sabato 31 agosto 2013

Elle veut le chaos

La madre di Coralie sparisce dalla circolazione. I tre farabutti di fronte continuano la loro vita. Intanto arriva Pierrot, ex galeotto francese.

Il primo impatto con Elle veut le chaos (2008) non può che essere positivo soprattutto se rapportato al film che lo precede di appena un anno Nos vies privées, non che quest’ultima sia un’opera sciatta da denigrare attraverso il paragone (non è così, ci sono dei meriti e invito a chi ne ha voglia di riscontrarli sul campo), però è lapalissiano il cambio stilistico che Côté ha impresso nel giro di trecentosessantacinque giorni, e indubbiamente non è soltanto il bianco e nero a rimarcare il distacco, ma più d’ogni altro punto estetico la sofisticazione delle riprese non più in preda ai tremori del polso, al contrario: si avverte uno studio articolato nella maggior parte dei – se non in tutti – movimenti registici grazie ad una punteggiatura fatta di morbidezza, quasi sospensione aerea, che ritrae con spostamenti a mezzaluna i pigri personaggi che abitano la scena. Tecnicamente Côté, al terzo lungometraggio, impressiona favorevolmente anche per merito di dettagli impreziosenti (la sequenza dell’incubo è notevole, al pari di molti altri fotogrammi dalla forza icastica) che ci consentono ancora una volta di scoprire l’acqua calda: se il talento c’è, semplicemente, si vede.

Discorso opposto se ci posizioniamo sul piano narrativo (la sceneggiatura è scritta dallo stesso Côté) che non raggiunge la levatura delle immagini, anzi il dubbio è proprio che il canadese si sia interessato di più alla forma che al racconto; ciò non è un’azione additabile visto che ad un autore va concessa la libertà che desidera e, se lo merita, premiarlo per tale scelta, da una veduta più pragmatica resta il fatto che Elle veut le chaos non ha un racconto “che prende” e più si susseguono i minuti più la storia si dimostra inconcludente, tranciata qua e là, ripresa, impepata da legami sanguigni fino a quel momento sconosciuti, annerita da virate noir-provinciali, e proprio la questione tra virgolette thriller evidenzia uno stato fetale degli intenti che troveranno congruo compimento in Curling (2010) dove nuovamente la campagna sarà palcoscenico per delitti e bassezze varie ma con piglio d’altra fattura. La sterilità degli accadimenti, che si affidano al non detto intorbidendo le acque, con cui è arduo entrare in sintonia, non macchia la veste del film che, comprensibilmente, vinse a Locarno il Pardo d’Argento per la miglior regia.

giovedì 29 agosto 2013

The Girl

A causa di alcuni intoppi burocratici la piccola di casa non può seguire la sua famiglia in partenza per l’Africa. Ad accudirla giunge una zia parecchio scapestrata.

Un occhio al titolo: “flickan” in svedese significa “ragazza”, constatazione banale vista la fedele traduzione fatta col titolo inglese, ma, a meno che in Svezia tale lemma possegga un altro nocciolo semantico, qui di ragazze non ce ne sono, decisamente: la protagonista senza nome non ha neanche dieci anni, ha tratti fisici acerbi ed informi, e sogna degli altrove appiccicando ritagli e fotografie in un angolino tutto suo. Ergo: il debuttante Fredrik Edfeldt suggerisce le intenzioni attribuendo alla sua creatura non il nome di ciò che è ma di ciò che sarà. Sì, The Girl (2009) è cinema della crescita, branca inflazionata da luoghi comuni che rischiano sempre di scivolare nel ritrito, cosa che in questo film, soprattutto quando si concentra nell’illustrazione dei pari età, purtroppo accade: il contrapporre due ochette tutte attente agli abiti e al trucco alla più introversa protagonista è un’operazione lapalissiana che una volta messa in atto genera situazioni elementari come l’avvicinamento tra la ragazzina e il compagno di (dis)avventure. È questo meccanismo scoperto a non far elevare la pellicola da un mood giffoniano (senza offesa) dove anche le infiltrazioni drammatiche si disperdono in un tessuto a cui non interessa impattarsi con lo spettatore, si tiene leggero, svolazza in altre categorie tipo la commedia senza attecchire davvero alle esigenze pre-visione così riassumibili: per favore, non un altro ritratto dell’infanzia costituito da genitori assenti (in tutti i sensi) e coetanei perfidi.

In questo percorso guidato Edfeldt ritorna continuamente a sottolineare l’inefficienza del mondo adulto che non appare un modello a cui tendere. Tutti i “grandi” presenti nella storia non hanno comportamenti propriamente irreprensibili, a cominciare dai genitori che partono per una sorta di missione umanitaria lasciando però la loro in figlia nelle mani di una zia oltremodo incosciente, senza dimenticare il vicino di casa che non disdegna la bottiglia, o all’insegnate di nuoto che mostrando il suo fisico nudo e decadente infligge un promemoria estetico alla Nostra. Il tragitto formativo è costellato da siffatte punteggiature che creano un contrasto generazionale sì e no riuscito tale da rendere questo aspetto l’unico sufficientemente rifinito di tutta l’opera, peccato però che il regista accosti a tale discorso parentesi metaforiche indebolenti che rivelano una banalità di fondo immedicabile, l’insistenza sul salto come gesto di crescita personale fa parte del citato insieme figurativo, ma questa, come la rana che scappa dalla scatola e perfino quella stravagante della mongolfiera, sono tutte immagini che arrivano subito come subito arriva ciò che vorrebbero nascondere. Va bene affidarsi alle simbologie per impepare la messa in scena, a patto però che siano tali e che non si riducano a didascalie con velleità comprovanti, ed un po’ ciò che accade con il titolo stesso: Edfeldt mette sul piatto la fine del processo, siamo però sicuri che la certificazione avvenga con lo sguardo sfuggente della piccola di fronte allo specchio? Negli avvenimenti precedenti i dubbi si insinuano e lì si sedimentano.

