un semplice divertissement, le aspettative non erano così alte, e di conseguenza non c’era il rischio che venissero disdette. Così, con occhio e cuore meno clinici, ho lasciato che tutte le riflessioni meta dentro al film mi portassero ad una conclusione: Il grande capo è molto meno “esercizio di stile” rispetto ad altri suoi lavori più famosi abbondantemente caricati e pomposi. Ciò perché: a) la realistica sobrietà degli uffici è in grado di fronteggiare anche il teatro di posa più scarno; con il dittico americano von Trier, pur costruendo la scena su un ambiente spoglio, lo ha per l’appunto, costruito, si tratta di un artifizio, un elemento che nel subconscio dello spettatore potrà risuonare anche con note vagamente esibizionistiche. b) usa l’ironia. Che sembra poco, ma usarla bene, nei modi e nei tempi, è un’operazione ben più complessa che trattare situazione tragico-drammatiche. The Kingdom (1994) docet. c) per le sopraccitate riflessioni, per la capacità di portare al pensiero lo spettatore tramite il proprio pensarsi. Il circuito ideologico (l’idea è dio per Kristoffer) viene azionato da von Trier stesso all’inizio del lungometraggio quando appare il suo riflesso sfocato sul vetro: “Questa è una commedia, non c’è pedagogia, non c’è formazione di coscienze, non c’è bisogno di riflettere” . Ovviamente l’affermazione è provocatoria, perché è proprio da qui che si partirà con le domande, e quindi a riflettere.
Alla fine, dopo il monologo dello spazzacamino, non resta che applaudire.
E il sipario si chiuda pure.

martedì 16 marzo 2010

El mar

Nella Spagna franchista un terribile evento segnerà per sempre l’anima di tre bambini. Ramallo finirà nelle mani di un padrone-amante che lo invischierà nei suoi loschi giri, Manuel si chiuderà in se stesso affidandosi alla fede, mentre Francisca deciderà di farsi suora per aiutare i bisognosi. Anni dopo si rincontreranno in un sanatorio.

Sulle pagine di Oltre il fondo ho spesso ospitato registi che, come ben saprete, esulano dalla routine cinematografica. Il loro distinguersi dalla massa è imputabile a diverse motivazioni: chi è inarrivabilmente poetico, chi è saccentemente provocatorio, chi è materialmente metafisico, chi è vertiginosamente disturbante. Anche se questo è solo il secondo film di Villaronga presente nel blog, mi sento con una certa tranquillità di poterlo annoverare nella stretta cerchia di registi che per un motivo o per l’altro si fanno apprezzare per il loro andare controcorrente.

Villaronga è un killer. A volte un po’ pasticcione nel voler osare a tutti i costi, ma sempre così crudele da non poter lasciare indifferenti. La stessa inesorabile crudeltà di In a Glass Cage (1987) viene riproposta con qualche ammorbidimento anche in El mar (2000). Ed anche in questo caso è un trauma infantile a condizionare l’esistenza dei protagonisti, se prima era la pedofilia qui è la guerra a depositare scorie di violenza che esploderanno negli anni successivi.
A fronte di una certa predilezione per lo shock visivo che il regista sembra amare particolarmente, fa da contraltare la preziosa maglia narrativa che sa prendere per mano lo spettatore per condurlo sotto la superficie. Sebbene l’acqua sia torbida e melmosa, puzzi di zolfo e di incenso, sul fondale possiamo gustarci perle di cinema cattivo e spietato senza compromessi. C’è un bambino morto accoltellato, malati di tubercolosi che sputano sangue come fontane, il calvario dell’introverso Manuel che richiama a sé echi messianici: la speranza non risiede in quest’opera. Ma sopra ogni cosa c’è nuovamente una cupola avvolgente che rinchiude tutto il film in una gabbia malsana, putrida, deviata. Non ci sono sentimenti, o se ci sono sono repressi (con la violenza o con la religione), e l’umanità è un sentiero impossibile da percorrere.
Il mare, che non vedremo mai, è la vera utopia. I bambini saranno già morti in quella grotta, il resto della loro vita sarà soltanto un rincorrersi di illusioni, fiumiciattoli che non arriveranno mai a quel mare agognato, e che moriranno aridi nell’ansa sabbiosa di una caverna.

