mercoledì 26 maggio 2021

Bad Bunny

È forse ingiusto, nei confronti del regista di turno, argomentare a proposito di un suo lavoro senza aver visto nemmeno un minuto di quelli precedenti, soprattutto se il regista in questione è Carlos Conceição, ennesimo virgulto della scuderia portoghese con alle spalle una decina di corti ed una specializzazione in materia sonora alla corte di João Pedro Rodrigues, ma, inevitabilmente, per forza di cose bisogna pur iniziare da qualche parte e così, prendendo Coelho Mau (2017) per ciò che risulta essere al sottoscritto, ovvero un cortometraggio presentato a Cannes ’17 diretto da un tizio nato nel ’79 in Angola, mi sento di dire che ci troviamo al cospetto di un prodotto ben poco rilevante, un oggettino ordinario che, al pari di molti altri, affolla le competizioni di categoria nei vari festival del mondo.

Non si può parlare di forma perché a questi livelli nove su dieci il tasso di professionalità raggiunto è difficilmente attaccabile, citiamo allora la possibile ispirazione che sembra provenire da quella vena aurea francese che ha fatto le fortune del primo Xavier Dolan, in più Conceição segue la tendenza di alcuni colleghi lusitani (vedi Miguel Gomes) nell’ammantare la vicenda con un velo che non si potrebbe definire favolistico sebbene in un certo qual modo lo sia. Detto ciò non c’è stato nulla in Bad Bunny che sia stato capace di destare realmente la mia sonnacchiosa attenzione, il legame sottilmente perverso tra i due fratelli è innocuo, la malattia di lei in rapporto ai sentimenti che lui prova dà fiato ad una conclusione risibile (il “coniglio” [che vorrebbe essere lupo] doma la gelosia pur di soddisfare i desideri della sorella? Mah...), non meno fragile dell’impostazione narrativa antecedente (la madre ed il macho stereotipato). In tutta onestà mi aspettavo di meglio.

mercoledì 19 maggio 2021

Jonaki

Verso il cinquantesimo minuto vediamo una donna impegnata a sbrogliare un lavoro a maglia. Idealmente, nel nostro ruolo di spettatori, dovremo compiere la medesima azione: dipanare gli intricati fili di un racconto personale che in barba allo spazio e al tempo saltella qua e là, si contorce, si distende, si volatilizza in immagini di suadente fascinazione. Avvertenza: questo percorso di sgrovigliamento non sarà una sciocchezzuola, Jonaki (2018) è un esemplare filmico che con ostinazione veleggia nel surreale senza dare sicuri appigli a chi guarda, diciamo, subito, che le modalità su cui bisogna concettualmente settarsi sono di tipo mnemonico e in subordine onirico. Questa chiave di lettura ci viene fornita in maniera esplicita soltanto nel finale (ma forse ci sono indizi disseminati anche prima...), il che riesce ad illuminare certe zone oscure che, penso, acquisirebbero definitiva chiarezza dopo un’ulteriore visione (io non l’ho fatta, ma confido in te o prode lettore), ad ogni modo l’ecosistema creato da Aditya Vikram Sengupta, regista nato a Calcutta al suo secondo lungometraggio, convince e seduce per via di un presupposto anti-didascalico che è quanto il sottoscritto invoca sempre al cospetto di un prodotto narrativo, seppur sui generis come Jonaki è. Un fattore destabilizzante (tra i tanti) è rinvenibile nell’impiego dell’attrice Lolita Chatterjee (deceduta lo stesso anno dell’uscita del film) sia nelle scene del presente che in quelle del passato (prendete comunque con le molle le due misure temporali), è una mossa che disorienta e che richiede attenzione per estrapolare la direzione dell’opera, una direzione che fora un nucleo sentimentale. Filtrate le varie indecifrabilità (cos’è quel bernoccolo con la miccia cresciuto sulla fronte del padre?), rimane una storia d’amore più forte di un matrimonio combinato e della morte stessa. In un film che sciorina in loop ambientazioni  astratte ce n’è una di ambientazione che se possibile tocca un tasso di astrazione superiore, cortocircuitale, è la sala cinematografica vuota che scandisce la vita amorosa di Jonaki in termini più diretti rispetto al grande rompicapo che fa da contenitore.

Strepitosa la composizione formale della pellicola curata da Sengupta e da un collega di nome Mahendra Shetty, è un cinema che sconfina nella pittura (mi ha ricordato qualcosina di Lech Majewski), che si porta appresso un carico di suggestioni simboliche non così immediate per noi occidentali, un susseguirsi di tavole in movimento ricolme di chiaroscuri, ombre, scintillii (una costante). Ampio merito va riconosciuto nella scelta delle location, un depliant di edifici decadenti dal vago sapore tarkovskijano, sia negli interni che negli esterni la sensazione predominante è quella di un trascorso, di un andato, di un ieri quasi ridotto in macerie. Un cimitero di ricordi. Tutto ciò contribuisce a delineare una dimensione diegetica che fa il suo, e lo fa come segue: lavora sulla percezione visionaria che fornisce, è capace di mostrare tantissimo pur, nei fatti, non mostrando niente che possa farci dire “ok, ho le coordinate per interpretare la faccenda”, si avvale di un afflato nostalgico che è doppio perché in prima battuta riprende episodi dell’infanzia, della giovinezza, ecc., e in seconda perché fa rivivere tali situazioni alla protagonista, però invecchiata e azzardo anche consapevole del proprio destino. Dinanzi un impianto estetico di elevata fattura io rispettosamente mi inchino ma nel mentre inoculo allo scritto in oggetto una riflessione che parte dalla suddetta messa in scena, ammirevole e sofisticata fino all’eiaculazione ottica, se non fosse che, dopotutto, continuo a desiderare una settima arte aderente alla realtà in grado di sterrare la radice delle cose senza grandi impostazioni finzionali. Ecco, Jonaki pur avendo una marea di pregi, non è sufficientemente asciutto da farmi gridare al miracolo, del resto, nonostante il principio di profonda sconnessione che lo governa, permane una scrittura a sorreggerlo, e quindi sceneggiatura, recitazione: artificio. Dieci anni fa me ne sarei innamorato seduta stante, adesso che sono alla ricerca di altro riesco a gestire la cotta cinefila.

