lunedì 31 agosto 2020

Moskva

D’istinto verrebbe voglia di mandare al diavolo Aleksandr Zeldovich, non tanto per la lunghezza di Moskva (2000) quanto perché all’interno di essa si diffonde inarrestabile un senso di inconcludenza che semina perplessità, troppo vacuo per poter lasciare un segno, strampalato sebbene non abbastanza per poter rendersi memorabile in tale direzione. Le impressioni a caldo prendono questa china e, se ciò ha un valore, anche leggendo due brevi commenti sul sito FilmTV.it (link) gli utenti non le hanno mandate a dire al regista russo: “un film noioso che mi ha comunicato una quasi insopportabile arroganza di pretendere di raccontare una città e Estenuante viaggio spesso di difficile interpretazione (se non altro perché ci si perde fra alcool vario e Storia poco entusiasmante oltre che pesante e lunga)”, difficile essere in disaccordo con le due citazioni se non che durante la visione quel minimo di esperienza cinefila in cui posso dilettarmi ha allertato le percezioni: è tutto vero, Zeldovich ha fatto un film pesante che si fa fatica a seguire visto lo scarso appeal, ma la domanda è: pesante per chi? In sincerità ritengo che la pesantezza in oggetto abbia una cifra differente a seconda del passaporto dello spettatore, la mia supposizione trova una piccola conferma nel pensiero di un altro utente, ’sta volta di IMDb (ri-link), il quale dice che “la maggior parte delle battute e delle situazioni potrebbero non essere capite da un pubblico non russo” e poi “i dialoghi sono brillanti ma non riesco ad immaginare come possano essere tradotti adeguatamente”. Sai che novità, penserete, però tacciare di bruttezza un’opera solo perché non la si comprende mi sembra un atto intellettualmente limitato, ribadisco: Moskva è ostico e nel suo vorticare a vuoto pare prendersi gioco di chi assiste, ma è altrettanto vero che Zeldovich sotto la cortina di nonsense ha delle cose da esprimere anche per noi europei, o forse soprattutto per noi europei.

Il film potrebbe anche essere un bizzarro preludio di Target (2011), il lavoro successivo focalizzato in egual modo su una Russia alle prese con l’alterità geografica circostante (e una miriade di altre robe, Mishen è un complesso massimalista come pochi altri nell’ultimo decennio), poiché Zeldovich, sempre accompagnato dalla penna di Vladimir Sorokin, allestisce a modo suo l’analisi di un Paese in transizione diviso tra il passato ed il futuro, non a caso l’incipit all’interno del club metaforizza la questione con la scelta su cosa la famiglia debba prendere da bere, se una vodka o una Coca-Cola, idem in un divertente regolamento di conti dove il pestaggio di un tizio nel magazzino di un supermercato viene punteggiato dagli stacchi della mdp su prodotti alimentari d’importazione come un panettone milanese. Dato l’anno di produzione è chiaro che nell’intento dell’autore l’idea di tradurre un paesaggio temporale così epocale fosse più di un cruccio, probabilmente una vera necessità in cui riversare lo smarrimento a scalare di una popolazione partendo dalla famiglia (non è proprio chiarissimo ma il nucleo consanguineo pare abbia qualche disfunzione relazionale) passando per la città (che in realtà vediamo solo una volta per bene, quando il socio di Mike porta la sorella inebetita sul battello) e giungendo alla Nazione.

Che ogni aspetto fili liscio non lo si può affermare a cuor leggero, a tratti il comportamento dei personaggi in scena tange l’irritazione al pari della sezione gangsteristica che ci arriva priva di fondamenta, ci sono intrallazzi, mafiosetti, soldi spariti e via dicendo, se sulla carta risulta interessante, assicuro che il correlato dispiegamento filmico così invischiato in una concertazione surreale non lo è affatto. Sorvolando sui suddetti passaggi (che occupano gran parte della pellicola), per dare a Zeldovich i suoi meriti si può dire che il finale possiede un discreto impatto visivo (finanche simbolico forse) che giustamente campeggia sulla locandina, e al coraggioso che mai arriverà fino in fondo chiedo di non fermarsi alla sterile diade noioso/non noioso, il metro di giudizio applicabile sonda altri termini di riferimento che probabilmente non conosciamo, superato lo smarrimento può essere una delle tante occasioni che il cinema russo mette a disposizione: accedere, seppur di sfuggita, nello sconfinato universo di uno Stato così vicino così lontano. Io non la ritengo una sciocchezza.

