giovedì 1 giugno 2023

Unbuilt Light

Tipo eclettico questo Efthimis Kosemund Sanidis, tre cortometraggi visti e tre proposte eterogenee, però, scava scava, un comune denominatore è dato da un’estesa indeterminatezza che il regista ama diffondere nelle sue opere. II (2014) è l’oggetto più inclassificabile, Astrometal (2017) non è da meno ma ha dei barlumi di leggibilità al pari di Aktisto Fos (2017) che forse del trio è il lavoro maggiormente comprensibile e strutturato, seppur immerso in un clima di ardua decifrabilità. Lo spunto principale che attraversa il film è di tipo esistenziale con attenzione sul versante senile, è infatti un anziano uomo il protagonista, anche se definirlo tale risulta difficile, EKS ritaglia degli spazi filmici scollati gli uni dagli altri dove l’uomo, spesso ripreso di spalle, è tanto presente quanto passivo, la mdp del regista si interessa al contorno, ad una donna su un camioncino, ad una fiera equina, agli invitati al suo compleanno, ad una vagina, l’unico momento in cui l’uomo è al centro della scena è quando cade rovinosamente a terra, è il chiaro segnale di una posizione debole, uno degli ultimi passi di un’intera vita. Quindi, senza avere un punto fermo sullo schermo, si vive la veloce panoramica un po’ frastornati, anzi forse dovrei dire un po’ lontani, non si empatizza granché con le vicende che si susseguono, magari era un obiettivo Kosemund Sanidis, per carità, sarebbe assolutamente legittimo, però pensando ad ulteriori pellicole dalle traiettorie universali l’assenza che qui pesa è quella di un calore, di un sentimento, l’assenza di un cuore.

Non so se si possa dire che l’ombra lunga di Lanthimos si sia protesa anche sul cineasta sotto esame, gli approcci alla materia cinema sono parecchio diversi però condividendo la medesima patria d’appartenenza un pensierino lo si fa. Efthimis non è asettico e glaciale come il collega Yorgos, ciò non toglie che anche lui sia molto attento all’aspetto formale. Che sappia girare lo avevamo capito da subito, in Unbuilt Light l’apparato estetico è di livello piuttosto elevato e si coniuga bene con una pista sonora che è ancora meglio, l’uso di un audio a tratti dislocato a tratti in sovrapposizione alle immagini mute, appare per chi scrive la scommessa migliore (perché vinta) da parte del greco-tedesco. Eppure qualcosa non torna, è come se ci fosse una leggera patina che lucida l’involucro, è una proposta perfettina, misurata, trattenuta nell’impronta che gli si è voluta dare, spero mi si passi l’espressione “infighettamento autoriale” per rendere l’idea, senza offesa al regista, ognuno può scegliere la propria linea, ed esattamente per questa ragione non ho trovato molta congruenza nell’inserimento di filmati amatoriali che fungono, forse, da memoria visiva per il vecchio, gli stralci non si amalgamano troppo bene con il resto (e si badi che io sono il fan numero uno di assemblaggi del genere), e poi il finale, sì ok, ha una serie di perché e percome, la risata continua, il tragitto in auto, la sparizione tra le fronde, la luce pulsante (del titolo?) nascosta dietro al tronco... boh, non mi ha colpito così tanto, la tecnica da sola a volte non basta.

lunedì 29 maggio 2023

Toublanc

La seconda chance che diamo a Iván Fund dopo Vendrán lluvias suaves (2018) è Toublanc (2017), un film che pare tragga linfa dalle opere dello scrittore Juan José Saer (infatti vedremo nella diegesi una copia di Cicatrices, libro pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera) e che sullo schermo si compone in una duplice narrazione, tra la Francia e l’Argentina, tra un ispettore che indaga su un omicidio e una insegnante di francese alle prese con una vita solitaria, nel mezzo, o sopra, sotto, ovunque: un cavallo. L’approfondimento sul cinema di Fund ci sgombera qualche perplessità, questo regista è interessato alle forme che in quanto tali può imprimere nel cinema, si vede, si percepisce, e una attenzione del genere si riverbera in un taglio molto d’essai, dilatato come quasi lo sono certi lavori orientali (sarà il ritratto mesto e appartato di Clara, ma c’è odore di Tsai Ming-liang da qualche parte), concentrato sull’inessenziale (il lungo preambolo mattutino su Toublanc), intriso di una antiletteralità che non avvalla facili accessi, narciso nell’ornarsi di vezzi estetici non proprio ordinari (lo split screen che aumenta quest’idea di doppiezza). Di ribollio nella pentola di Fund ce n’è, ovvio che risulta necessario avere un po’ di confidenza verso manifestazioni artistiche così (ma nemmeno troppa, non allarmatevi), una volta stabilita la frequenza giusta potrebbe anche sorgere una timida approvazione, soprattutto se lo si rapporta a Vendrán lluvias suaves che associava alla sottrazione un condimento marcatamente (e saramaghiamente) allegorico che in Toublanc, asciutto e laconico, non è presente (ad esclusione della presenza equina, forse).