Ambientato all’inizio degli anni ’80 in una splendida campagna svedese, spicca con tutta la naturalezza di una bambina la deliziosa interpretazione di Blanca Engström per la prima volta di fronte ad una cinepresa.

martedì 27 agosto 2013

Alvorada Vermelha

Primo frutto di una trasferta che regalerà successivamente un film di cui non si sentono altro che parole magnifiche (The Last Time I Saw Macao, 2012), Alvorada Vermelha (2011) è il secondo lavoro dopo China, China (2007) che vede collaborare João Pedro Rodrigues con il connazionale João Rui Guerra da Mata, un sodalizio che in realtà esisteva già dagli esordi di Rodrigues ma che negli ultimi anni si è intensificato al punto di spingere i due nella lontana Macao, ex colonia portoghese passata alla Cina nel 1999, dove Guerra da Mata trascorse l’infanzia. Due menti al servizio del luogo: quella di João Pedro, che non era mai stato a Macao nella sua vita e che conosceva soltanto attraverso il cinema (quello di Josef von Sternberg e del suo L’avventuriero di Macao [1952] con Jane Russell al quale il corto è dedicato), e quella di João Rui legata ai ricordi di quando era un bambino.

Ad un primo livello Alvorada Vermelha ci appare come la ripresa di uno spaccato giornaliero all’interno del mercato locale; introducendoci al sorgere del sole dentro il capannone, gli autori rispettano una sorta di temporalità che sottolinea il realismo ricercato: dentro si susseguono i preparativi in attesa dell’apertura, il montaggio e gli angoli di visuale utilizzati trasformano la routine in un’ipnosi destabilizzante, non succede niente di particolare dietro questi banconi, eppure perché è così difficile distogliere lo sguardo? Ad un secondo livello le attività dei commercianti colte nella loro reiterazione disturbano; il titolo allora acquisisce un altro significato: l’alba rossa gronda di sangue, quello di galline sgozzate di fronte a stie zeppe di proprie simili o quello di pesci squartati che con metà del proprio corpo scattano nervosi. Nessuna accusa da parte di João & João, nessuna apologia animalista (d’altronde è ciò che si ripete ogni giorno in ogni mercato del mondo), più semplicemente l’atto di esserci, di presenziare i rituali che si consumano come se niente fosse (stupefacente la rapidità con cui un tizio ripulisce un pesce), cinema-testimonianza che è senza giudicare, mosso da uno spirito curioso e contemplativo, in uno spazio dove tra l’indifferenza generale tutto oscilla tra la vita e la morte. Ma ad un terzo e ultimo livello si va oltre il realismo sopraccitato, ed è bellissimo, e bisogna ringraziare il cinema che ha la capacità di dare sfogo all’immaginazione, di rendere possibile l’impossibile, di instillare il surreale nel reale, è questo di cui ha bisogno la settima arte oggi, apertura all’irrazionale con i piedi piantati per terra, e il piacere incredibilmente rasserenante di poter scorgere una sirena in un mattatoio del genere.

sabato 24 agosto 2013

The Land of Hope

Dubito fortemente che, come si legge un po’ ovunque, Sion Sono abbia cambiato stile per questo Kibô no kuni (2012) e che da adesso in avanti dovremo scordarci la sua torrenziale intemperanza artistica. In realtà pescando nella sterminata, e in perenne espansione, filmografia che ormai si avvicina alle quaranta unità (in ventotto anni di carriera!), c’è stato un precedente di apparente docilità, mi riferisco a quel Be Sure to Share (2009) che poco aveva a che fare con l’universo-Sono fino a quel momento conosciuto, poi appena un anno dopo vi fu l’irruzione a Venezia con Cold Fish (2010), rovesciando completamente le impressioni di trecentosessantacinque giorni prima e donando una nuova, indimenticabile, affermazione della sua esorbitante poetica. Quindi, ritengo, anzi mi auspico, che il film dopo The Land of Hope, Why Don't You Play in Hell? (2013), presentato ancora al Lido, ricalcherà nuovamente le caratteristiche del Sono che più ci piace, e a giudicare dalle immagini in anteprima c’è da scommetterci.

