venerdì 30 settembre 2011

Cold Fish

Nel momento in cui la Terra giunge al suo giro di boa come più volte ripetuto, Sion Sono scodella sul nostro piatto una portata di mostruosa densità, opera dall’incalzante quanto recalcitrante disturbo visivo, Cold Fish (2010) alza l’asticella della sopportabilità unita al sospetto sociale, autopsia di una società che il regista giapponese mitraglia fin da subito con delle scritte sovraimpresse: Questo. Film. È. Tratto. Da. Una. Storia. Vera.
Trattasi perciò di una vera e propria cronistoria corredata di date e orari precisi come se si trattasse di un resoconto giornalistico, eppure la precipua attinenza dei fatti, di un appiglio al reale, scema, perde interesse con la progressione narrativa che rivela stilisticamente e semanticamente il solito tracimante Sono il quale dà vita (/morte) ad uno strano circo che attraverso i suoi personaggi così caricaturali, così allegorici, così miikiani, così sononiani, dona fottutissima (in)credibilità a processi micro che rimandano ad un sottotesto mac(ab)ro e urgentemente attuale.Come per Strange Circus (2005, occhio perché c’è un’altra Mitsuko) questa è una vicenda di spersonalizzazioni, di disindetificazioni, di uno smarrimento totale del sé personale e sociale. È chiara la distruzione dei ruoli: la moglie, già surrogato della deceduta figura materna, accetta le avances di Murata, la figlia Mitsuko apostrofa malamente il proprio padre, e quest’ultimo si delinea un oggetto passivo delle varie angherie che gli toccano. Come oculatamente riportato da Dario Stefanoni (link) questa è una narrazione che mostra sopra e oltre le righe l’annichilente scivolamento della famiglia giapponese in una pozza di fetida disumanità, con particolare riferimento alla figura paterna segnata dal marchio indelebile della violenza e sballottata fra estreme vessazioni a cui corrispondono terribili reazioni.

Ma questa è anche una storia di imbarbarimento che procede per accumulo.
Accumula lo spettatore che vede via via l’occhio di Sono farsi sempre più frenetico, e accumula il povero Shamoto che ribalta il suo status da vittima a carnefice.
La locandina evocante un film non troppo lontano da qui come Cane di paglia (1971), mostra l’uomo con gli occhiali da vista semirotti, infatti è proprio nell’apice narrativo della pellicola – un duello a mani nude da vedere e rivedere che si conclude con una forzata violenza ai danni della moglie di Murata – che il protagonista perde un gingillo così “borghesizzante” come lo sono un paio di occhiali, e così inizia il suo tracollo verso la bestialità.
Dustin Hoffman alla fine guidava in una strada circondata dal buio, in Tsumetai nettaigyo è il buio a ad oscurare la Terra.

Al di là dello splatter massicciamente presente, delle varie aberrazioni sessuali e omicide (la figlia che diventa voyeur e vittima del proprio padre), ciò che stordisce davvero è l’apatia generale che plasma questo gruppo di persone, una sorta di desertificazione dei sentimenti alimenta un’atmosfera di sadismo che non ha scappatoia, e lo dimostra il caustico (e splendido) finale dove Mitsuko sbeffeggia il padre morente.
La massima conclusiva è degna delle due ore e mezza precedenti, Sono ci dice che la vita è dolore, e avendo trattenuto il fiato per tutto questo tempo non si può fare altro che credergli.
Ah no, c’è un’altra cosa che si può fare: applaudirlo.

mercoledì 28 settembre 2011

oif Reloaded

Eccoci qua! Detto fatto, Oltre il fondo si è rifatto il trucco e questo è il risultato.
Come ogni cambiamento che si rispetti c’è bisogno di tempo per poter assorbire e assimilare, anche se, come potrete ben vedere, non è cambiato moltissimo dato che i colori base sono sempre e volutamente quelli, tuttavia assicuro che per chi come il sottoscritto non ha e non aveva grosse conoscenze di web-linguaggio, anche cambiare uno sfondo, eliminare gadget superflui, o utilizzare per la prima volta delle stringhe senza maneggiare delle scarpe, non è proprio una passeggiata di salute, e credo perciò che almeno per quanto riguarda la base più di così non potevo fare.

Quel che è certo, invece, è che si può migliorare, magari anche grazie alle vostre segnalazioni.
Un primo problema l’ho già notato, ossia che negli schermi piccoli (portatili, e penso – rabbrividendo – anche smartphone e affini) i buchi della pellicola sconfinano nel testo e ne esce fuori un pastrocchio. Mi spiace, ma per adesso non so come ovviare al disguido. Dal canto mio posso dire che avendo un fisso con schermo (vecchio) e di medie dimensioni vedo tutto ben centrato e proporzionato, quindi compratevi uno schermo più grande se non lo avete, eddai su.

Fino ad oggi mi ero sempre appoggiato ai modelli offerti dalla piattaforma che permette il servizio, anzi mi ero appoggiato solo ad UN modello, cambiando qualche colore qua e là, mettendo delle foto là e lì, ma la sostanza non cambiava e io né me ne preoccupavo né me ne compiacevo.
E allora cos’è successo? Niente di particolarmente sconvolgente, soltanto che uno dei blog di cinema (principalmente horror, ma che importa?) più competenti e professionali di tutta la rete ha chiuso, e il suo autore ha trasmigrato in un nuovo spazio virtuale. Ancora nulla di eclatante, se non fosse che accedendo al natio blog, diverso per grafica e, pare, anche negli argomenti, mi sono accorto di due cose: la prima di quanto quello fosse personale, e la seconda, a catena, di quanto fosse impersonale il mio.
Sì beh, possiamo parlare di contenuti che qua mi dite sembrano esserci, vi credo sulla parola, ma, è il caso di dirlo, sentivo da tempo la necessità di una trasformazione, e la vicenda di MALPERTUIS è stata la spinta giusta.