धन्यवाद ड्रीस

martedì 11 maggio 2021

River of Grass

River of Grass (1994) è l’esordio di Kelly Reichardt, quindi: via subito di giochino tra differenze e similitudini col cinema che verrà, indubbio che vi siano cose che non vedremo più contrapposte ad altre che invece si svilupperanno a dovere. Tra le prime salta immediatamente all’occhio un’ambientazione lontana dall’Oregon (luogo di riprese prediletto) e perciò da tutte quelle sfumature che quei paesaggi sono capaci di trasmettere in favore di un’assolata area urbana nei pressi di Miami, sembra poco eppure di primo acchito si fatica davvero a riconoscere la visione della Reichardt in una zona cittadina, liminare e periferica come possono risultare i dintorni di Portland, ma fatta di cemento e asfalto. Inoltre nella costruzione narrativa la regista nata proprio in Florida, esattamente nei territori dell’opera in oggetto, si avvale di una sottile ironia che in seguito sarà completamente eliminata, garbatamente assistiamo a parentesi piuttosto leggere che riguardano la sotto-storia dello smarrimento di una pistola o la scenetta nel bagno del motel con la coppia (inverosimile [lui ha un qualcosa di Nick Cave], e quindi abbastanza divertente) alle prese con un insetto. C’è poco da dire, non ritroveremo mai situazioni simili nei successivi film della statunitense, al pari della massiccia presenza musicale.

Di contro assaporiamo ciò che sarà un motivo trainante del futuro: la fuga, il viaggio, lo spostamento, la transizione, è sempre stato nel movimento il nucleo concettuale dell’autrice (ad esclusione di due titoli recenti come Night Moves [2013] e Certain Women [2016] che non a caso erano parsi a chi scrive un po’ deboli) e in River of Grass ce ne viene dato un esempio in embrione, il fuggire del duo è rocambolesco e non tocca chissà quali vette esistenziali (pur provandoci stoicamente), però c’è, e sebbene limitato per vari motivi non è difficile scorgervi un parallelo che va oltre il lasciarsi dietro il presunto crimine commesso, è un’evasione dalla provincia, dall’ordinarietà quotidiana, dalla gabbia della routine e in questo sì che il film è decisamente reichardtiano, e lo è anche perché contempla un’introspezione intima della protagonista (prototipo dell’alter ego Michelle Williams) che con le sue riflessioni off colora la pellicola di tonalità che non sono solo quelle impresse dalla sceneggiatura, emerge lievemente un’estesa insoddisfazione, il senso che non si trova, la voglia di superare il confine (negativo: “girate la macchina e tornate da dove siete venuti”), la voglia di essere, chiunque: “meglio essere degli assassini che non essere niente”. Dettagli del genere oliano un debutto che come da prassi annovera aspetti da rivedere, rimane una buona base che una volta perfezionata diventerà la voce più importante di un mumblecore d’alto profilo.

mercoledì 5 maggio 2021

Perro Líquen

Prima delle distopie etiopi viste in Chigger Ale (2013) e Crumbs (2015) c’è Perro Líquen (2012) e, forse, sarebbe meglio non ci fosse stato perché il Miguel Llansó che qui ritroviamo insieme ad un certo Eric Uguet De Resayre è un regista alle prime armi costretto a lavorare con mezzi inappropriati rispetto alle idee preventivate, le quali, per carità, si possono anche scorgere in quanto Llansó è un tipo che fa dell’inventiva un punto di forza, ma le velleità non ripagano una realizzazione scadente e improvvisata. Il corto procede come una sorta di diario visivo costituito da blocchi che iniziano sempre con il risveglio del protagonista nel bosco, l’attenzione sembrerebbe indirizzarsi su delle attività da karateka condotte dal ragazzo tra gli alberi, il tasso di stranezza è alto e a tratti pare di ritrovarsi nuovamente nella bislacca tauromachia de El brau blau (2008), ma mancando ovviamente tutta la professionalità di Villamediana rimane solo un bozzetto ben poco decifrabile.

Qualche distorsione ottica dal vago sapore sperimentale (a conti fatti gli unici accenti dignitosi) è scavalcata da un andazzo che non fa particolari complimenti: più le cose sono bizzarre per Llansó e meglio è. Sicché vengono inseriti personaggi a dir poco imperscrutabili, umani e non, che interagiscono con Perro Líquen (l’attore che lo interpreta è Guillermo Llansó, presumo fratello del regista) mentre nel frattempo si prosegue a rimarcare la componente delle arti marziali. Che cosa avessero in testa i due giovani filmmaker è un bell’enigma, non credo nemmeno ci fosse la voglia di ritrarre una storia di estromissione dalla società (il beneplacito della mamma pasticciera lo poteva suggerire) perché al momento di tirare le somme, il finale, si deraglia di brutto nell’assurdo. Sarò ben lieto di essere smentito sulla pochezza di Perro Líquen, ma fino ad allora ritengo maggiormente sensato posizionare lo sguardo sui titoli citati all’inizio.