Qualcuno potrebbe obiettare sull’assenza di una congiuntura delle due storie raccontate, l’indipendenza della sezione di lui e di quella di lei è un dato di fatto, sono parallele che in un’ottica razionale non si incontreranno mai. Però se Fund ha un merito, e a mio avviso ce l’ha abbastanza, sta nell’aver saputo trovare una coesione, una fluidità avvicinando due segmenti che, seppur non conciliabili, alla fine sembra che si sfumino a vicenda, l’uno nell’altro. Una piccola connessione la si può rintracciare nella lingua francese che riduce la distanza atlantica, ma è poco se si ha la sensazione che ci sia di più, che si tocchi una sfera non tangibile, non scritta, Toublanc fa sì che in uno spazio filmico si possa verificare una coesistenza che vive di epifanie, di velato onirismo, di specchi. Il procedimento ludico di duplicazione che Fund usa è un collante che amalgama, alcune scene sono gemelle: Toublanc e Clara sull’autobus, talune rovesciate: Toublanc interroga, Clara è interrogata dalla polizia, in generale il legame che si profila tra l’uomo e la donna, tra i loro due mondi, diventa un credibile tutt’uno, e il sentimento che svetta in assoluto, che li rende le celeberrime facce di una stessa medaglia coniata con un materiale fosco, è la solitudine. Ecco, il tratto realmente unificante, il punto di convergenza della pellicola e dei suoi protagonisti è la solitudine che essuda da una quotidianità casalinga, da un amore senza direzione (l’ultimo primo piano di Clara: piange), da una vacua investigazione malinconica. Caro Fund, dopo Toublanc, se ce ne sarà occasione, ascolterò ancora ciò che hai da dire.

mercoledì 24 maggio 2023

Adiós entusiasmo

Del lanthimosiano che c’è in Adiós entusiasmo (2017) ha scritto bene l’ottimo Il tempo impresso (link) con il quale mi sento di condividere il ragionamento che attraverso il confronto con Dogtooth (2009) porta al giudizio globale, tuttavia, fidandoci di una stringata informazione che ho trovato su un sito basco (ri-link), la fonte di ispirazione del principalmente attore Vladimir Durán sarebbe un documentario spagnolo del 1976 intitolato El desencanto. Sia quel che sia, l’esordio nel lungometraggio di questo regista colombiano (ma il film è tutto argentino) ha delle cose che all’incirca funzionano, su tutte quella di non affidare se stesso esclusivamente ad una narrazione consequenziale, all’interno dell’appartamento sussiste una condizione di stasi che non fa procedere né regredire, uno stagnamento dal carattere claustrofobico (ma tranquilli, di ossigeno ce n’è eccome, sono altre le visioni da apnea), e pur essendo io conscio che si poteva fare di più, che Durán aveva le carte in regola per risultare maggiormente incisivo se avesse lasciato in secondo piano la mera sceneggiatura, l’atmosfera da Kammerspiel spagnoleggiante, per abusare di litote, non è male. Come non è altrettanto male la scelta di scansare la metafora manifesta (problema che col tempo ho ravvisato nel cinema di Lanthimos & soci), se il micro-cosmo casalingo allestito ha un significato al di là della rappresentazione è meno evidente e meno diretto di quanto si pensi, la famiglia disfunzionale di Durán è abbastanza libera da paralleli e allegorie sociologiche (certo, potrebbe essere – o forse è – anche una sua debolezza, ma dopo le indigestioni di ondate greche per me va bene così), la madre vive separata dai figli per motivi sconosciuti (o giusto accennati) e sforzarmi a leggere dell’altro dietro tale segregazione è un’azione che non mi va di compiere.