Quindi, benvenuti in questo rinnovato luogo che comunque parlerà delle stesse cose in modo, umile speranza, sempre migliore.
Le tre immagini che ravvivano lo sfondo nero sono tratte da tre film bellissimi, anche se confesso che uno lo devo ancora vedere per intero ma so che sarà così.

Buona lettura e che il cinema sia con voi.

P.S. d’obbligo, se qualcuno non si ritrova nel blogroll me lo dica, dopo aver eliminato tutto sono andato a memoria ed è possibile che mi siano sfuggiti dei contatti.

martedì 27 settembre 2011

Le pornographe

Dopo 16 anni il regista di film porno Jacques Laurent torna a girare, ma le cose sono irrimediabilmente cambiate…

La provocazione è pane per i denti di Bertrand Bonello. Lo dimostrerà ampiamente nel successivo Tiresia (2003), ma anche qui dà prova di non volersi adagiare su modelli ordinari. La base di partenza che viene suggerita dal protagonista Jacques, un tormentato Jean- Pierre Léaud, è che oscenità non fa necessariamente rima con bassezza. Un esempio di questa affermazione ce lo dà un altro autore non troppo lontano, almeno concettualmente, dal cinema francese: Tsai Ming-liang, che nel finale de Il gusto dell’anguria (2004) dimostra che anche attraverso un pompino si può parlare di amore in maniera decisamente più efficace di qualunque smielata pellicola allo zucchero. Bonello fa un po’ la stessa cosa: prende una situazione scabrosa come può essere il set di un film porno mostrandone i particolari davanti alla mdp (rapporti sessuali completi), e dietro (il difficile backstage), ma non si ferma qui, poiché affonda il colpo sull’uomo-Jacques, colui che prima di essere un artista, un pornografo, un marito e un padre, è una persona che si trova a combattere contro l’inclemenza del tempo che passa.

Le pornographe (2001) è quindi un film sul cambiamento. Jacques dice che nel lungo periodo di inattività ha riflettuto molto, ma mentre lui pensava il mondo cambiava pelle. Prima i giovani lottavano contro il “sistema”, il suo primo film è del ’68, adesso lottano per farne parte, vedi il figlio che invoca lavoro insieme agli amici cospiratori silenziosi. Tra il prima e il dopo c’è un'ellissi temporale che trasforma anche il mondo della pornografia: nel passato i meccanismi di produzione erano molto più flessibili (il protagonista afferma che chiunque poteva fare o partecipare ad una pellicola hard), mentre al giorno d’oggi il Golem-business ha inaridito tutto.
In questo divenire l’uomo nel mezzo del cammino Jacques si trova disorientato, e l’unica bussola che possiede, quella dell’arte, non interessa né al suo entourage (lui dice alla sua attrice di non esibire troppo il godimento durante la scena di sesso, tutto il contrario dell’assistente che la esorta ad urlare), né al pubblico che in un porno vuole vederci in modo chiaro e lampante quello che non si vede dalle altre parti, niente visioni artistiche, niente che vada oltre, ma solo genitali che si incastrano reciprocamente.

È qui che il terreno teorico diventa fertile. Il parallelo tra il cinema “vero” e quello pornografico diviene ficcante data l’intercambiabilità fenomenologica, laddove l’epoca che fa da contenitore al mezzo arte fagocita ogni cosa, e ogni cosa diventa vecchia in un attimo (il discorso sui computer). Uno Jacques qualunque che vecchio lo sta divenendo sul serio e che non trova congruenza tra le sue velleità autoriali e le esigenze del mercato che vogliono tutto e subito, è costretto ad una tragica ritirata in una selva prossima all’oscurità con l’utopica idea di costruire una casa da solo e un’intervista come testamento da lasciare a noi uomini sordi del nuovo millennio.

lunedì 26 settembre 2011

Lavori in corso

Oltre il fondo cambierà pelle.
Decisione repentina di cui pago già le conseguenze, infatti provando qualche template che solleticava il mio gusto ho fatto il primo casino: il widget dei blog amici è sparito.
Poco male, recupererò il prima possibile.
Per completare il tutto ci vorrà qualche giorno nel quale comunque farò i soliti aggiornamenti. Poi, magari, spiegherò anche i motivi del cambiamento.
Saluti.

domenica 25 settembre 2011

Silent Light

Il terzo film di Reygadas si apre con un prologo sontuoso, un’alba che soverchia la notte e inizia ad illuminare una storia ambientata nello stato di Chihuahua, Messico settentrionale, dove in una comunità di mennoniti, frangia anabattista che rifiuta il progresso, un padre di famiglia di nome Johan si innamora di un’altra donna.

Se non si è letta nessuna informazione pre-visione, Stellet licht (2007) può sembrare tutto fuorché un film di matrice latina. A parte la tecnica di Carlos Reygadas che già abbiamo potuto conoscere (Japón!, 2002) e che si abbevera alla fonte dei grandi registi europei – qui si parla di omaggio al Dreyer di Ordet (1955) –, l’ambientazione (una campagna lussureggiante) e la recitazione (nella lingua originale chiamata Plautdietsch, costola del tedesco con influenze fiamminghe) sembrano trasportare in una dimensione vicina più al vecchio continente che all’America Centrale. Ma queste sono puntualizzazioni che si possono conoscere soltanto attraverso una ricerca ex post sul film poiché esso niente dice della realtà che va a raccontare e di conseguenza è forte il disorientamento iniziale.

Sulla magnificenza dell’incipit si è detto poco sopra, e ciò non sorprende più di tanto vista l’ormai rinomata potenza estetica di questo autore messicano. Anche il prosieguo dell’opera non disattende le aspettative, in poche parole: Reygadas si profila come uno degli sguardi più interessati al mezzo cinema di tutto il panorama internazionale e lo dimostra non solo con sequenze di rarissima bellezza (il bagno nel laghetto dei bambini o la veglia funebre) ma anche con singoli plans che esaltano l’occhio (i primi piani o i paesaggi), da ciò si desume che il suo linguaggio cinematografico si costituisce in una sintassi di pregevole qualità tanto che la confezione, come è accaduto per Battaglia nel cielo, supera il contenuto, ma a differenza della pellicola del 2005 non di troppo.