Premesso ciò, valutando singolarmente The Land of Hope l’opinione è quella di trovarci al cospetto di un’opera pensata e girata con in mente un concetto ben preciso: quello dell’esportabilità, e probabilmente non è tanto un discorso economico ad aver fatto propendere Sono per questa strada, quanto (supposizione mia) la necessità di far conoscere ad un più vasto numero di spettatori la tragedia del terremoto e tutti gli infausti effetti da esso derivati (tsunami, allarme nucleare, ecc.).
Tale intento comporta però una via di trasmissione che si adagia su frequenze che hanno del televisivo, per non dire del soapoperistico; è vero che per l’ennesima volta Sono pone al centro del palcoscenico la Famiglia con tutti i relativi legami spezzati e risaldati, ma la mancanza di quel preciso ragionare per eccesso, di quella esacerbazione dei meccanismi consanguinei che giungeva a capilinea annichilenti come l’incesto o il parricidio senza che vi fosse il minimo puzzo di gratuità, sono elementi che pesano enormemente nell’economia della storia, perché quello che lo schermo ci restituisce è un racconto orizzontale, che si riduce minuto dopo minuto fino a diventare filmetto, in costante dialogo con la banale metafora di un Paese pronto a rialzarsi passo dopo passo (i padri rimangono, i figli vanno), sorprendentemente (in negativo) orientato nel tentativo di strappare qualche lacrima con procedure che proprio non riescono a conciliarsi né con il furore sononiano, né con la dignità melodrammatica che oggi il cinema dovrebbe possedere, e l’ultimo abbraccio padre-figlio è esattamente la “pietra dello scandalo” in merito alla questione.

Se ripensiamo a Himizu (2011) e all’esondante vitalità che lo permeava, la tematizzazione del sisma nipponico, anche se posta in itinere all’interno della pellicola e non affrontata direttamente, appare molto più convincente della corrispettiva trattazione di The Land of Hope dove sebbene faccia da sfondo principale alla vicenda resta intrappolata in una serie di paletti sminuenti che ne infiacchiscono le potenzialità: il dramma è romanzato, il sentimento è mellifluo, la poesia flebile, un possibile accento subito sedato (la psicosi della ragazza verso le radiazioni, il vero Sono avrebbe dato il meglio di sé con una donna incinta nel bel mezzo di una fuga radioattiva). Forse mosso da uno spirito nazionalistico il regista ha preferito accomodare l’autorialità per oltrepassare la nicchia, il risultato è però questo, e chi ha sete di un cinema intransigente, attento al cosa ma soprattutto al come, non potrà che archiviare celermente la visione.

giovedì 22 agosto 2013

The Act of Killing - L'atto di uccidere

Micidiale il meccanismo che sorregge The Act of Killing (2012): penetrare all’interno degli ingranaggi dell’attuale società indonesiana e della sua storia recente utilizzando come grimaldello silenzioso il cinema. Andiamo per gradi: Joshua Oppenheimer, americano di nascita stabilitosi in Indonesia dal 2004, inizia a lavorare presso Medan, grossa città non distante da Sumatra, in una comunità di sopravvissuti allo sterminio comunista del ’65, qui comincia a sentire storie tremende a proposito dei parenti (tutti uccisi) di queste persone, incuriosito cerca di approfondire l’argomento ma si scontra con una reticenza figlia di un terrore, di un vero e proprio terrorismo impunito, così gli vengono suggerite le seguenti parole: “lo sai, l’altra cosa che puoi fare è filmare gli assassini” (fonte). Gli assassini: uno stuolo di malavitosi ormai attempati legati al gruppo paramilitare Pancasila Youth che contribuirono alla salita al potere di Suharto attraverso una caccia spietata nei confronti degli oppositori politici (comunisti, o presunti tali) arrivando ad uccidere migliaia e migliaia di esseri umani. La proposta di Oppenheimer, aiutato dalla collaboratrice Christine Cynn e da un collettivo di tecnici locali accreditati come “anonimo”, è a prova di idiota: chiedere ai gangster, in occasione della ricorrenza delle loro malefatte, di reinterpretare in un film le loro gesta, assumendo alternativamente il ruolo dei carnefici e quello delle vittime.

La finestra che Oppenheimer apre si affaccia su un baratro profondissimo, una gola nera dove il presente ha eroicizzato i sicari. In preda a quello che appare come un delirio collettivo, Anwars Congo e soci vengono idolatrati pubblicamente e perfino invitati in televisione per discutere tronfiamente della realizzazione del progetto in cui sono coinvolti, e loro, immarcescibili e privi di rimorso (o quasi), si cullano sulle proprie imprese che ri-perpetrate e ri-viste nel salotto di casa diventano l’occasione giusta per mostrare ai nipotini quanto era bravo il nonno; il gesto brutale, mitizzato dalla telecamera (addirittura un “morto” ringrazia il killer di averlo ucciso!), diviene simulacro storico, l’esaltazione dell’orrore, della prevaricazione, della violenza, illumina il lato oscuro della Storia evenemenziale indonesiana, le riproduzioni da b-movie di pessimo rango non sono altro che inconsapevoli confessioni, boomerang che ritornano brutalmente al mittente. Il lavoro di Oppenheimer si carica di un duplice ruolo perché riesce a smontare il sistema criminale in modo pacifico grazie all’accondiscendenza dei diretti interessati, giocando d’astuzia e facendo leva sull’ego di chi non conosce il significato della parola umanità, e parallelamente scrive un magistrale trattato documentaristico che sonda in totale libertà gli antipodi del cinema, realtà e finzione, opponendoli e sovrapponendoli, attualizzando l’oscuro passato tramite un’azione di denuncia e di teoria.

E il cinema, in modo sorprendente, si erge come ultimo baluardo di un’etica per l’uomo poiché è grazie ad esso che i gangster, per la prima volta dai tempi delle efferatezze, si pongono dei quesiti di ordine morale, come se il rivedersi nei panni di spietati assassini smuovesse la loro coscienza dormiente, al punto che Congo, impossibilitato a proseguire la rappresentazione di un omicidio, si ritrova sul luogo dei delitti a rigurgitare una matassa che, a sua insaputa, si annidava dentro di lui da molto tempo.

martedì 20 agosto 2013

Miracle Fish

Cortometraggio australiano che ricalca tanto per stile quanto per contenuto il cinema americano poiché ruotante attorno ad una piaga feroce come quella dei massacri scolastici et similia, i quali ovviamente pur non essendo un’esclusiva statunitense hanno nella terra a stelle e strisce un’impennata statistica i cui casi giungono frequentemente nei nostri telegiornali.