Arrivati alla fine si percepisce comunque un senso di incompiuto, di potenziale inespresso. È come se l’opera flirtasse con una dimensione astratta senza però avere mai il coraggio di buttarcisi a capofitto, nel limbo realistico che si dispiega in formato panoramico sullo schermo capiamo che al regista interessa mettere a punto un sistema femmineo-centrico dove gli uomini sono assenti (i padri, non pervenuti) anche se presenti (i due fidanzati, idem), ad eccezione del piccolo Axelito che infatti avrà una parte decisiva nelle battute finali (è lui che squaderna varie verità sulle sorelle nel gioco di ruolo tra i partecipanti alla festa ed è ancora lui ad oltrepassare il confine nel bagno), l’inscenare un habitat muliebre del genere in contrapposizione all’assenza fisica della mamma, è una raffigurazione che rimane nel suddetto campo, è un disegno, un quadretto che si osserva con distacco. Sicuramente si è visto molto di peggio ma a furia di adagiarci su frasi fatte si finisce per fornire alibi a produzioni che invece di puntare all’eccellenza si accontentano di galleggiare nell’oceano dell’autorialità, non che codesto mare sia un’infima pozzanghera, però è talmente pieno di imbarcazioni che raggiungono un sufficiente livello qualitativo da spingerci a desiderare film che sanno inabissarsi verso il fondo o magari decollare verso il cielo, Adiós entusiasmo staziona sulla linea di un ben noto orizzonte, a voi le conclusioni.

lunedì 22 maggio 2023

Carne

Tra la suora e Gesù Cristo spunta un terzo incomodo.

Continua a non convincermi il cinema di Carlos Conceição, non ce l’ha fatta con i due esemplari più recenti Versailles (2013) e Bad Bunny (2017), non poteva farcela neanche con un lavoro degli esordi quale Carne (2010) è. Per iniziare il contorno estetico, almeno quando l’azione si svolge nell’edificio fatiscente, sa molto di soap opera in costume, di quelle dozzinali che vanno in onda al pomeriggio per le casalinghe, non so se sia stata una mossa voluta dal regista per poi sconfessare tale percezione con una cappa pruriginosa, ma tant’è questa proiezione fortemente impostata (anche le musiche di stampo classico amplificano ciò) e ostentatamente recitata l’ho parecchio patita, non è roba che fa per me, e purtroppo un’impostazione così improntata alla finzione mi deprezza anche tutta la portata semantica del corto. Che poi, detto fuori dai denti, spero proprio che il principale obiettivo di Conceição non fosse l’impatto da sexploitation di una monaca che si appresta a spompinare un tipo conosciuto in un bar, i tempi di Jess Franco e compagnia bella sono passati da mo’, però è innegabile che vi sia un voler fare leva sul contrasto tra la dimensione sacra e spirituale con l’antitesi profana e carnale, al solito sono le modalità a decidere il possibile apprezzamento: non riesco ad accontentarmi di una messa in scena evidente ed in priamo piano quando si mira alla trascendenza, e che passi attraverso il peccato poco importa, gli stati soprasensibili possono manifestarsi in maniera proteiforme. 

Nulla ha aggiunto inoltre lo scompaginamento temporale delle sequenze (prima la “punizione”, dopo il “tradimento”), men che meno i palesi riflessi di una religiosità che oltre a palesarsi nei ruoli dei protagonisti vengono ulteriormente spiattellati con la lettura di alcuni stralci biblici. Che lei sia La Donna-Eva, che lui divenga L’uomo-Adamo, che rimangano figure ancorate alla religione, che se ne sgancino o che il Salvatore ceda alla tentazione (non c’è il serpente ma una pioggia di mele, unico frangente dove si smuove un minimo la situazione) francamente sono aspetti nell’area dei significati che, esposti così, comportano al massimo qualche blando sbadiglio. No davvero, con Conceição non trovo un punto di incontro, i suoi colleghi portoghesi non sono certo degli avanguardisti però hanno trovato una chiave, un taglio della narrazione che riesce a non pesarmi. Boh, vedremo magari il lungometraggio d’esordio Serpentarius (2019) se avrà di meglio da proferire, qui concludo segnalando che la suora è interpretata da Anabela Moreira mentre Gesù da Carloto Cotta, entrambi si ritroveranno anni dopo sul set di Diamantino - Il calciatore più forte del mondo (2018).      