Se analizziamo la trama si scopre, con un po’ di sorpresa, la sua risibilità se rapportata ai 145 minuti di proiezione. Di fatto abbiamo un uomo di mezz’età che ha una relazione con la cameriera di un ristorante, il resto, compresa l’amante, è contorno: la numerosa prole diventa massa indistinta, il padre e l’amico di Johan sono solo accessori, la moglie, consapevole del tradimento, figurina passiva, e lo stesso protagonista appare in alcuni frangenti vittima di uno slittamento ruolistico in subordinazione alla maestosità della natura.
Certo è che ci sono moti interni da non sottovalutare, d’altronde Johan è, come molti, un uomo di fede, e, come tutti, un uomo in cerca di risposte che tenta di trovare nella propria religiosità.
Ed è qui il punto centrale che dà significazione al titolo. Il silenzio divino non solo lesina risposte, ma addirittura punisce togliendo la vita e trasformando il pingpong di piani durante il canto funereo in una crescita di sensi di colpa, uno per ogni figlio inquadrato.

Forse si alza troppo il tiro con l’incredibile finale in cui la luce viene occlusa (foto sotto) dalla mano della donna amata, una specie di decatechizzazione che assurge l’uomo a vero dio capace di ridonare quella vita attraverso il pentimento. Scena memorabile per l’immobile ripresa del viso statuario che d’improvviso riacquista volontà, ma allo stesso tempo coperta destabilizzante (e occultante) di un senso non facilmente rinvenibile forse perché non misurabile nemmeno da un geometra dell’immagine come Reygadas.

Ciò che conta, comunque, è che questo regista continui a fare un cinema così. Artistico e spiazzante.

venerdì 23 settembre 2011

giovedì 22 settembre 2011

Mysterious Object at Noon

Tecnicamente Dokfa nai meuman (2000) è il primo film lungo di Weerasethakul che arriva dopo 7 anni di cortometraggi. La sensazione, però, è che questo film altro non sia che un’espansione, per non dire dilatazione, delle opere precedenti. Ciò non preclude il fatto che comunque Mysterious Object at Noon contenga in nuce tratti rinvenibili anche in quelle successive.

Dobbiamo destreggiarci in un territorio pieno zeppo di ostacoli come lo sono i documentari fittizi. L’area di movimento concettuale si presenta unica (una storia reale) e duplice (anche una storia finta) allo stesso tempo, vieppiù che Apichatpong, sebbene ancora a digiuno di cinema da sala, declina la sua arte nella solita maniera destabilizzante.
L’architrave è un principio narrativo chiamato “gioco del cadavere squisito” dove un racconto nasce e vive in un passaggio di bocca in bocca, di persona in persona, senza che vi sia continuità di conoscenza tra i vari storytellers.
Immediatamente il pensiero va alla struttura bipartita (e sfuggente) di Syndromes and a Century (2006) che nel suo rivelarsi allo spettatore esibisce un taglio deciso del narrato dividendolo in due corpi eterozigoti legati però da un laccio spazio-temporale unificante. Chiaro che MOaN potenzia questa (sud)divisione del racconto sbriciolandolo in un mix non privo di fascino ma anche – al solito – di disorientamento. Ad ogni modo se si vuole vedere in questo film tracce del futuro Weerasethakul direi che non bisogna allontanarsi dalla complementarietà dicotomica tra fabula e sjuzhet perché, un po’ come accade in Twentynine Palms (2003) di Dumont, pur annullando i canonici vincoli della narrazione, alla fine nel cinema si finisce sempre per raccontare qualcosa.

Come scritto poc’anzi, abbiamo a che fare con una storia che a livello macro è suddivisa in due strati: il primo è quello documentaristico con l’obiettivo del regista che sollecita al racconto, e il secondo è la fiction con il materializzarsi del suddetto racconto sullo schermo. Così facendo la storia tout-court troverebbe carburante pressoché illimitato per continuare ad essere tale, eppure Weerasethakul dalla vicenda fantastica del ragazzo storpio sposta sempre di più l’attenzione sui singoli cantastorie, tanto che il finale ideato dalla mente di un bambino (geniale!) ha una deriva fantascientifica che non viene riprodotta. Resta una carrellata di esseri umani nella Thailandia meno conosciuta, l’affondo sociale è più che altro uno sguardo, comunque significativo, vedi la donna che all’inizio dice di essere stata venduta dal proprio padre in tenera età.
Nel complesso abbiamo un movimento tipicamente weerasethakuliano dal principio enigmatico e contrastante, alla fine ho visto un film che mi è piaciuto e che in fin dei conti non mi è piaciuto.

Segnalo la recensione di Dario Stefanoni (link) bussola indispensabile per le poche righe da me scritte.

mercoledì 21 settembre 2011

Il passaggio della linea

Come per La bocca del lupo (2009), anche Il passaggio della linea (2007) è un film di transizioni, di stati incerti. Ma se nel film che trionferà al Torino Film Festival il viaggio è un movimento concettuale se non spazio-temporale, in questo documentario lo spostamento avviene concretamente attraverso un itinerario che fende la penisola italiana da Bolzano a Reggio Calabria, di notte.
Dal vociare babelico che mischia i dialetti, un treno parte con la lentezza dei dinosauri e comincia un lungo viaggio concentrato in 57 minuti in cui emergono già con prepotenza gli interessamenti di Pietro Marcello (giustificati, per il sottoscritto) verso quelle persone così fatiscenti da sembrare ruderi abbandonati, poiché è nel fascino delle case diroccate che si trovano impolverate nostalgie.