Luke Doolan con Miracle Fish (2009) entra nella cerchia dei registi, un gruppo pullulante di nomi illustri (Van Sant, Ramsay, Villenueve), che hanno tentato di catturare quel momento di follia omicida vomitato su soggetti ignari nonché innocenti. In poco più che un quarto d’ora Doolan, nato a Sidney nel ’79, opta per un approccio soft che si orienta per mezzo di una scialbetta composizione dei ruoli: madre non irreprensibile (padre in ospedale!), compagni mini-gradassi, risultato: un Joe che se ne sta sulle sue, corrucciato (“stranamente” è il suo compleanno e come regalo ha ricevuto un pesciolino di plastica che prevede il futuro), forse così rassegnato da preferire l’esilio nella stanzetta del medico. La seconda parte ha più consistenza perché riprendendo i toni della prima illude sulla natura stessa del film: nel seguire Joe attraverso fluidi spostamenti della mdp Doolan insinua l’idea che la realtà possa essersi piegata alla volontà del bimbo (ma anche a volontà extra… terrestri) salvo poi annerire la vicenda con la chiamata al cellulare che pur prestando il fianco a critiche razionali funziona bene per introdurre un climax adeguatamente gestito con il giochino del pesce miracoloso capace di predire davvero il futuro. Peccato per il rallentone finale che aspira l’efferatezza della situazione per rivestirla con un “abito” molto, troppo, hollywoodiano.

domenica 18 agosto 2013

Vanishing Waves

Esperimenti lituani: un gruppo di scienziati tenta di entrare nella mente di una ragazza in coma. Lukas farà da cavia.

Con Aurora (2012, è il titolo originale) si può scivolare nello schema più comune di maggior parte delle recensioni, ovvero un all’incirca dettagliato elenco di ciò che non va all’interno del film, controbilanciato dal paragrafo successivo dove vengono prese le difese di Kristina Buozyte sottolineando i meriti che ad ogni modo ci sono. Ma, vista l’energia che scaturisce dall’ultimo quarto d’ora, il sottoscritto preferisce partire da lì: da una corsa a perdifiato ripresa di spalle nel cuore della notte dove un uomo nudo rincorre una donna ugualmente nuda, il tutto incrementato dalle distorsioni sonore di Peter Von Poehl efficaci e penetranti. Quanto accade dopo non è giusto che vada specificato in questa sede, resta il fatto che a mio modo di vedere con quella sequenza conclusiva l’opera, dopo un andamento ondivago e magari non convincente al 100%, si incunea finalmente nel nucleo tematico, e lo fa riuscendo ad essere A) originale (colpisce la doppia confessione biografica nel buio più denso con un carrello in avanti che col suo movimento dà corpo… ai corpi) e B) intimo, sincero, quando fino a quel momento il rapporto extra-dimensionale tra Lukas e Aurora appariva qua e là artificioso, costruito a puntino (da subito: la fidanzata va a letto e Lukas si mette a guardare un porno), inevitabilmente nebuloso visto il contesto in cui è stato strutturato. Quindi, basta un finale che impressiona e che convince appieno per mitigare le manchevolezze di ciò che c’è stato prima? Domanda retorica. Meglio addentrarci nella sostanza che precede la chiusura.

A scandagliare lo statuto ontologico di Vanishing Waves si può estrapolare la seguente dicitura: sci-fi romantico, fantascienza sentimentale, è all’interno di tali registri non propriamente contigui che il film vive, certo che in merito all’area fantascientifica la citazione tange la derivazione: scienziati con pochi scrupoli, marchingegni futuristici, realtà virtuali, per non dire poi dell’assunto che fa da sostrato (entrare nelle testa di un altro essere umano) già visto in forma pressoché identica nel The Cell (2000) di Tarsem (identica anche la conformazione del racconto che alterna la concretezza del mondo alla visionarietà del non-luogo celebrale), e tenendo conto dei dubbi in merito ad un Tarsem seminale, di esempi sulla questione presumo possano essercene molti altri ancora. La Buozyte, che è nata nel 1982 e che comunque ha lavorato con budget inferiore alle potenzialità del progetto, si potrà però far ricordare per i segmenti onirici che hanno un impatto visivo importante; tralasciando l’abbondanza di computer grafica che inquina tali passaggi, è percepibile il desiderio di lasciare un segno nell’occhio spettatoriale e per chi scrive l’obiettivo viene raggiunto sia nelle scene dove ci si affida alla geometria (la tavola imbandita) che in quelle dove si investe sull’Immagine – anche gratuita – (il coacervo orgiastico di corpi pronto ad assurgere a simbolo dell’opera), se poi si aggiunge un clima vagamente lynchiano nei frangenti in cui entra in scena l’uomo misterioso (che è Sharunas Bartas) allora le pecche derivanti da un’impostazione già vista si attenuano e non pesano poi così tanto.