The Sea è un film (pre)potente in cui il martirio di tre ragazzi viene rappresentato da Villaronga con mezzi a volte anche rustici (vogliamo parlare del gattino preso a calci?) e, perché no, dal gusto discutibile (vogliamo parlare del coltello nella gola del bimbo?), ma in entrambi i casi si può chiudere un occhio, anzi due, tuffarsi in questo mare e trattenere il respiro.

venerdì 12 marzo 2010

The Castle

Probabilmente uno degli Haneke meno conosciuti.
Per due motivi: primo perché Das Schloss è un film girato per la televisione austriaca (ma in Francia e in America è uscito il dvd), e secondo perché riporta la data 1997, una data che per il cinema di Haneke è fondamentale visto che in quell’anno si fece conoscere al mondo intero con uno dei film più scioccanti di sempre: Funny Games. Difatti, nel cast di The Castle figura la stessa coppia dei “giochi divertenti”, il compianto Ulrich Mühe e la nervosa Sussanne Lothar.
Così, questo The Castle, schiacciato dal blasone del suo fratello maggiore, è passato in sordina anche per i più convinti estimatori del regista.
L’opera è tratta dall’omonimo romanzo di Kafka, Il castello (1926, 1° ed.), nella quale si raccontano le vicende dell’agrimensore K. (un misuratore di superfici agrarie) che stabilitosi in un villaggio dal clima ostile come i suoi abitanti, incontra mille difficoltà nel svolgere la sua mansione che di fatto non riuscirà ad assolvere, finendo a (non) fare il bidello. Peggio, verrà risucchiato in un arido triangolo amoroso che non lo porterà a niente. Né al misterioso Castello che sovrasta il paese, menchemeno a Klamm, sfuggente funzionario la cui presenza aleggia per tutta la durata del film.

Avendo io la colpa di non aver letto niente di Kafka a parte le tribolazioni di Gregor Samsa, non saprei dirvi se Haneke sia riuscito o meno a traslare dalle pagine alla pellicola quel senso di sottomissione, arrendevolezza e smarrimento dell’uomo medio di fronte ad un’esistenza sovrastante. Il mio occhio profano dice che il risultato finale lascia un po’di amaro in bocca derivante da un non-intreccio della storia poco funzionale alla deduzione degli eventi. Non è grave il fatto che la pellicola sia lenta perché allora non potrei considerarmi l’adepto numero 1 di Haneke, ma pesa il fatto che nel suo girovagare da un luogo all’altro, da una situazione all’altra, K., dice, fa, subisce cose che non sono facilmente riconducibili alla realtà filmica. Forse questo è anche dovuto all’inizio brusco del film che catapulta K. in una locanda senza sapere niente di lui né del paese in cui è arrivato, quindi prendere confidenza con i vari personaggi, dal loro nome al loro “essere”, può essere difficile. E anche quella voce off che accompagna la visione ha più una funzione descrittiva che una significativa come ne Il nastro bianco (2009).
Poi se Il castello è la vostra bibbia vi ritroverete senza dubbio più di chi non l’ha letto.

Lo stile di Haneke causa forze maggiori (la tv impone come il castello!) si allontana dalla sua solita geometria diabolica – ma non pensate sia inesperienza, basta prendere Der siebente Kontinent (1989!) per vedere bene di che pasta era fatto anche 8 anni prima – lasciando il posto ad una regia ordinaria, utilizzando un linguaggio cinematografico più convenzionale rispetto ai suoi standard.
Non mancano però alcune brevi carrellate suoi protagonisti che camminano nella bufera a preludio dell’ottimo Storie (2000) nel quale si concreta una simile frammentazione della storia.
Piacevolmente inaspettata è una vena grottesca, per non dire surreale, che emerge qua e là nella pellicola in particolare con i due aiutanti onnipresenti. Strano fatto visto il rigore visivo e non, tecnico e non, che attraversa la filmografia hanekiana. Da questo punto di vista allora sì che è riuscito a riproporre sullo schermo le celeberrime situazioni kafkiane, al pari della “non fine” che resta una costante anche nel suo cinema.