Perché al di là dell’Italia che scorre rapida oltre i finestrini sporchi, ce n’è un’altra all’interno dei vagoni fatta di tanti piccoli Vincenzo Motta con una storia da sputare di fronte all’obiettivo. Sono i viaggiatori, o meglio i passeggeri. Viaggiando si espongono al rito del continuo passaggio interiore che a lungo andare li ha depersonalizzati rendendoli anime sperdute sui binari della vita.
Le ferrovie notturne immortalate da Marcello sono quanto di più profondo e malinconico possiate trovare (non so voi, ma io non ho mai visto le stazioni particolarmente allegre). Va detto che con il sorgere del sole l’incantesimo rattristante si attenua perdendo un po’ di magia, l’alba contemplativa prende il posto per una buona porzione di film della delirante saggezza di Arturo, e ciò allenta leggermente la presa su chi guarda, ma il mio pensiero spero che riesca a scorrere sugli snodi tentacolari per raggiungere questo vagabondo nello scompartimento in cui sta riposando e auguragli una notte serena.

lunedì 19 settembre 2011

Autumn Ball

Il regista estone Veiko Õunpuu classe ’72 esordisce nel lungometraggio con questo film proposto all’interno della sempre stuzzicante sezione Orizzonti a Venezia 2007.
Per quanto possa sembrare strano, soprattutto alla luce del successivo The Temptation of St. Tony (2009), scheggia impazzita nel cinema d’essai contemporaneo, Sügisball (2007) è un film che ci parla d’amore, ovviamente a modo suo e ovviamente in maniera diversa da come farebbe una pellicola romantica (qui un regista di rom-com viene picchiato a sangue!), costruendo traiettorie intrinseche fra più personaggi intrappolati dai loro tormenti sentimentali e, allargando la visuale, dal cemento di una grande e triste città est-europea.

La struttura è quella di un film corale, e i punti di riferimento che possono venir citati sono molti: da Altman per gli intrecci relazionali a Iñárritu per l’interdipendenza, anche se qui non troppo accentuata, tra le varie misere storie raccontate. Ma il taglio visivo di Autumn Ball ci conduce lontano da questi autori mainstream per appaiarsi alle rasoiate austriache di Seidl e Spielmann, con Antares (2004) che diventa quasi un’opera gemella. La fauna abitante questo sbiadito quartiere ha gli stessi problemi dei “colleghi” a Vienna e dintorni: c’è uno scrittore disperato perché la sua ragazza lo vuole lasciare, una mamma che subisce le avances di un tecnico della tv e che piange davanti ad essa guardando Uccelli di rovo, un vecchietto che spia (e non solo) i bimbi giocare al parco giochi, un usciere latin lover che annota sull’agenda tutte le sue conquiste ma non sembra essere felice, e poi tante altre vicende di ordinaria amarezza che evidenziano per l’ennesima volta il vicolo cieco in cui sono sprofondate le persone di quest’area geografica.

L’oro che non luccica, però, è costituito dal fatto che se come il sottoscritto avete visto abbastanza film appartenenti al genere sopraccitato, allora il lavoro di Õunpuu, sicuramente apprezzabile sotto più angolazioni, pecca in una derivazione dei temi trattati e in qualche frangente anche nei modi; in soldoni non aggiunge praticamente nulla a ciò che è stato già detto a riguardo da registi filosovietici e non. Va anche detto che il registro drammatico è contaminato dalle continue incursioni nel grottesco che rendono la pellicola se non unica sicuramente atipica ed eccentrica.
Per essere sintetici: chi è a digiuno di coralità in ambito cinematografico lo troverà molto ma molto interessante, chi di film corali ne ha visti a quintali ma mai ambientati nel vecchio continente sarà una sorpresa, per chi infine è dedito alla religione seidliana da anni sarà soltanto un ripassino, che comunque male non fa.

domenica 18 settembre 2011

Ascolti notturni




1

e 2.

giovedì 15 settembre 2011

Noriko's Dinner Table

Ed eccoci al secondo tassello del mosaico ideato da Sion Sono denominato trilogia del suicidio, anche se il suddetto argomento non rappresenta, al pari delle altre due opere, il nocciolo fondamentale della questione ma piuttosto la conseguenza di processi umanamente deleteri.
Se in Suicide Club (2001) veniva raccontata fra le (molte) altre cose l’alienazione derivante dall’uso delle nuove tecnologie, in Noriko’s Dinner Table (2005) veniamo a conoscenza di un fatto pensabile ma ugualmente accattivante: che le famiglie giapponesi non sono per niente felici.

Questo secondo capitolo rappresenta l’azzardo più pronunciato da parte di Sono vista la durata complessiva (più di 2 ore e mezza) e la scelta registica di non affondare il coltello nell’estetica esplosiva che ad esempio caratterizzerà il successivo Strange Circus (2005), opera, quest’ultima, decisamente slegata alle altre due e che ritengo di gran lunga la migliore del lotto.
Tornando ai patemi di Noriko, diciamo che stupisce la compostezza che il regista dà alla pellicola per buona parte della sua lunghezza. Già la suddivisione aritmetica in 5 capitoli definisce nettamente la struttura narrativa, in più la narrazione vera e propria avviene costantemente attraverso la voce extradiegetica dei vari protagonisti che saranno anche diversi e diversificati ma che alla fine della fiera danno vita ad un’interrotta cascata di parole che per 160 minuti confluisce nelle vostre orecchie con l’aggravante del fatto che non esistendo una versione doppiata dovrete sfoggiare tutte le vostre diottrie nella lettura dei sottotitoli. In sostanza la combo durata + racconto in prima persona non agevola la disponibilità dei contenuti.