Il fiammeggiante trailer (qui) vende Aurora per quello che forse in realtà non è, ciò non significa che non sia niente, anzi: è piacevole prendere atto della commistione categoriale che ci restituisce una fantascienza rinvigorita e arricchita, in parte nuova, assimilabile al mood di Target (2011), ed è altrettanto piacevole trovare l’intessitura di un rapporto sentimentale che per buona parte della sua durata palpita, paradossalmente, nel cervello, rivelando però poco prima del capolinea di possedere anche un cuore.

giovedì 15 agosto 2013

Il giardino di cemento

Bello il titolo ossimorico che disvela una certa tensione ostensiva: il cemento come antitesi della Natura, corrispettivo artificiale (manuale) di un elemento naturale. Da questo spunto dualistico si può vedere il film di Andrew Birkin come una bisettrice implacabile che spacca in due, sempre.

Nello scenario assolato di desolazione paesaggistica (l’erba, appunto, non esiste, il panorama è solo di detriti), il peso dell’adolescenza che corrisponde al corpo-film è contrassegnato da un’alternanza/tessitura di opposizioni che si espandono intorno all’argomento-Jack. Acidissima quella iniziale dove ruvidamente si è posti di fronte ad un aut-aut: mentre il figlio si masturba, il padre muore. Sperma e morte coagulati in un montaggio alternato per quella che risulta, con ogni probabilità, la sequenza più ficcante di tutta l’opera. Non finisce qui poiché dopo la dipartita di entrambi i genitori (mamma e papà a loro volta caratterialmente agli antipodi) sullo schermo i quattro figli sono protagonisti di contrasti: meramente interpersonali, sentimentali, identitari. L’identità è il tema a cui punta Birkin e ancor prima McEwan. L’abbandono a se stessi fa sì che i ruoli all’interno della casa si sfaldino e gettino i ragazzi in un turbine di progressivi antagonismi, faccia-a-faccia destrutturanti praticamente fuori dalle logiche convenzionali, e infatti un elemento esterno come il fidanzato di Julie sarà l’unico a porsi e a porre delle domande, ovviamente inascoltate. Non sembra esserci un’uscita di sicurezza dal nuovo sistema famigliare: il piccolo Tom viene travestito da bambina (ecco un’altra discordanza) e gioca con l’amichetto ad impersonare i fratelli maggiori come se essi fossero madre e padre.
È qui il baricentro di The Cement Garden (1993), destabilizzante e provocatorio (forse sotto un certo punto di vista ciò va a suo sfavore) nel coniugare disordine puberale ad una ri-assegnazione delle parti: un nuovo papà, una nuova mamma: fratello e sorella, l’ossimoro più grande sta proprio nell’amore fra i due. Il terreno, come si potrà capire, è scivoloso, ma il film resta in piedi degnamente, a parte nel finale in cui si forza l’immagine del legame tra Jack e Julie con l’entrata improvvisa del fidanzato che li bacchetta sonoramente.

Premiato a Berlino, il film vanta un valido cast ben apparentato, infatti è presente una poco più che ventenne Charlotte Gainsbourg, nipote di Birkin in quanto figlia della sorella Jane. Inoltre si segnala Ned Birkin, terzogenito del regista, nei panni di Tom.

lunedì 12 agosto 2013

Våga minnas

È proprio poca cosa Våga minnas (2012), documentario in cui Ewa Cederstam, svedese, una carriera come direttore della fotografia e una nomination a Berlino ’04 per il suo cortometraggio Kvinnans plats (2004), ricopre sia il ruolo di regista che quello di protagonista poiché, come fa capire senza mezzi termini la frase introduttiva, Ewa stessa a diciotto anni è stata violentata da uno sconosciuto, e ora che di anni ne sono passati venticinque, la ferita, sebbene tamponata da un voluto oblio e dall’edificazione di una famiglia, continua a sanguinare, a portare dolore, inquietudine, malessere, stati d’animo che qui non si smettono mai di rimarcare anche se forse il difetto principe dell’opera è esattamente connotato dalla rintracciabilità di tali elementi che una volta intuiti soltanto che al leggere della sinossi smagriscono di portata con la loro effettiva presenza nel cuore della Cederstam, in altre parole: non c’è poi molto da stupirsi se una donna che ha vissuto un’esperienza tremenda porta ancora i segni dell’abuso risalente a cinque lustri prima.

Va bene l’istanza intimista, probabilmente esorcizzante per la regista, ma il risultato globale è congelato, previa vaticinazione si centra l’obiettivo opposto: la contro-empatia, non la si vive questa video-confessione, nemmeno durante le conversazioni con l’amica del cuore o con la madre (e sorvoliamo sul puzzo artificioso delle diatribe col marito davanti alla camera o del padre che “proprio ora” confida un vecchio segreto alla figlia) che appaiono posticce, piatte, troppo troppo sedute, ad esclusione del dialogo con il poliziotto in cui viene ricostruita a parole la cronistoria della violenza, Cederstam passa buona parte del film a stupirsi di come dal giorno del fattaccio a oggi abbia dimenticato a mo’ di meccanismo di difesa dettagli e situazioni della vicenda, come se lo spettatore fosse obbligato a stupirsi anch’esso di fronte alla più famosa funzione di rimozione psicologica. Oltre a qualche finestrella paesaggistica, magari retaggio della principale professione della Cederstam, non c’è nient’altro degno d’attenzione.