venerdì 19 maggio 2023

Yumen

Abbiamo un altro nome su cui puntare le nostre fiches: J.P. Sniadecki, cineasta americano del Michigan, antropologo e docente universitario, già collaboratore di Verena Paravel (nel 2010 hanno girato insieme Foreign Parts) e, non so con quali funzioni, anche di Salomé Lamas (nei crediti finali di Eldorado XXI [2016] c’è un ringraziamento per lui), nonché autore di diverse produzioni orbitanti nell’area documentaristica con una particolare attenzione all’universo cinese. Ogni qual volta si approccia un nuovo regista senza conoscere niente del suo passato si brancola un po’ nel buio ed il rischio di prendere una cantonata è dietro l’angolo, però da qualche parte bisogna pur cominciare e tale parte ha preso forma e sostanza in Yumen (2013). Giusto per confutare l’attrazione del regista per la Cina, eccoci nella provincia di Gansu in una ex oil-town, Yumen appunto, ora abbandonata e lasciata all’incuria del tempo. In uno scenario che sa di Černobyl’ in versione mandarina si capisce praticamente da subito che il film avrà mire più artistiche che meramente illustrative, gli interventi di Sniadecki sia nel settore sonoro che in quello video sono abbastanza evidenti, la tendenza è quella di prendere le distanze da una confezione accomodante in favore di una ricerca che mette in campo istanze differenti come la danza o la street art, tanto che con il progredire della pellicola la centralità di Yumen perde di fibra, sì qua e là vengono buttate alcune informazioni (tipo il perché si è svuotata) però l’atmosfera in cui si entra, parecchio eccentrica devo dire, avanza sulle possibili intenzioni esplicative. È un aspetto positivo, negativo o neutro?

Dipende da quali aspettative si hanno, il sottoscritto è sempre ben lieto di visionare titoli che si prendono dei rischi pur di proporsi in maniera inusuale, Sniadecki per dare una scossa all’impianto realistico inserisce dei personaggi che vagano tra le macerie cittadine. Due di essi, Huang Xiang e Xu Routao, oltre ad essere degli artisti locali, figurano anche come co-registi, e insieme ad altri bizzarri esseri umani si aggirano nell’ambiente post-atomico quasi fossero dei fantasmi. L’interpretazione ectoplasmica va per la maggiore nei commenti in Rete e pure io mi ci accodo, infatti, attraverso un commento esterno, udiamo le loro voci raccontarci brandelli di un passato che nell’incertezza non attribuirei a nessuno di loro, al massimo direi che sono gli echi di Yumen, in qualche modo, a farsi ancora vivi. Non c’è però un afflato nostalgico/malinconico come abbiamo visto in altre opere similari, la piega presa da Yumen è troppo scollata e laterale per lavorare sugli ipotetici ingranaggi emotivi, lo score stridente (brani che oscillano tra il popolare ed il moderno), i balletti (… mi permetto di decretarli così: goffi, ma probabilmente era una cosa voluta) e i volti ritratti sui muri, sono elementi che, e qui concordo con la recensione di Marco Chiani (link), trasportano il film nella performance-art, senza scordare un irrobustimento finzionale (tra un ragazzo e una ragazza pare si crei una sorta di legame). Alcune scelte tecniche e sintattiche seminano interrogativi che germogliano in un film più strano che bello, il che può comunque essere un buon motivo per spingersi nella visione.

mercoledì 17 maggio 2023

Voices from Chernobyl

Potremmo considerare La supplication (2016) del lussemburghese Pol Cruchten come la risposta arty alla serie televisiva Chernobyl (2019)? Be’, perché no? Le due opere viaggiano su traiettorie antitetiche però condividono la medesima meta, ovvero raccontarci quel che è stato e quello che è rimasto del disastro di Černobyl’. Cruchten, a differenza dei colleghi di HBO, trae spunto da una base letteraria, il film è infatti un adattamento del libro Preghiera per Černobyl’. Cronaca del futuro (E/O; 2002) scritto dal premio Nobel ’15 Svjatlana Aleksievič, e si avvale di un procedimento che mette in relazione i luoghi sopravvissuti all’esplosione così come sono ora con le riflessioni dei superstiti in commento off. L’aspetto peculiare dell’opera è che se gli ambienti sono “originali” (non è specificato ma immagino che saremo a Pryp"jat’ o zone limitrofe), i testimoni sono invece attori, se non proprio tutti, sicuramente una buona parte. Questa scelta, unita all’utilizzo del francese per esporre i pensieri sullo schermo, crea un discreto divario percettivo durante la visione, mi spiego: sull’argomento abbiamo già visto due lavori: Pripyat (1999) e The Babushkas of Chernobyl (2015), un dittico dall’essenza esclusivamente documentaristica, cosa che non si può altrettanto dire di Voices from Chernobyl, il motivo è dato da un congiungersi di strani rivoli artificiali che solcano l’impianto illustrativo, il susseguirsi di uomini, donne e bambini che riversano la loro storia ha una cifra quasi teatrale che può essere positiva o negativa a seconda di come si vuole intendere il cinema. Per me, che amo l’originarietà e la verità dell’oggetto ripreso, un intervento massiccio del regista non mi ha fatto venire la pelle d’oca, sebbene sia doveroso riconoscere l’alto lignaggio formale che costituisce il film.