E i contenuti ad ogni modo ci sono, come d’altronde anche nelle altre due parti del trittico. Tuttavia la questione del family rental (famiglia in affitto), geniale allegoria della modernità, è troppo diluita all’interno delle divagazioni ad personam fornite da Sono. Se l’opera si fosse concentrata maggiormente sul tema principale – d’altronde nelle fittizie reunion tutto funziona alla grande – ne avrebbe giovato complessivamente visto che le varie digressioni tendono a distrarre lo spettatore.
Manca quell’appeal estetico capace di far stropicciare gli occhi, e tenuto conto del messaggio di fondo non ci sono visioni in grado di tradurlo e potenziarlo ma solo “cose” da vedere.

martedì 13 settembre 2011

Pingpong

Nell’estate in cui suo padre ha deciso di suicidarsi, il giovane Paul piomba in casa dello zio benestante. Qui trova il cugino Robert votato all’alcolismo e l’ambigua zia Anna dalla quale è attratto.

Esempio solare di come le idee semplici diano spesso ottimi risultati. Con Pingpong (2006) il regista Matthias Luthardt, olandese d’origine ma formatosi cinematograficamente in Germania, incide su pellicola un dramma teutonico praticamente perfetto. Utilizzando il minimo indispensabile (tre attori e un cane, una villa con piscina e un tavolo da pingpong) scandaglia i bassifondi dell’eticità all’interno di una cornice insospettabile come può essere la famiglia di un rispettato dottore. Il meccanismo concettuale ed anche quello tecnico viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda di un certo cinema austriaco che dagli anni ’90 in poi si è imposto al pubblico; il procedimento si avvicina di più ad un svelare la storia piuttosto che a proporla in maniera esibitoria, la sensazione è che nelle suddette opere la mdp sia un mezzo invisibile che riprende situazioni potenzialmente credibili anche senza il “filtro cinema” e ciò le rende ancora più accattivanti e coerenti alla realtà.

Non è perciò un caso se in questa intervista Luthardt cita tra le fonti di ispirazione il film Animal Love (1996) oltre che Haneke e von Trier, ma è proprio la filmografia dell’austriaco Seidl ad avere grandi affinità con Pingpong. Il rapporto morboso della donna con il proprio cane è solo l’appendice di un quadro negativo molto più ampio che comincia, per così dire, fuori campo, ovvero con il suicidio del padre di Paul che noi non vedremo mai. L’esplorazione della vita agiata illumina zone di profondissima ombra che segnano inquietanti contrasti: il lusso dell’abitazione è in antitesi con l’inumanità di chi la sfoggia, la ricchezza culturale (le lezioni di musica) è una pietra tombale che una volta scoperchiata rivela putrescenze esistenziali come le inclinazioni alcoliche di Robert o i comportamenti sessuali e non della zia. A questi macro segnali il regista ne affianca altri tutti da leggere fra le righe, abbiamo un laghetto contaminato in cui galleggiano panciuti pesci morti, un sinistro ronzio durante il brindisi iniziale e l’imperturbabile figlio che mastica quel ghiaccio del quale sembra essere forgiato. Tutti elementi ammorbanti che si scagliano contro il candore e la limpidezza di una partita a tennis da tavolo con la sua musicalità (il tic-toc trova la completezza per le orecchie di Robert) e il piacere integro della ludicità, aspetti insufficienti, comunque, a tamponare il naufragio morale di queste persone come testimonia il miglior campo lungo dell’opera.

La complicità con lo spettatore che si snoda in un percorso fatto di sottile ironia e ancor più sottile (ma insinuante) oscurità è tale da rendere il film di Luthardt un prezioso monile da appendere a imperitura memoria al collo raggrinzito di questa vecchia Europa, e forse del mondo intero.
Cinema outsider che colpisce duro, durissimo.

sabato 10 settembre 2011

Room in Rome

Nella notte più corta dell’anno due donne si incontrano a Roma. Una è russa, l’altra spagnola.
Senza sapere nulla di loro passano la nottata insieme in una camera d’albergo mentre Cupido volteggia su di loro.

Impressioni contrastanti durante la visione di Habitación en Roma (2010).
Conoscendo ormai piuttosto bene il linguaggio di Julio Medem, le sensazioni positive relative ad un’impostazione che finalmente sfugge al suo manierato modello all’inizio ci sono tutte. Riacciuffando l’esaltazione della femminilità, con relativa emancipazione, di Chaotic Ana (2007), il regista basco cuce una prosecuzione dell’argomento completamente racchiusa all’interno di una stanza, o, ad essere onesti, all’interno di un letto. Per una volta, dunque, i fantasiosi ma anche ripetitivi voli pindarici dell’autore sono ben lontani da qui, il massimo sforzo inventivo viene convogliato all’interno di un programma simile a Google Earth. Ciò con cui abbiamo a che fare allora sono due corpi nudi e bellissimi, rispettivamente quelli di Elena Anaya e Natasha Yarovenko, ma se ricordate Medem si è sempre trattato molto bene in fatto di attrici (il raggio di sole Paz Vega in Lucía y el sexo, 2001), i quali lentamente si amalgamano carnalmente attraverso la rappresentazione più difficile da rappresentare: l’innamoramento, per di più nello spazio di una notte, quella breve e irrepetibile del solstizio d’estate. Conscio di tale difficoltà, Medem riproduce in piccola scala le varie tappe di un rapporto segnato da andamenti curvilinei: l’incontro, la passione bruciante, il passato, il cuore spezzato (miglior scena), la rottura e la separazione. Al di là della libido maschile nel vedere questi due capolavori della natura intrecciarsi fra le lenzuola, si coglie un quid che va oltre la recitazione riuscendo ad esprimere una certa veridicità del sentimento.