sabato 10 agosto 2013

Paradise: Faith

Dunque, il secondo capitolo della trilogia di Ulrich Seidl.
Inutile ripetersi sulla continuità stilistica e stilemica dell’autore viennese che si riscontra anche in Paradies: Glaube (2012), piuttosto è maggiormente opportuno sviscerare subito il tema portante dell’opera: la fede, quella fede che vede Anna Maria, tipica austriaca della porta accanto nel mondo seidliano, donna in balia di una devozione che diventa fanatismo ossessivo, invasione della propria vita privata (la separazione di letto dal marito) e di quella altrui (l’evangelizzazione porta a porta) che la fa sentire una martire in una realtà che trasuda ai suoi occhi vizi e peccati a gogò (non è da escludere che la visione infernale dell’orgia nel parco, così assurda ed estranea al contesto, possa essere un’allucinazione della protagonista). Non nuovo ad affrontare argomenti del genere (c’è da citare Jesus, You Know, 2003), Seidl utilizza la figura del marito storpio finanche islamico per intensificare la portata concettuale: quello che accade nella bella casa dell’infermiera è uno scontro che si potrebbe definire quasi politico, una “guerra santa” che oppone due fazioni agli antipodi, ed è interessante notare di come il regista, maestro di acido sarcasmo, renda più ottusa ed integralista la donna occidentale che l’uomo di origini extracomunitarie costretto ad implorare un po’ di umanità alla consorte.

L’impostazione del film alterna diatribe coniugali (riuscite: lui che stacca i drappelli cristiani dalle pareti o che interrompe la riunione dei fedeli sono momenti convincenti) a trasferte di Anna Maria in casa di sconosciuti che tenta di riportare sulla retta via, qui è chiaro che i siparietti, come sempre originali ed alieni al resto della cinematografia contemporanea, non si fondono in tutto e per tutto con il nucleo domestico della storia, sono insindacabilmente validi di per sé, ma la funzione ampliativa che vorrebbero avere si incaglia nella non perfetta combinazione con le vicende dei coniugi, ad esempio l’ultima sortita di Anna Maria nell’abitazione di una giovane ubriacona viene prolungata ad oltranza suscitando qualche dubbio di improduttività. Come il sottoscritto aveva sottolineato con il precedente Paradise: Love (2012) l’incidenza di Seidl sembra leggermente minore rispetto alle staffilate del passato, se questo ammorbidimento sia dovuto all’abbandono della coralità che intrecciandosi creava una maglia dalla quale era impossibile sfuggire, è un’ipotesi che riterrei fondata, il punto è che Glaube latita di quella cattiveria, quella capacità di dardeggiare implacabilmente la nostra società, perché anche il comportamento di Anna, sebbene anormale ed eccessivo, non sbalordisce in praticamente nessuna delle sue manifestazioni, nemmeno nel rapporto sessuale con la croce. Nonostante ciò il cinema di Seidl è e rimane un punto di riferimento per i cinefili e per i colleghi (Yorgos Lanthimos, Veiko Õunpuu e Ruben Östlund hanno qualche debito nei suoi confronti), e un film che è solo buono e non eccellente non scalfirà la bravura di Mr. Ulrich.

Alla fine troviamo una precisa corrispondenza tra questi due primi episodi della triade: ambedue le protagoniste, giunte alla conclusione del film, vedono evaporare il loro Eden personale. Anna Maria, dopo aver constatato la dimensione di perdizione che la circonda (e allora i segmenti rimarcati sopra in quest’ottica fungono da episodi che minano la sua religiosità), inveisce contro il Simbolo del Sacrificio fustigandolo, ricreando una Salita al Calvario nella piccola camera di un appartamento austriaco. Al pari di quanto era successo alla sorella in Africa, il Paradiso è perduto.

giovedì 8 agosto 2013

Nos vies privées

Philip, fotografo bulgaro, raggiunge la connazionale Milena che vive in Canada. Si sono conosciuti in una chat, adesso si conosceranno di persona.

Girato in digitale tre anni prima di Curling (2010) con un budget esiguo (poco più di 7000 €) e con due attori bulgari dediti principalmente al teatro qua all’esordio sul grande schermo, Nos vies privées è il secondo film di Denis Côté, un film ridotto all’osso in ogni sua componente che ha una prima parte depistante: con l’incontro tra i due ragazzi, che avviene per l’occasione in un cottage isolato non distante da Montréal, il regista canadese intraprende il sentiero dello schema sentimentale: i due si avvicinano, vengono acciuffati dalla morsa irrazionale dell’attrazione, scopano, giocano, si sintonizzano su frequenze carnali, separati dal mondo, racchiusi nel guscio dell’impulso; per riprendere questo incendiarsi della relazione Côté non usa un linguaggio mellifluo, non permette al romanticismo di prendere il sopravvento, anzi al di là della scintilla sembra offrire allo spettatore attraverso i dialoghi tra lui e lei degli spunti di riflessione sui contatti virtuali tra le persone, infatti Philip e Milena ricordano come due fidanzatini di vecchia data le prime chattate o le prime conversazioni via webcam, e da qui inizia a dipanarsi il sospetto che la loro storia abbia fondamenta fragili e che sotto la patina superficiale mostrata da Internet ci siano un uomo e una donna incompatibili, una coppia di estranei che scoprono lentamente la loro inconciliabilità (il dislivello culturale amplia la forbice del feeling) e che così come è stato rapido l’invaghirsi a vicenda potrebbe essere altrettanto celere il disaffezionarsi.

