Non so se si possa dire che l’ombra lunga di Lanthimos si sia protesa anche sul cineasta sotto esame, gli approcci alla materia cinema sono parecchio diversi però condividendo la medesima patria d’appartenenza un pensierino lo si fa. Efthimis non è asettico e glaciale come il collega Yorgos, ciò non toglie che anche lui sia molto attento all’aspetto formale. Che sappia girare lo avevamo capito da subito, in Unbuilt Light l’apparato estetico è di livello piuttosto elevato e si coniuga bene con una pista sonora che è ancora meglio, l’uso di un audio a tratti dislocato a tratti in sovrapposizione alle immagini mute, appare per chi scrive la scommessa migliore (perché vinta) da parte del greco-tedesco. Eppure qualcosa non torna, è come se ci fosse una leggera patina che lucida l’involucro, è una proposta perfettina, misurata, trattenuta nell’impronta che gli si è voluta dare, spero mi si passi l’espressione “infighettamento autoriale” per rendere l’idea, senza offesa al regista, ognuno può scegliere la propria linea, ed esattamente per questa ragione non ho trovato molta congruenza nell’inserimento di filmati amatoriali che fungono, forse, da memoria visiva per il vecchio, gli stralci non si amalgamano troppo bene con il resto (e si badi che io sono il fan numero uno di assemblaggi del genere), e poi il finale, sì ok, ha una serie di perché e percome, la risata continua, il tragitto in auto, la sparizione tra le fronde, la luce pulsante (del titolo?) nascosta dietro al tronco... boh, non mi ha colpito così tanto, la tecnica da sola a volte non basta.
giovedì 1 giugno 2023
Unbuilt Light
lunedì 29 maggio 2023
Toublanc
Qualcuno potrebbe obiettare sull’assenza di una congiuntura delle due storie raccontate, l’indipendenza della sezione di lui e di quella di lei è un dato di fatto, sono parallele che in un’ottica razionale non si incontreranno mai. Però se Fund ha un merito, e a mio avviso ce l’ha abbastanza, sta nell’aver saputo trovare una coesione, una fluidità avvicinando due segmenti che, seppur non conciliabili, alla fine sembra che si sfumino a vicenda, l’uno nell’altro. Una piccola connessione la si può rintracciare nella lingua francese che riduce la distanza atlantica, ma è poco se si ha la sensazione che ci sia di più, che si tocchi una sfera non tangibile, non scritta, Toublanc fa sì che in uno spazio filmico si possa verificare una coesistenza che vive di epifanie, di velato onirismo, di specchi. Il procedimento ludico di duplicazione che Fund usa è un collante che amalgama, alcune scene sono gemelle: Toublanc e Clara sull’autobus, talune rovesciate: Toublanc interroga, Clara è interrogata dalla polizia, in generale il legame che si profila tra l’uomo e la donna, tra i loro due mondi, diventa un credibile tutt’uno, e il sentimento che svetta in assoluto, che li rende le celeberrime facce di una stessa medaglia coniata con un materiale fosco, è la solitudine. Ecco, il tratto realmente unificante, il punto di convergenza della pellicola e dei suoi protagonisti è la solitudine che essuda da una quotidianità casalinga, da un amore senza direzione (l’ultimo primo piano di Clara: piange), da una vacua investigazione malinconica. Caro Fund, dopo Toublanc, se ce ne sarà occasione, ascolterò ancora ciò che hai da dire.
mercoledì 24 maggio 2023
Adiós entusiasmo
Arrivati alla fine si percepisce comunque un senso di incompiuto, di potenziale inespresso. È come se l’opera flirtasse con una dimensione astratta senza però avere mai il coraggio di buttarcisi a capofitto, nel limbo realistico che si dispiega in formato panoramico sullo schermo capiamo che al regista interessa mettere a punto un sistema femmineo-centrico dove gli uomini sono assenti (i padri, non pervenuti) anche se presenti (i due fidanzati, idem), ad eccezione del piccolo Axelito che infatti avrà una parte decisiva nelle battute finali (è lui che squaderna varie verità sulle sorelle nel gioco di ruolo tra i partecipanti alla festa ed è ancora lui ad oltrepassare il confine nel bagno), l’inscenare un habitat muliebre del genere in contrapposizione all’assenza fisica della mamma, è una raffigurazione che rimane nel suddetto campo, è un disegno, un quadretto che si osserva con distacco. Sicuramente si è visto molto di peggio ma a furia di adagiarci su frasi fatte si finisce per fornire alibi a produzioni che invece di puntare all’eccellenza si accontentano di galleggiare nell’oceano dell’autorialità, non che codesto mare sia un’infima pozzanghera, però è talmente pieno di imbarcazioni che raggiungono un sufficiente livello qualitativo da spingerci a desiderare film che sanno inabissarsi verso il fondo o magari decollare verso il cielo, Adiós entusiasmo staziona sulla linea di un ben noto orizzonte, a voi le conclusioni.