sabato 29 agosto 2020

DAU. String Theory


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. STRING THEORY

Iniziamo da un ragionamento facile facile: DAU. Teoriya strun (2020) è la matrice di DAU. Nikita Tanya (2020), non siamo in presenza di una “truffa” come per il dittico DegenerationNew Man perché i due episodi sono costituiti da immagini e narrazioni differenti, però è innegabile che String Theory sia l’elemento ispiratore, praticamente la sua controparte, di Nikita Tanya. Il motivo principale è nuovamente la presenza del fisico russo Nikita Nekrasov che, sempre nuovamente, è molto ma molto impegnato nel districarsi tra i tumulti sentimentali in cui predilige cacciarsi, il fatto è che se nell’altro film Nekrasov cercava di far digerire alla moglie la propria poligamia, qui deve fare in sostanza la stessa cosa ma con ognuna delle amanti che nel corso degli anni ha collezionato, infatti questo tassello di DAU copre un notevole arco temporale che, sebbene non esplicitato, va all’incirca dalla vicenda della bella bibliotecaria Katya (è con lei il primo flirt che ha Nikita) di DAU. Katya Tanya (2020) fino agli ultimi giorni dell’Istituto. Un aspetto che sale a galla da subito e che per chi scrive rappresenta una ferita non medicata a sufficienza non solo per l’episodio in esame ma per l’intero progetto, è una tendenza alla ripetizione che appesantisce l’esperienza visiva, e al di là delle ambientazioni, delle impostazioni di scena, dello stile di ripresa, ecc., nello specifico di String Theory abbiamo un’ulteriore ripetizione, ’sta volta interna, che rende l’opera uno schema reiterato dove lo scienziato (tra l’altro, detto in tutta onestà, abbastanza improbabile nei panni di playboy) si interfaccia con le diverse partner femminili senza cambiare atteggiamento di una virgola, ne consegue che i corposi scambi dialogici si ripropongono con interpreti diversi ma identica sostanza, e tutto ciò alla luce del fatto che Khrzhanovskiy aveva già partorito un tassello sorretto dai medesimi intenti (lì è Landau a perorare la causa fedifraga) quale è DAU. Three Days (2020). La riflessione che viene naturale affrontare è se c’è da qualche parte un senso nel sedersi davanti ad uno schermo per quasi tre ore assistendo ad uno spettacolo che è come se fosse già accaduto, diciamo che IK, aiutato alla regia dal debuttante Aleksey Slusarchuk, in fase di scrittura non mi ha convinto affatto, il continuare ad insistere su delle tracce sentimentali sta prosciugando l’interesse verso l’universo-DAU.

Mi si redarguirà in relazione al fatto che il titolo richiama la teoria delle stringhe e che pertanto parrebbe logica la presenza di tematiche maggiormente scientifiche. È vero, non si può negare che le scaramucce amorose di Nikita siano intervallate da parentesi dove abbondano confronti tra i vari studiosi stranieri invitati nell’Istituto (in una delle innumerevoli cene che si susseguono credo di aver individuato il nostro Carlo Rovelli), se ci pensiamo un attimo passaggi del genere sono il vero cuore di DAU perché si attua quel cortocircuito tra realtà e finzione per cui dei veri fisici, matematici e via dicendo (ricompare anche il rabbino in una scena che, se non sbaglio, è stata tagliata e incollata pari pari da Degeneration) agiscono dentro la ricostruzione del film per chi sono davvero anche al di fuori di esso, è un procedimento ludico-teorico molto intrigante che abbiamo imparato ad apprezzare, però in Teoriya strun si spalancano due questioni: la prima è che per comprendere certi argomenti bisogna avere un background accademico di non poco conto, loro parlano di equazioni, scrivono lavagnate di numeri e noi siamo un po’ disorientati davanti ad enciclopedie che non mastichiamo, ma in fin dei conti non metterei la tendenza di inoltrarsi in zone più tecniche nell’elenco delle mancanze, del resto rapportarsi con qualcosa che non si conosce è un primo passo... verso la conoscenza, no, la seconda faccenda che ora si apre è che si avverte l’assenza di un collegamento costruttivo tra l’istanza della scienza e quella dell’amore. La figura di Nikita sarebbe l’ipocentro che le accoglie entrambe, e il suo credere nel multiverso correlato alla possibilità di innamorarsi di più donne contemporaneamente il laccio tra il cuore ed il cervello, tuttavia, quanto io, totalmente avulso alle leggi della fisica, lo sottolineo, ho avvertito è una scollatura, una faglia che non permette ai due crinali di congiungersi.