Se una tale impostazione melò avesse ricoperto tutta l’opera, allora Nos vies privées non avrebbe particolari motivi per essere visionato, ma Côté ha talento e pur lavorando col minimo indispensabile nella seconda parte cambia pelle alla sua creatura, azzera le componenti romance per aprirsi al thriller (quasi soprannaturale), e lo fa partendo da un fattore di squilibrio come è la scappatella di Philip al luna park, da quel bacio fedifrago in avanti lo sgretolamento del duo avviene tramite procedure inconsuete; Côté rischia molto perché la doppia (e parallela nella diegesi) svolta drammatica non ha presupposti validi e si consuma con una rapidità che lascia perplessi, in particolare per ciò che combina Milena dove sia l’abbordaggio dello sconosciuto che la sua reazione alle avances si caricano di una rigidità figlia, in buona percentuale, della povertà di mezzi di cui dispone il regista. Però nel disegno generale che si viene a creare con l’assalto dell’essere misterioso ai danni di Philip, il film si slancia in quella che si delinea come una cupa metafora della fine di un rapporto, quel capolinea popolato da fantasmi, brulicante di paure, fisime, cose da nascondere che gettano gli amanti in un limbo di insicurezza, labirinto esiziale la cui fittizia uscita può mascherarsi al massimo tra i subwoofer di una discoteca.

Non un film che mira alla perfezione quello di Côté, al contrario un film che ha nell’incompiutezza, nel mettere in scena un dramma così alieno, così irreale, la capacità di afferrare qualcosa di vero, una rappresentazione dello stato emotivo post-rottura, la fine di una storia amorosa con manate di nero a rabbuiarla e con annessa apparizione demoniaca. Mica poco.

martedì 6 agosto 2013

Szenvedély

La storia, ispirata dal celebre romanzo di James M. Cain Il postino suona sempre due volte pubblicato nel ’34, è semplice: lui, lei e l’altro, tipico triangolo che identifica i suoi vertici in una coppia che gestisce un negozio e il giovane aiutante che presta servizio nel medesimo locale. Tutto normale se non fosse che a dirigere c’è il György Fehér di Twilight (1990) il quale scrive la sceneggiatura insieme all’amico Béla Tarr, per cui c’è un primo elemento d’attenzione: mai, in tutta la produzione filotarriana, si era dato un accento così prestante alle tematiche sentimentali, magari sfiorate sì, ma la centralità viaggiava sempre per altre istanze; in Szenvedély (1998), almeno dentro la sua prima ora, nella tanto amata pianura ungherese, piena di fango e pioggia scrosciante, palpita una liaison a tre che Fehér riesce a sintetizzare nel prologo [1]: il marito sospetta qualcosa, l’amante (è János Derzsi, attore ne Il cavallo di Torino, 2011) nell’essere obbligato a ballare con la moglie suda freddo ma tiene duro poiché innamorato della donna. I sessanta minuti che precedono l’omicidio illustrano questo andirivieni amoroso che sottolinea le difficoltà dei due fedifraghi a trovare la pace desiderata (la foto che vedete in calce è l’unico istante di tranquillità); il regista magiaro pur rimanendo fedele all’estetica intransigente che tutti gli adoratori di Tarr conoscono, nel mostrare i tentativi di sbarazzarsi del vecchio coniuge utilizza un registro flebilmente ironico che non stona affatto con l’uggiosa atmosfera del film, anzi, ne rinfresca i toni cupi, ossigena la drammaticità di un assassinio premeditato.

È vero che lo stile identifica immediatamente l’appartenenza a questa fetta di cinema ungherese che tanto ci ha fatto stropicciare gli occhi, e il bianco e nero, la dilatazione temporale, le fluttuanti manovre di ripresa e la stiticità verbale sono lì a rimarcarlo, però, anche a confronto diretto con il precedente Szürkület, l’impressione è che a Szenvedély manchi quella solennità tipica della corrente a cui appartiene, soprattutto nella seconda parte dove la vicenda si invischia nelle aule di tribunale per concentrarsi sui sotterfugi, o sui possibili sospetti e conseguenti tradimenti, la morsa dell’attenzione viene meno, delle crepe venano l’esposizione del legame tra i novelli fidanzati, la chiarezza si imbrunisce ed anche la risoluzione dell’inghippo da parte dell’avvocato arriva in modo soft, normale ingranaggio del meccanismo narrativo. È appunto la normalità a tenere con i piedi piantati per terra Szenvedély, il cinema di Tarr è cinema che diventa epica (dell’uomo), ogni sua opera è un trattato di mitologia moderna che ci obbliga ad un’estrema lettura delle istituzioni che costituiscono la settima arte, instillando poi Verità illuminanti sul mondo e sulla realtà che sta oltre lo schermo, certo Passion è un film di Fehér e forse non è corretto ricercare al suo interno l’impronta teorica di un altro autore, ma è questo che qui latita, Szenvedély non è un film che nuota nell’universalità, al contrario si accontenta di stazionare nella provincia e di essere il surrogato di una materia che ha partorito manifestazioni ben più verticali.
Con onestà: ci aspettavamo qualcosina di meglio.
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[1] Il prologo in questione assomiglia un poco (ma poco) a quello de Le armonie di Werckmeister (2000), simile stanza spoglia, simile danza sbilenca.

sabato 3 agosto 2013

Síðasti bærinn

Girato all’età di ventisette anni dopo un documentario dal titolo Leitin að Rajeev (2002), Síðasti bærinn (2004) è il primo cortometraggio di Rúnar Rúnarsson, islandese nato a Reykjavík, che già con questo suo lavoro si guadagnò una nomination all’Oscar; il ragazzo ci prenderà gusto ed il successivo short Two Birds (2008) volerà a Cannes per la Palma di categoria, e non è tutto qua perché tre anni dopo il giovane regista calcherà la croisette a testa alta grazie alla presentazione nella sezione Quinzaine des Réalisateurs di Volcano (2011), debutto nel lungometraggio.