mercoledì 10 marzo 2010

Il quarto tipo

Sulla scia del mockumentary contemporaneo reindirizzata dal duo Myrick-Sánchez (ehi, però non bisogna dimenticarsi cos’è stato Cannibal Holocaust nell’80), un aitante regista americano di nome Olatunde Osunsanmi propone (propina, magari) la sua variazione sul tema utilizzando l’escamotage degli alieni.

L’aspetto più fastidioso, irritante quanto una bolla di varicella, è la pedante contrapposizione tra realtà e finzione. Purtroppo veniamo già messi in guardia dalla Jovovich ancora prima che il film inizi: “tutto quello state per vedere è basato su documenti reali”, e subito dopo l’attrice aggiunge una frase pessima, ma veramente pessima: “alla fine sarete voi a decidere se crederci o meno”. Ah beh Milla, su quello puoi starne certa, tuttavia nella visione di un “finto documentario” l’ultima cosa che vorrei vedere è il continuo evidenziare dell’elemento che dovrebbe convincermi: il reale.
Le terrificanti schermate frazionate che affiancano fiction e materiale “autentico”, oltre a sottovalutare le capacità cognitive dello spettatore – abbiamo capito quali sono le intenzione fin da subito, perché continuare stucchevolmente a ripetere? –, rappresentano il tentativo di caricare più del bisogno il concetto di realtà, tentando di convincere chi guarda della bontà delle immagini. È una narrazione sbilanciata, imparziale, che da buona tradizione americana si fa gridata, sbraitata, enfatizzata suscitando di conseguenza quell’incredulità che è l’effetto inverso che vorrebbe originare.
E non manca una certa superficialità nella trattazione della materia con la baggianata del sumero.

Poteva andare peggio solo se a Osunsanmi fosse venuta l’idea di mostrare i presunti alieni in tutta la loro bellezza, almeno questo ce l’ha risparmiato.
È un peccato perché a parer mio l’argomento extraterrestri ha enormi potenzialità nel campo del fantastico e non. Ahimè non ho ancora visto un film che getti uno sguardo interessato (e NON interessante, capisco di chiedere troppo) sulle abductions, bisogna accontentarsi di produzioni che vivono più sul marketing che sui loro contenuti. Di cui non v’è traccia.

E comunque un vero alieno ne Il quarto tipo c’è. Non sono i gufi, o g-ufi per meglio dire, bensì la dottoressa Abigayl Tyler, discendente diretta degli e.t. di Communion (1989), garantito.

domenica 7 marzo 2010

Betty Blue

Zorg e Betty. Una coppia decisamente invidiabile: lui genio represso costretto a lavoricchiare in un villaggio balneare, lei femme fatale inafferrabile come il vento. Troppo stretto per loro due quel posto, meglio Parigi con la sua vita di coppia disordinata ma piena di amore. E poi l’occasione d’oro: un negozio di pianoforti per continuare a vivere in tranquillità insieme ad un bebè in arrivo. Ma il bimbo non arriverà mai, gettando Betty in una depressione fatale che le costerà tutto.
Una coppia davvero invidiabile, o forse no.
Pellicola che pare si avvicini dalle parti del cult, diretta dal francese Jean-Jacques Beineix nell’86, molto amata dal pubblico e in parte anche dalla critica poiché all’epoca ricevette non poche nomination in vari festival cinematografici.
Dall’apertura degna di nota, ovvero un amplesso molto piccante, si prosegue con un’atmosfera in bilico tra commedia, a tratti veramente sfrontata, e romanticismo non meno esibito, per concludere in un climax drammatico nel quale l’ultimissima immagine riprende con lo stesso angolo di visuale il coito iniziale.
A caldo ritengo che l’aspetto scherzoso, con le sue gag da slapstick comedy, abbia un peso maggiore di quel che dovrebbe avere. Questo non vuol dire che il finale tragico non sia giustificato a causa di una scarsa coerenza all’interno della storia perché non è così. Tuttavia ci sono dei passaggi a vuoto oltremodo superflui (la parte in cui la coppia va a stabilirsi a casa degli amici poteva essere snellita di brutto), tutti segmenti poco utili ai fini del racconto che appesantiscono ad oltranza la visione. Se l’escalation drammatica delle ultime battute è passabile dal punto di vista della sua costruzione, da quello empatico appare un po’ fragile e poco ragionevole alla luce dell’affettuosa relazione mostrata. Lungi da me sminuire l’impatto psicologico che un aborto deve comportare, tuttavia il gesto di Zorg mi sembra poco attendibile ed enfatizzato dalla fiction.
L’unico ad approfittarsi di cotanta abbondanza diegetica è il regista, a cui piace muovere molto la mdp anche in ambienti chiusi come una cucina. Mi è piaciuto molto l’accorgimento da lui utilizzato durante un inseguimento tra i due amanti nel quale un cartone sembra arrivare dritto dritto tra gli occhi dello spettatore. Un piacevole dettaglio.