Realizzo di come puntata dopo puntata io abbia stilato delle conclusioni anche contraddittorie se messe a confronto, me ne scuso ma ogni giudizio è figlio di una visione che si situa in un preciso momento (personale e non), sicché, adesso, quanto sento di esprimere non si discosta troppo dal pensiero finale di Nikita Tanya, ovvero che dopo aver macinato parecchie ore del colosso-DAU si sta palesando una stanchezza dovuta al ripresentarsi di un quadro che per Khrzhanovskiy è diventato una gabbia da dove non riesce (o non vuole) uscire. Una via di fuga a mio modo di vedere esisterebbe, dato che l’impronta estetica abbiamo capito che non cambierà mai, ci sarebbe bisogno di spingere sulla sceneggiatura creando situazioni appetibili, conscio del fatto che comunque il substrato di DAU non è amico dei copioni & affini per via della libertà di improvvisazione messa in pratica dagli attori, non so che pensare per le future parti mancanti. Intanto, nel momento in cui scrivo (09/07/2020) sulla pagina IMDb di Khrzhanovskiy sono comparsi altri tre titoli legati a DAU etichettati come “TV mini-series” previsti per il 2021, ribadisco: non so che pensare.

giovedì 27 agosto 2020

Green Screen Gringo

In pratica Douwe Dijkstra, videoartista olandese classe ’84, utilizza uno green screen, ovvero uno di quei pannelli verdi che permettono di rielaborare immagini e video in fase di post-produzione sostituendo, sovrapponendo, affiancando e così via, per incapsulare la caleidoscopicità di uno stato gigantesco come il Brasile pieno di cose incredibili e di cose incredibilmente ingiuste. Il regista si “limita” a San Paolo ok, ma la metropoli è un po’ sineddoche della nazione per cui nei sedici minuti di Green Screen Gringo (2016) c’è quanto ci si può aspettare di trovare quando si parla della sfaccettata realtà carioca. Forse più che una carrellata socio-esistenziale ciò che emerge è una sequenza di luoghi comuni che non accendono più di tanto l’attenzione, è anche vero però che alla base il titolo indirizzava il corto proprio qui, in un tour visto con gli occhi di uno straniero (il gringo), cosa effettivamente avvenuta visto che Dijkstra ha soggiornato a lungo a San Paolo per portare a termine il proprio lavoro. Quello che viene proposto è un Brasile segnato dall’instabilità politica (si certifica un cambio presidenziale) ma allo stesso tempo vivo e folkloristico (le immagini degli indigeni autoctoni e di un transessuale).

Messa in questo modo il film parrebbe parecchio scarico, e concordo con l’impressione, a dare una leggera spinta ci pensa il sopraccitato impiego dello green screen. Vediamo proprio il telo verde sorretto da mani anonime che si pone sullo sfondo della vita che scorre, lo step successivo per il regista è di mischiare letteralmente la realtà che ha davanti la videocamera con gli inserti virtuali proiettati in chroma key. È un procedimento ludico in cui Dijkstra si diverte a disorientare lo sguardo dello spettatore perché a tratti i contorni della sovrapposizione sono evidenti (si veda quando viene piazzato il trans nel museo) ma in molte altre situazioni le immagini combaciano quasi alla perfezione e se non si sta davvero col muso attaccato allo schermo tutto sembra concretamente nel quadro. Oltre l’aspetto giocoso nell’idea di Dijkstra si legge, forse, anche un tentativo di rendere traboccante la vivacità dell’universo brasiliano, di essere ubiqua, in netta contrapposizione con la cronaca del presente, e non è un caso allora che quando si esplicitano resoconti politici, che siano in una conversazione telefonica o in un video su Youtube, non viene impiegato alcun effetto speciale.