La questione non mi è affatto nuova e si ripresenta ogni qual volta un titolo oscilla tra la rappresentazione ed il suo possibile opposto. La mia opinione è che nel materiale che si cattura, quindi nella chiamiamola realtà, ci sono a prescindere tutte le storie di cui un autore ha bisogno, trattandosi di una sostanza malleabile con gli opportuni accorgimenti possono uscire fuori dei capolavori di limpida semplicità. Cruchten non ha creduto nel potenziale nascosto dietro e dentro le immagini nude e crude, invece di illuminare con il suo lavoro quei cristalli narrativi che anche un documentario custodisce, ha preferito forzare optando per un’energica costruzione finzionale. Il risultato immediato è una perdita di naturalezza globale e il fatto che si percepisca in maniera gravosa la mano del demiurgo inaridisce la portata semantica, non è che non si crede al dolore di una vedova o alle paure di un bimbo malato, solo che con un’impostazione del genere, si crede, anzi si sente un po’ meno lo spettro dei sentimenti perché è inquinato da una predisposizione studiata a tavolino. Il rovescio della medaglia si palesa in una composizione dal carattere artistico, una sostanza pittorica se non fotografica piena di istantanee che manderanno in visibilio gli esteti del settore, Cruchten qui sconfina addirittura nel surreale con pennellate degne dei migliori visionari (la porta nel bosco; la pioggia nell’ufficio; l’albero luccicante; gli inserti animati; la citazione a Stalker [1979] del finale), se tanto vi basta per raggiungere il vostro gradimento allora sapete che fare, in caso contrario calma e gesso, oltre l’ammirabile confezione esterna La supplication possiede un deficit teorico che per alcuni (eccomi) potrebbe essere uno scoglio.

lunedì 15 maggio 2023

Triangulum

Triangulum (2009 o forse 2008) ha tutta l’aria di essere un sogno ad occhi aperti in una qualche città mediorientale, certo liquidare la faccenda in maniera così sbrigativa è troppo facile, però quando nel cinema vengono annientate le coordinate del comune vedere ricorrere ad una chiave di lettura onirica è più un rifugio che una libera interpretazione. Di sicuro, comunque, non vi è stupore alcuno perché se si è ammiratori della coppia Gustavo Jahn - Melissa Dullius questo cortometraggio rientra appieno nel loro modo di fare arte. Solo che, forse per via di trovarsi agli albori della carriera, Triangulum, se rapportato alle altre opere del duo, risulta il più impenetrabile. Lungi da me considerarlo un difetto, al massimo l’estesa cripticità può essere uno stimolo che non è affatto detto debba venir obbligatoriamente decrittato. Sia come sia riporto quanto visto sullo schermo: Gustavo, Melissa e Michel (sì, un triangolo umano) in una città orientaleggiante (è Il Cairo), succedono cose, parlano persone in inglese, portoghese, arabo, subiamo l’effetto stordente del melting pot di voci e di volti, poi il trio, come in una fiaba di Shahrazād, sale su un tappeto per ritrovarsi separato, ognuno per sé alle prese con il mondo circostante, infine si ricongiungono in un commento off circolare: “ricominciare, per mille volte ancora, ricominciare”.

Da tradizione la gabbia espositiva è quadrata, l’aspetto della pellicola è “rovinato”, qui esclusivamente negli stralci in bianco e nero, perché sì, Triangulum procede per balzi cromatici incrementando il disorientamento, un campo può essere a colori, l’annesso controcampo il suo opposto. In un montaggio bello serrato spesso è complicato identificare i soggetti che si affacciano nella diegesi, chi sta parlando? E che sta dicendo? Meglio non fondersi inutilmente il cervello dietro ai dettagli, piuttosto vale la pena allargare lo sguardo per cogliere la complessità del film, del resto i due registi sono i soliti alchimisti che aprono la scatola-cinema ad immissioni di altre discipline, senza dimenticare (e come sarebbe possibile farlo?) il rifarsi ad un linguaggio visivo che sembra disseminare simboli (la piccola piramide luminosa; la piramide-tenda nel deserto) e al contempo attingere al bacino della realtà, se non della cronaca (la donna al tavolino che parla dell’Iraq; Melissa che distribuisce dei volantini alle passanti). Pretenzioso? Presuntuoso? Altezzoso? Non escludo nulla. Ma esattamente come per In the Traveler’s Heart (2013), alla fine, si sente che il ribollio artistico di Jahn & Dullius non è un vuoto atto d’onanismo.