Ma è proprio quando tutto sembra filar liscio che le intromissioni stilistiche medemiane iniziano a sgomitare nel quadro diegetico facendo emergere l’ossessione principe, quella del doppio, assoluto leitmotiv della carriera, che qui si sostanzia nella duplice figura Dasha/Natasha, la classica donna che ne contiene un’altra. Il gioco di matrioske, sebbene meno accentratore rispetto al passato, fa scivolare la pellicola nell’usurato schema di Medem dove l’amore di a, in questo caso diciamo Alba, palpita fra estremi tumultuosi e sofferenti nei confronti di b che allo stesso tempo è anche d.
Idea carina se proposta una o due volte, ma ritrovarla in ogni film no.
L’aggravio negativo si profila poi con un paio di scelte, prima fra tutte l’inserimento dell’unico personaggio maschile interpretato dal nostro Enrico Lo Verso che oltre ad essere superfluo è dozzinalmente stereotipizzato. Inoltre a causa di un minutaggio bello robusto alcuni passaggi dialogici sono tirati per i capelli, soprattutto quelli in prossimità dei cambi di scena nei quali si sente una rigidità fra le due attrici.
E comunque la sensazione generale che Medem si trascina dietro dai tempi di Vacas (1992) pur con qualche eccezione (Gli amanti del Circolo Polare, 1998) è quella di un talento che c’è ma che nella continua ostentazione non assurge rimanendo parecchio latente.
Room in Rome è perciò lo specchio fedele di tutto ciò, tuttavia al suo interno ci sono scampoli di intensa sensualità su celluloide, se può bastare allora potrebbe anche piacervi.

giovedì 8 settembre 2011

Olivier, Olivier

Campagna francese. L’infanzia felice di Nadine e il suo fratellino Olivier. La madre è amorevole, il padre un po’ scocciato dal carattere debole del figlioletto. Un brutto giorno Olivier sale sulla sua bicicletta e svanisce nel nulla.

Dalle sabbie del tempo, ma nemmeno troppo, in fondo parliamo del 1992, fa capolino questo piccolo film diretto dalla polacca Agnieszka Holland, autrice non molto conosciuta sebbene parecchie opere da lei dirette siano state distribuite anche in Italia e nonostante la recitazione alle sue dipendenze di attori come DiCaprio, Ed Harris e Jennifer Jason Leigh.
Una storia come quella di Olivier, Olivier può essere facilmente distinta in momenti, e nello specifico ne troviamo 3. Il primo mostra con chiarezza espositiva le dinamiche e le personalità famigliari (madre benevola, padre nervoso e fratellini complici) rimanendo lineare e lontano dal clamore. Il secondo propone il momento di stacco, di salto: Olivier scompare come un fantasma, ed ecco che i meccanismi del focolare iniziano a incepparsi, la sedia vuota durante la cena è l’immagine dolente di una famiglia a pezzi.
Fino a qui parliamo solo di premesse poiché lo svolgimento vero e proprio arriva con il terzo momento nel quale rientra in scena il bimbo diventato ragazzino che forse non è nemmeno più lui.

È evidente che alla Holland non interessa far venire a galla quegli anni di buio visivo che segnano l’adolescenza del protagonista, in sostanza che cosa abbia fatto e che cosa sia diventato Olivier passa in secondo piano rispetto al macro-argomento già ben ben distillato nelle prime due frazioni, ossia una disamina sui quanto mai precari vincoli consanguinei destabilizzati da un tragico evento.
In questa terza frazione la regista effettua uno sfondamento concettuale necessario a dare nerbo e specificazione ad una storia che altrimenti sarebbe simile a molte altre per colpa, anche, di situazioni purtroppo rintracciabili nella nostra quotidianità. Allora tale distinzione si attua all’interno di un doppio processo intrecciato: quello dell’ambiguità e della morbosità. Sullo sfondo di una famiglia che come detto perde progressivamente il suo equilibrio, viene gettato abbastanza efficacemente il seme del dubbio in relazione alla figura del “nuovo” Olivier suggerendo che potrebbe non essere lui quello che una volta era quel bambino col cappellino rosso, e a ciò si lega la profanazione del tabù dell’incesto che rafforza una sottile sensazione di disorientamento.

Sottile perché l’attrazione/repulsione tra i due fratelli non viene particolarmente esibita, e perché la pellicola nell’ultima mezz’ora vira in altri territori che si distaccano dalla materialità finora narrata. Un avvertimento, un po’ bislacco a dir la verità, ci viene suggerito con i poteri paranormali di Nadine, ma è quando viene manifestata la perpetuazione della violenza attraverso il tempo che l’opera trascende trovando nel titolo una possibile chiave interpretativa: ci sono due Olivier, uno non è mai uscito dalla cantina del pedofilo, l’altro è vissuto nel cuore di chi gli voleva bene.

Recuperabile, per la serie “non è un capolavoro ma…”, e poi tutti gli attori sono molto convincenti (la fragile tempra della madre sopra tutto) e rendono palpabili le emozioni riversate sullo schermo.

mercoledì 7 settembre 2011

Gandahar

Gandahar è un paradiso azzurro dove tutti vivono in pace. Ma d’improvviso la tranquillità del pianeta viene messa in pericolo da misteriosi automi in grado di pietrificare gli abitanti del luogo.
Il soldato Sylvain viene incaricato di far luce sulla vicenda.

E così, dopo Roland Topor e Moebius, René Laloux affida le matite ad un altro disegnatore francese: Philippe Cazaumayou (Caza). Inoltre, come per le due opere precedenti, l’impianto narrativo si appoggia alla letteratura, e nello specifico a quella di Jean-Pierre Andrevon con il suo romanzo Les Hommes-machines contre Gandahar (1969).
Il corollario tipico che ha segnato la visione lalouxiana c’è tutto, nelle ambientazioni - potremmo dire esplosive dal punto di vista estetico con colori, trovate visive e ingegno fantastico -, nei personaggi - potremmo dire humanlike, ed un umano doc c’è sempre con un ruolo centrale -, nei sottotesti, potremmo dire impegnati, socialmente ma anche, perché no, metacinematograficamente.
E lo diciamo, sottoscrivendolo, perché Gandahar (1988) contiene tutte le caratteristiche sopra riportate.