La coppia, interpretata rispettivamente da Jean-Hugues Anglade e Béatrice Dalle, lascia da parte ogni inibizione mettendosi a nudo sia dentro che fuori (occhio alle versioni del film, ne esistono due: una da 120 minuti e una director’s cut da 185), dimostrandosi a proprio agio di fronte ad un obiettivo piuttosto e anzichenò voyeuristico.

Un cult? Naaa, però il borsino finale ha un paio di cosette positive: i due attori sopra tutto.

giovedì 4 marzo 2010

A Snake of June

Piove sul Giappone.
Una volta per Tsukamoto erano scintille che stridevano su armature metalliche, poi pugni di una forza inaudita nella Tokyo più feroce, infine, sono diventate gocce d’acqua; avvicinandosi, così, ad una visione più umana… dell’essere umano iniziata con Gemini (1999).
Niente più uomini d’acciaio, ma, giust’appunto, serpenti allevati in un seno malato che non deve essere tagliato per l’amore freddo di un marito senza attenzioni (“Quel tipo di tumori colpiscono principalmente le suore a causa della loro scarsa attività sessuale. Rinko è una suora?”) e senza passioni (si limita a masturbarsi vedendo sua moglie fare la stessa cosa sotto la pioggia).

Tsukamoto, sia dietro che davanti la mdp, è molto più maturo.
Come attore, da vittima designata delle opere precedenti, qui è capace di frenare la deriva nichilista degli altri personaggi legandoli tra loro con un filo – telefonico, la parte in cui disinibisce Rinko via cellulare è riuscitissima – riuscendo a ricongiungerli. Si pensi alla narrazione suddivisa in pseudocapitoli: il primo simbolo che appare è quello della Donna, il secondo dell’Uomo e il terzo è una fusione dei due precedenti. Tsukamoto/Iguchi è in grado di salvare queste anime, illuminandole con i flash della sua macchina fotografica e spogliandole in senso figurato e non.
Parimenti come regista ci dona una riflessione finalmente (e inaspettatamente) positiva in cui il cinema riesce a lenire il male e ad unire due persone. È la prima volta che Shinya fa trapelare un raggio di luce nel suo inferno di cellulosa, mai prima di A Snake of June tutto ciò che sostanzia i protagonisti (sentimenti, anime, coscienze) era stato intensificato, potenziato: salvato. Ovviamente gli incubi e i demoni di sempre non mancano: visione allucinante di uomini con teste a monocolo, lumache e tentacoli che riportano alla vertigine di Tetsuo (1989). Tuttavia a tormenti di questo calibro possiamo aggrapparci al corpo sinuoso della splendida protagonista che nuda sotto la pioggia regala una sequenza di Cinema indimenticabile.