Al netto di un potenziale non del tutto espresso (è l’eterno problema dei cortometraggi, salvo poi rimangiarci tutto quando di un lungo si dice che poteva essere compresso in un minutaggio minore), le collisioni ottiche di Green Screen Gringo risultano perfino piacevoli perché non immediate (guardatelo due volte e ne scoprirete di nuove), resta, ad ogni modo, un oggetto che non spicca e che si volatilizzerà abbastanza in fretta dalla vostra memoria.

martedì 25 agosto 2020

A Espada e a Rosa

João Nicolau, ovvero uno dei tanti professionisti che negli ultimi lustri hanno fatto assurgere il cinema autoriale portoghese ad ipocentro del cinema autoriale europeo. Principalmente montatore, lo è stato per assi come Monteiro e Gomes (senza scordare le reciproche collaborazioni con il nostro Alessandro Comodin che vanno avanti da anni), ma anche attore per piccole parti di alcune produzioni lusitane recenti, oltre che direttore della fotografia e ovviamente regista, Nicolau esordisce nel lungometraggio proprio con A Espada e a Rosa (2010), film presentato a Venezia dalla cospicua durata (quasi due ore e mezza) che ha scoraggiato e scoraggerà chi ha intenzione di avvicinarvisi, del resto qui si ritrovano dei connotati sì e no tipici che certo cinema proveniente dal Portogallo ha proposto dagli anni ’10 in poi (Gomes ma anche molto di Abrantes), solo che, trattandosi di un debutto, è plausibile che il sovraccarico “da esordiente” di tematiche e approcci possa trasformarsi per lo spettatore non avvezzo a manifestazioni di tale portata in una fantasia surreale un po’ confusa e arrovellata su se stessa. Chi scrive ha gradito parecchio la vitalità che serpeggia nella pellicola, basta il divertente siparietto canoro tra Manuel e l’esattore delle tasse a farci comprendere la trasversalità dell’opera che è tutto fuorché mansueta e questo non può che essere un pregio. Nel prosieguo la prismaticità si accentua, dal Kammerspiel casalingo-solitario delle prime battute si passa ad una bizzarra svolta salgariana a bordo di un vascello, difficile, per essere onesti, comprendere l’operazione in toto, il sempre benedetto senso unificante appare come una chimera non facilmente raggiungibile, tuttavia proferisco: amen!, il vibrante pastiche che Nicolau edifica vale più degli eventuali significati in esso contenuto.

Sono fresco della monumentale lettura di Contro il giorno (riedito da Einaudi nel maggio ’20) e pertanto la magmatica penna di Pynchon potrebbe aver influenzato il ragionamento che segue: ci starebbe un parallelo tra i Compari del Caso del romanzo americano e la ciurma che popola la caravella di Nicolau, non mi riferisco tanto a dei fini comuni, anche perché in tutta onestà non ho ben capito cosa faccia l’equipaggio del film oltre a solcare i simbolici mari dell’esistenza, quanto ad una simile realtà finzionalizzata che abitano. Nel senso, entrambi i racconti, seppur con le dovute distinzioni, con modalità variegate trascendono la storia e quindi il tempo, ma anche in merito allo spazio non si scherza, se l’aeronave di Pynchon viaggia sotto la sabbia del deserto, la nave di Nicolau svanisce nel nulla da un fotogramma all’altro. Ciò che voglio rimarcare affiancando Contro il giorno ad un film che è stato realizzato in altri contesti di pensiero riguarda la cifra postmoderna che sostanzia A Espada e a Rosa, è infatti sotto e negli occhi di chiunque lo vedrà che si è al cospetto di un oggetto multidisciplinare il quale si avvale di registri diversi (c’è perfino dello stop-motion o simil tale) per ottenere un’organicità, un’armonia, un’unitarietà a cui affibbiare tutti i sinonimi di “bislacco” che volete. Ecco allora il (forse) tratto addensante: la postmodernità (?). Capisco che può apparire arduo a volte, se fino allo pseudo-ammutinamento l’attenzione è abbastanza viva nonostante il venir chiamati a rispondere di situazioni che spaziano dalla (fanta)scienza (ordunque, che cosa è il Plutex?) alla filosofia o alla cosmologia, il reclutamento (o rapimento?) dei nuovi membri spinge sull’acceleratore della stranezza dipingendo un quadro astratto con tanto di santone (uno... e trino, sarà un caso?) che professa cose non troppo stuzzicanti, però, bypassando le complicazioni nello stringere un feeling con la proiezione, A Espada e a Rosa ritengo possegga un suo valore intrinseco perché è un prodotto di valore, originale, pieno di soluzioni estetiche intriganti e ancora vivo nonostante i dieci anni e passa sul groppone, oltre che uno estrinseco perché è l’alfiere di un movimento che di lì a poco sarebbe definitivamente decollato con Tabu (2012).