lunedì 22 maggio 2023
Carne
venerdì 19 maggio 2023
Yumen
Dipende da quali aspettative si hanno, il sottoscritto è sempre ben lieto di visionare titoli che si prendono dei rischi pur di proporsi in maniera inusuale, Sniadecki per dare una scossa all’impianto realistico inserisce dei personaggi che vagano tra le macerie cittadine. Due di essi, Huang Xiang e Xu Routao, oltre ad essere degli artisti locali, figurano anche come co-registi, e insieme ad altri bizzarri esseri umani si aggirano nell’ambiente post-atomico quasi fossero dei fantasmi. L’interpretazione ectoplasmica va per la maggiore nei commenti in Rete e pure io mi ci accodo, infatti, attraverso un commento esterno, udiamo le loro voci raccontarci brandelli di un passato che nell’incertezza non attribuirei a nessuno di loro, al massimo direi che sono gli echi di Yumen, in qualche modo, a farsi ancora vivi. Non c’è però un afflato nostalgico/malinconico come abbiamo visto in altre opere similari, la piega presa da Yumen è troppo scollata e laterale per lavorare sugli ipotetici ingranaggi emotivi, lo score stridente (brani che oscillano tra il popolare ed il moderno), i balletti (… mi permetto di decretarli così: goffi, ma probabilmente era una cosa voluta) e i volti ritratti sui muri, sono elementi che, e qui concordo con la recensione di Marco Chiani (link), trasportano il film nella performance-art, senza scordare un irrobustimento finzionale (tra un ragazzo e una ragazza pare si crei una sorta di legame). Alcune scelte tecniche e sintattiche seminano interrogativi che germogliano in un film più strano che bello, il che può comunque essere un buon motivo per spingersi nella visione.
mercoledì 17 maggio 2023
Voices from Chernobyl
La questione non mi è affatto nuova e si ripresenta ogni qual volta un titolo oscilla tra la rappresentazione ed il suo possibile opposto. La mia opinione è che nel materiale che si cattura, quindi nella chiamiamola realtà, ci sono a prescindere tutte le storie di cui un autore ha bisogno, trattandosi di una sostanza malleabile con gli opportuni accorgimenti possono uscire fuori dei capolavori di limpida semplicità. Cruchten non ha creduto nel potenziale nascosto dietro e dentro le immagini nude e crude, invece di illuminare con il suo lavoro quei cristalli narrativi che anche un documentario custodisce, ha preferito forzare optando per un’energica costruzione finzionale. Il risultato immediato è una perdita di naturalezza globale e il fatto che si percepisca in maniera gravosa la mano del demiurgo inaridisce la portata semantica, non è che non si crede al dolore di una vedova o alle paure di un bimbo malato, solo che con un’impostazione del genere, si crede, anzi si sente un po’ meno lo spettro dei sentimenti perché è inquinato da una predisposizione studiata a tavolino. Il rovescio della medaglia si palesa in una composizione dal carattere artistico, una sostanza pittorica se non fotografica piena di istantanee che manderanno in visibilio gli esteti del settore, Cruchten qui sconfina addirittura nel surreale con pennellate degne dei migliori visionari (la porta nel bosco; la pioggia nell’ufficio; l’albero luccicante; gli inserti animati; la citazione a Stalker [1979] del finale), se tanto vi basta per raggiungere il vostro gradimento allora sapete che fare, in caso contrario calma e gesso, oltre l’ammirabile confezione esterna La supplication possiede un deficit teorico che per alcuni (eccomi) potrebbe essere uno scoglio.
lunedì 15 maggio 2023
Triangulum
Da tradizione la gabbia espositiva è quadrata, l’aspetto della pellicola è “rovinato”, qui esclusivamente negli stralci in bianco e nero, perché sì, Triangulum procede per balzi cromatici incrementando il disorientamento, un campo può essere a colori, l’annesso controcampo il suo opposto. In un montaggio bello serrato spesso è complicato identificare i soggetti che si affacciano nella diegesi, chi sta parlando? E che sta dicendo? Meglio non fondersi inutilmente il cervello dietro ai dettagli, piuttosto vale la pena allargare lo sguardo per cogliere la complessità del film, del resto i due registi sono i soliti alchimisti che aprono la scatola-cinema ad immissioni di altre discipline, senza dimenticare (e come sarebbe possibile farlo?) il rifarsi ad un linguaggio visivo che sembra disseminare simboli (la piccola piramide luminosa; la piramide-tenda nel deserto) e al contempo attingere al bacino della realtà, se non della cronaca (la donna al tavolino che parla dell’Iraq; Melissa che distribuisce dei volantini alle passanti). Pretenzioso? Presuntuoso? Altezzoso? Non escludo nulla. Ma esattamente come per In the Traveler’s Heart (2013), alla fine, si sente che il ribollio artistico di Jahn & Dullius non è un vuoto atto d’onanismo.