In Giappone continua a piovere, ma Tsukamoto ci offre uno scomodo riparo per asciugare i nostri occhi. Non è facile vedere un suo film, e non è altrettanto facile capirlo. Sta a voi decidere se continuare a bagnarvi o meno.

mercoledì 3 marzo 2010

INTERMITTENZA # 1

- quando aspettavamo treni su binari morti coi tuoi arcobaleni spenti su pianeti desolati e letti inesplorati che sapevano di frigo vuoto mentre passano i grandi fratelli insieme agli anni insieme ai treni insieme ai ricordi dei pensieri. quando andavamo in stazione con la clessidra in una marlboro e le tue cornici senza oro per chilometri di quadri in bianco e nero. quando uscivamo in città per il treno e la stazione per il tuo odore che mi accompagnava come cani randagi dei loro latrati dei miei tormenti delle briciole di momenti. quando fissavo la galleria mangiare il treno del tuo profumo dentro un buco pieno e scuro si apriva un vuoto denso di vetro duro e nodi in gola di fazzoletti dimenticati agli angoli dei letti -

martedì 2 marzo 2010

Manderlay

A scuola con Lars

Abbandonato il villaggio/canile di Dogville, una nuova, eppure uguale, Grace, si imbatte in compagnia del paparino Dafoe, nel villaggio/prigione uguale, eppure diverso, di Manderlay.

Man-under-lay. Uomini sotto la legge di Mam, Lars von Trier legifera come il vecchio Wilhelm: se non ci sono leggi non si può andare avanti. Non sopravvive una piccola comunità di schiavi, non procede, in linea teorica, il suo cinema. Il Dogma è stato solo la punta dell’iceberg, sotto, in ogni sua opera, si scorgono vincoli e imposizioni che valgono come un compito assegnato a lezione dal professore. Egocentrico, ma in una forma impersonale, come il regista danese è, prende posto contemporaneamente sia dietro la cattedra che dietro il banco. Lars è uno studente furbo, il compito gli riesce quasi sempre, la lezione molto meno.
In Dogville (2003) è riuscito ad integrare i due aspetti “educativi” (lezione e compito) con un film che ha per di più una carica emotiva s-co(i)nvolgente. Manderlay (2005), per contro, è un involucro freddo in cui Trier ha inserito una retorica da pochi dollari esplicitandola al massimo. I momenti in cui Grace si mette ad “insegnare la democrazia” facendo lezione agli schiavi, trasformano la protagonista da fiero animale (un cane selvatico?) del primo capitolo, a maestrina (ammaestrata) del secondo, con susseguente inimicazione agli occhi dello spettatore.

Proprio la figura della novella Grace, forse la Howard è più aggraziata ma è meno carismatica della collega, rappresenta un passo indietro nell’ispezione trieriana dell’America. Il primo film reggeva – anche – per il mistero che avvolgeva la Kidman, fragile silhouette in costante pericolo, e il suo candore, ovviamente apparente, che la elevava nei confronti degli altri abitanti. Di questa Grace, invece, ormai sappiamo tutto perché il prof. Trier ce l’ha detto chiaro e tondo: lei vuole fare del bene, difendere i deboli e portare equità nella piantagione. Ma allo stesso modo sappiamo che è figlia di un gangster, e che perciò sta anche dalla parte dei cattivi, è potenzialmente malvagia, e che forse degli essere umani non le importa più di tanto. Il personaggio è diventato prevedibile perdendo di fascino.
Anche gli abitanti di Manderlay sono uno stuolo di luoghi comuni (classificati apposta, sì, ma pur sempre stereotipi, da stereòs, immobile) che non muovono ragionamenti al di là dello schermo.
Il set, di nuovo un teatro di posa, è ancora più scarno del precedente, ma soprattutto è molto più scuro, tenebroso, mono-tono. Mancano quelle incantevoli riprese dall’alto, superate da un uso inflazionato della camera a mano.

Come von Trier insegna (aridanghete) la macchina a mano mostra la verità. Ma se la Verità è il precipitato di un racconto bolso, fiacco e apatico come possiamo noi alunni venire educati? Cosa si può imparare da un insegnamento che non stimola il pensiero? La verità è che non esistono lezioni noiose, ma solo professori tediosi.