L’autore di un commento su IMDb afferma che quando vide questo cartone animato era un bambino. Il fatto che un lungometraggio del genere venga proposto in una veste non troppo adulta non sta a significare che anche i contenuti seguano tale indirizzo. Se da una parte abbiamo la rappresentazioni base di alcuni “mondi”: il male offerto come una schiera uniforme di scuri robot in antitesi con la variopinta pluralità del pianeta (Io non esiste, come ne I maestri del tempo, 1982) e l’amore idealizzato eroicamente, dall’altra ci vengono suggerite situazioni che tracciano sinistri paralleli: una popolazione-freak deformata a causa di esperimenti scellerati che vive sottoterra, una cellula enorme, quasi un cervello-coscienza, che si vendica del destino subito.
E poi il tempo, misura dell’inizio e della fine, che può essere ripercorso e quindi rivissuto donando nuova luce.

È un film di Laloux, né più né meno. Perciò, è un grande film.

lunedì 5 settembre 2011

Finisterrae

L’Idea al potere.
Due fantasmi russi, iconografia classicista del fantastico – quindi due lenzuoli bianchi con i buchini neri all’altezza degli occhi –, sono stanchi della loro condizione e perciò, dopo aver contattato un oracolo, si mettono in cammino verso Santiago de Compostela con la speranza di poter ritornare umani.
Storia che colpisce forte ancor prima che il film cominci, basta qualche foto, due tre righe di sinossi e l’hype decolla perché si intuisce come l’opera di Sergio Caballero, tizio che col cinema non ha mai avuto a che fare essendo storico codirettore del Sonar, festival barcellonese di musica elettronica, abbia le carte in regola per diventare uno di quei cult sotterranei che a furia di passaparola diventano delle visioni obbligatorie.
E terminata la proiezione vale la pena domandarsi: cos’ è Finisterrae (2010)?
Vediamo di riordinare le idee.In primo luogo la presa coscienza di un’ingenuità voluta e ostentata.
I due fantasmi sono sì due candide coperte con tanto di occhietti scuri, ma non si fa nulla, davvero nulla, per evitare di mostrare quello che c’è sotto, ovvero semplici attori con braccia e gambe instivalate che spesso fanno capolino da sotto il lenzuolo. È chiara, perciò, la voglia di non prendersi sul serio, di creare un’empatia ludica con chi guarda che si estende anche al di là dei due eterei ma palpabilissimi protagonisti, difatti vedremo il loro cavallo a volte in criniera e ossa ed altre volte come pupazzo meccanico che ruota ossessivamente il collo, inoltre agli splendidi paesaggi naturalistici si alternano le riprese di dipinti che raffigurano i medesimi paesaggi.
Si gioca, si amplifica la condizione percettiva, e questo comporta inevitabile curiosità.
In secondo luogo un’analisi rapida sulla vera condizione degli spiriti.
Il fatto che l’obiettivo non fatichi a scovare “l’uomo” al di sotto della maschera è sintomatico: i due spettri sono tali per modo di dire poiché possiedono ancora molte di quelle caratteristiche che (ci) fanno appartenere alla razza umana. In sequenza: ad un certo punto uno chiede all’altro se è ancora in cura da uno psicologo, durante la traversata di un campo innevato sentono il freddo e la stanchezza, hanno paura di un esserino che li insegue nel loro pellegrinaggio, uno desidera pescare lungo il fiume mentre l’altro stringe amicizia con un alce.
Si evince un’autoironia di fondo che squaderna una piccola verità, questi due fantasmi non possono diventare umani (e infatti uno si tramuterà in rana) perché lo sono già.
In terzo luogo due parole sulla composizione figurativa.
Notevole, a tratti notevolissima, fotografata dal giovane ma già apprezzato Eduard Grau, la messa in scena ha duplice sostanza. Da una parte le fantastiche ambientazioni con almeno un tocco di gran classe (l’inquadratura rovesciata e poi “volevo vedere il cielo”), e dall’altra l’inventiva di Caballero che sfodera un surrealismo da non sottovalutare. L’elenco è ampio, cito soltanto la “foresta della parola” con gli alberi orecchiuti e il sogno erotico (sì, sono decisamente umani) con un divertente split screen che divide il momento onirico da quello reale.
Insomma, qui come avrete capito non si lesina niente per quanto riguarda l’estetica.In quarto e ultimo luogo anche la mente vuole la sua parte.
Se l’occhio si sazia in abbondanza, non si può dire altrettanto del cervello. Il viaggio che porta i fantasmi dalla città alla spiaggia è sì delizioso ma sembra vivere più attraverso compartimenti stagni che per una fluidità insita, con il finale, poi, che ha richiami alla storia troppo deboli e perciò insolubili.
Diciamo che non c’è una grossa trasmigrazione di informazioni nel quadro diegetico, l’andamento errante ha pochi agganci consequenziali tanto che gli anelli ottimi se presi singolarmente, non riescono ad unirsi per formare una catena. C’è anche da dire che Finisterrae evade l’universo cinema per approdare nella mera pubblicità visto che, come dimostra questa foto, i fantasmi sono stati i testimonial per il Sonar 2010.
Ma con questi discorsi c’è il rischio di infilarsi in un ginepraio e non pare il caso.

Quindi.
Se cercate un film originale, eccolo.
Se cercate un film originale e ben confezionato, eccolo.
Se cercate un film originale, ben confezionato e con potenzialità da cult, eccolo. Con qualche riserva.

venerdì 2 settembre 2011

Blissfully Yours

Può un film iniziare prima… dell’inizio? Apichatpong Weerasethakul sa come fare e senza se e senza ma ci invita ad entrare nel suo mondo imperscrutabile che questa volta ha le fattezze di uno studio medico (ritornerà in Syndromes and a Century, 2006), per la precisione lo stesso studio del proprio padre dottore.
Negando ogni principio di causa-effetto il regista thai sottrae al corpo-film ogni possibile orpello: la musica (quasi sempre) negata, le traiettorie visive minime, la sceneggiatura al grado zero della narrazione. Ma come spesso accade con questa tipologia di cinema altro, l’immobilismo, la staticità, il silenzio, e più in generale quella strana e potente sensazione di Arte, invece di portare in una zona arida fatta di compiacimento autoriale fa avvertire allo spettatore una forza tellurica che viene da dentro, o per meglio dire da sotto, da sotto la coltre estetizzante dell’opera, quella cortina che cela un sisma dato dal rapporto inestricabile tra immagine e senso al quale è necessario volgersi.