The Last Farm, che si avvale delle musiche di Kjartan Sveinsson, tastierista dei Sigur Rós, espone correttamente due elementi cardine per la nazione d’appartenenza: Uomo più Natura, e ce lo fa intendere con la panoramica iniziale che inquadra laggiù in fondo l’uomo intento nei suoi lavori, e soprattutto quando un’altra panoramica, ‘sta volta a pochi minuti dalla fine, diviene la soggettiva dell’anziano signore che guarda quello che è stato il suo mondo, i prati scoscesi, la casetta col tetto a punta, le montagne a far da cornice. C’è simbiosi fra le due parti, un’unione che trova compimento nel gesto ampiamente premeditato del marito, una fusione con la terra, un ritornare ad essa con tutta la consapevolezza della vecchiaia, e ciò accade grazie ad una scena conclusiva studiata a puntino per sottolineare questo ricongiungimento (una scena non esattamente “mai vista” dato che il nostro Frammartino con Il dono [2003] ha chiuso in modo similare); poi è chiaro che il topic sentimentale ha un aspetto di rilievo e colpirà immediatamente la sensibilità dello spettatore, va bene, ma essendo così in vista l’Amore non è detto che sia davvero il nucleo del film, è rintracciabile dell’altro fornito gentilmente dalla splendida ambientazione. L’opinione è che se il corto fosse stato girato in un luogo più “anonimo” l’effetto positivo non sarebbe stato lo stesso.

giovedì 1 agosto 2013

North Sea Texas

L’intelaiatura è risaputa, delinea le fasi prettamente filmiche di una relazione attraverso stadi programmatici: il prima rapporto, il rapporto, il dopo rapporto. Il belga Defurne, al primo lungometraggio, principia platealmente la plasmazione di Pim mostrandolo come un piccolo narciso, nudo, con una fascia da reginetta e relativa coroncina di fronte alla finestra. È un biglietto da visita fuorviante che potrebbe suggerire una stereotipizzazione del carattere (omosessualità = vanità), una descrizione basata su paletti preconcettuali divelti nel giro di qualche fotogramma: l’amore di Pim verso Gino non ha niente di “esterno”, non può averlo, è clandestino, mimetizzato, costantemente ricordato anche se presente (la scatola, diario oggettuale, tangibilità piena del desiderio), è quindi un amore che rima con la sofferenza (di una e più situazioni, di un’età), che non ha riflesso sentimentale profondo, perciò, seguendo il celebre schema, non può che incagliarsi nella bassa marea di un terzo personaggio, spartiacque della liaison, punto di svolta per tutte le pellicole pennellate di rosa. Da questa impostazione Defurne si affranca con sufficiente grazia soprattutto nella porzione di film in cui Gino abbandona la scena e Pim diventa davvero il fulcro emotivo, tanto che l’impressione emergente è quella di un protagonista non solo alle prese con le varie diatribe interpersonali, quanto sballottolato dal vortice-Sentimento in una scoperta potentemente intima dell’atto di amare.

Non tragga nell’inganno pruriginoso il fatto che si parli di due adolescenti omosessuali. Non è un facile scandalo che Defurne cerca, il regista, ispirato da un libro di André Sollie, avvalendosi di una punteggiatura vagamente solondziana, ispessisce convincentemente tutto ciò che esula dalla stretta Pim-Gino; i bordi della storia sono intrecci contigui, sottostorie prospicienti come le due abitazioni e come le non-famiglie che le abitano. Tappandoci il naso su un certo psicologismo narrativo imperante qui non troppo dannoso perché non troppo accentuato, viene a galla la fragilità di due nuclei affettivi (?) in cui la mancanza di una controparte genitoriale innesca una mini-deflagrazione di cause ed effetti che si ripercuotono sul piccolo Pim. All’idea che l’origine dell’attrazione omo sia da sostanziare nell’assenza paterna (ecco lo “psicologismo” di prima, quell’obbligo di fornire una sorta di eziologia), si affiancano i fatti sullo schermo saldamente intessuti tra loro e fondati da una comune ricerca d’Amore, necessità urgente che sa assumere sorprendentemente varie coloriture: romantiche (Pim d’altronde è un sognatore), tenere (l’infatuamento della sorella), parodistiche (la madre con il tipo coatto), e un filino drammatiche (l’altra mamma che, in una grande scena, sancisce l’unione come se fosse un sacerdote).

La ricostruzione di un’epoca che si aggira tra gli anni ’60 e ’70 è tra le più riuscite mai viste laddove c’è qualcos’altro al di là degli abiti oggi perfettamente vintage, un nonsisache di malinconico trattenuto dalle cromature pastellose che tinteggiano la realtà di Pim. Un Pim interpretato con calcolato coraggio da Jelle Florizoone classe 1995, attore di cui auspicabilmente sentiremo parlare in futuro.
Per Defurne, già autore di una decina di corti, un debutto che soddisfa, niente applausi scroscianti per ora, ma un altro nome da appuntarsi sul taccuino dei registi da sorvegliare attentamente.