Quindi, è possibile che un film cominci prima dei titoli di testa? Blissfully Yours (2002) dimostra che è possibile, praticamente naturale, e lo fa con una nonchalance disarmante, un vero e proprio smarrimento nella fruizione: vediamo Min, giovane con una malattia alla pelle, e due donne: Orn che lo aiuta nelle faccende burocratiche, e Roong che lo ama. Chi sono? Perché sono lì? Cosa fanno?
Nel lungo preambolo viene fornito qualche suggerimento, indizi che non fanno, comunque, una prova: Min dovrebbe essere un immigrato, Roong la sua fidanzata e Orn una donna un po’ libertina gelosa della coppia. Supposizioni in questo flebile (ma tenace) intreccio di vite umane.
Eppure, nonostante l’interazione di questi tre personaggi tra loro e con l’anonimo e compless(ificat)o territorio urbano, la pellicola non è ancora iniziata. Ci vuole una lunga scena con la mdp piazzata sulla coda della macchina che palesa il totale allontanamento dalla civiltà per finalmente far apparire sullo schermo il titolo dell’opera. E perlomeno far propria una piccola certezza: Sud sanaeha è un film ambientato in una foresta.

In questa intervista Weerasethakul afferma che entrare in una foresta è come entrare nel grembo materno. È chiaro che questo main set selvatico ha un forte spirito primordiale, o forse uno spirito punto e basta. Il fatto è che se sulla scena non accade praticamente niente, solo coppie che amoreggiano in fondo, la morsa che il film ha stringe sempre di più attraverso un magnetismo invisibile, una sospensione (e)statica del quadro.
Si procede per sentire: il tragitto nel bosco in cui Min porta Roong sul luogo del pic-nic, attesa, e poi apertura accecante sullo strapiombo; l’incontro tra le due donne nel fiume, l’immagine che fluttua sul pelo dell’acqua e la tensione che cresce senza trovare catarsi; il finale che sfida letteralmente l’occhio con l’eterno primo piano della giovane che voltandosi verso di noi conduce il film alla sua micro-apoteosi.

Cosa abbiamo davvero sentito?

Blissfully Yours è un film che...

giovedì 1 settembre 2011

Strange Circus

Mitsuko è una bambina. (no, è una donna).

Mitsuko è una figlia. (no, è una mamma).

Mitsuko è realtà. (no, è fantasia).

All’interno di questi estremi palpita il terzo capitolo della trilogia sononiana dedicata al suicidio (ma Noriko’s Dinner Table è simultaneo a questo quindi la mia cronologia è piuttosto superflua).
Questa definizione – del suicidio –, però, mi pare parecchio, ma parecchio restrittiva. Già lo si poteva intuire con Suicide Club (2001) dove i copiosi harakiri effettuati da giovani studenti erano lo scheletro di un corpo riempito da ben altra carne (e relativo sangue) che si allontanava sempre più da una qualsiasi denuncia sociale per sfociare in un bizzarro quadretto quanto mai prossimo ad un delirio di miikiana memoria. Ecco, se questo accadeva nel film precedente, con Strange Circus (2005) ci allontaniamo totalmente da un qualunque “attacco” alla realtà (no, il rapporto tra Mitsuko e i genitori è troppo… troppo per essere vero!) e ad un accantonamento del tema che dovrebbe essere portante, il suicidio, qui appena lambito e tra l’altro nemmeno completamente riuscito nella sua essenza.

L’interrogativo allora è il seguente: che si può ritrovare all’interno di Kimyō na sākasu? Di trovare in senso stretto assolutamente niente poiché la pellicola è un concentrato disorientante di superlativa portata. Nei primi 40 minuti viene imbastita una storia allucinante fatta di perversione, voyeurismo incesti e sadismo. Ma messe così le cose rischiavano di rimanere fini a se stesse e concettualmente aride, tuttavia Sono acciuffa il meccanismo giusto – un meccanismo praticamente ineccepibile – che permette alla vicenda narrata di crearsi da sé le risorse per andare avanti.
Il punto di forza risiede nell’ambiguità che prevale sulle certezze poiché come ho riportato all’inizio noi spettatori non siamo sicuri praticamente di niente, anzi non sappiamo nemmeno se la protagonista sia frutto dell’immaginazione di una brava scrittrice o se invece questa povera bambina abbia davvero subito tali terrificanti angherie.
In aggiunta si segnala un progressivo occultamento dei ruoli che si sprigiona in un ribaltamento (doppio, triplo, quadruplo?!) conclusivo in cui si mischiano antichi rancori e odierne follie.

Ben lungi da voler rappresentare razionalmente le varie situazioni, il regista sciorina in sequenza un’estetica sfavillante nella quale spiccano tasselli di cinema (d’oriente) estremo, nuovamente delle visioni che fanno entrare di diritto Sion Sono nel parterre de roi di Oltre il fondo.
Che possiate credere o meno alle mie parole poco importa, meglio fidarsi allora del massacrante - per la nostra sensibilità - finale che richiama a gran voce l’indimenticabile conclusione di Audition (1999) ma con il pedale ben pigiato sull’acceleratore del gore.
Ad ogni modo, come accade con chi sa maneggiare argomenti scottanti, la gratuità di certe scene è relativa, dietro ci sono pensieri in grado di far rabbrividire, tanto che la chiave di lettura che dà senso al titolo risulta pienamente soddisfacente: se la vita è un circo, allora lo sarà anche la morte.