domenica 23 agosto 2020

Varesesaare venelased

Interessanti i cambi di marcia di Sulev Keedus che segnano il suo curriculum in modo più che marcato, il rimbalzare da opere smaccatamente di finzione dotate di un substrato onirico-allegorico ad altre di puro documentario è il sintomo di un autore percorso da una vivacità artistica ammirabile, così se nel 2003 girava Somnambulance ecco quattro anni dopo presentarsi con Jonathan Austraaliast (di cui ho una copia ma priva di sottotitoli), stesso procedimento che avverrà con l’accoppiata Letters to Angel (2011) e Varesesaare venelased (2012), insomma dei testacoda di metodo mica da sottovalutare perché nell’ambito documentaristico Keedus pota un po’ tutti i vari accorgimenti della messa in scena per offrire film davvero ridotti all’osso, c’è lui e i soggetti che va a riprendere, praticamente nient’altro. Nel lavoro sotto esame veniamo letteralmente gettati in una zona orientale dell’Estonia al confine con la Russia, più precisamente una lingua di terra detta Kreenholm (Crow Island) all’interno del fiume Narva, un rettangolo di 750 x 250 metri dove sorgeva una delle più grandi fabbriche tessili d’Europa, la Krenholm Manufacturing Company che chiuse nel 2010. Keedus parte proprio da qua: scandisce il tempo narrativo di Varesesaare venelased attraverso la fine dell’attività manifatturiera, ma le mire del regista non si situano tanto nel sottolineare le problematiche relative all’automatica disoccupazione che sta investendo il luogo (il primo dialogo tra la donna anziana e quella più giovane è l’unico che va in tale direzione), quanto nell’infiltrarsi in un tessuto sociale disastrato dall’alcol e dalla droga già da anni.

Sfuggendomi la connessione diretta tra fabbrica-tossicodipendenti (la gioventù del luogo è figlia di immigrati russi a loro volta sfasciati dai vizi?), quanto vediamo è una discesa che, sarà banale dirlo, non sembra avere ritorno, è un’immersione in un nugolo di esseri umani giovani (ssimi in alcuni casi) purtroppo già sdentati, o catatonici o sieropositivi o alcolizzati o autolesionisti o tutte le cose messe insieme. Di derelitti, nel cinema, ne abbiamo visti tanti, di ogni nazione e di ogni categoria, ciò non significa, comunque, che ci si possa assuefare ad uno scempio esistenziale del genere, Keedus sta stretto sui volti dei ragazzi immortalati i quali vomitano davanti alla mdp tante storie di diversa disperazione che si riuniscono in unico canto funereo. Inutile stare a descrivere le vicende di violenza e di dipendenza delle persone nello schermo, siamo in Estonia ma potremmo essere in una favela brasiliana, si tratta, essenzialmente, di cogliere quel disfacimento che oserei definire universale, un fallimento che nel caso locale è dello Stato (è forse anche una critica verso l’URSS?) incapace di dare un aiuto ai cittadini in difficoltà, ma che allargando la visuale si fa di tutti. Sembrerebbe infima retorica e magari lo sarà anche, però nel momento in cui una donna di vent’anni racconta di aver già tentato più volte il suicidio o quando vediamo un suo coetaneo annichilito dalla droga che passa le giornate a bere tè davanti al PC siamo chiamati in causa anche noi in quanto appartenenti alla stessa razza, umana ovviamente. E mi correggo: la discesa ha un possibile ritorno: la bimba del finale che alita sull’obiettivo è un refolo di cambiamento, uno spiffero di futuro.

venerdì 21 agosto 2020

8 balles

Che energia questo cortometraggio del 2014!, disordinato e feroce presenta una storia che si confonde nella mente del soggetto principale a sua volta luogo di proiezione: grande merito all’artista Frank Ternier, nato a Tours nel 1975, per l’allestimento grafico, un patchwork associante differenti tecniche realizzative che ben traducono lo stato febbrile dell’uomo francese protagonista di una vicenda cifrata in un dramma latente, per nulla esposto se non attraverso riusciti flashback di pronunciata violenza e diluito in un’ossessione incalzante, maniacale, quasi compulsiva. 8 balles è una scheggia se non proprio impazzita del panorama animato (perché comunque si immagina che di prodotti così confezionati ce ne siano a iosa), sicuramente ben conficcata nella tenera carne spettatoriale una volta visionata, un oggetto esteticamente proteiforme che ha una natura altrettanto variegata sul versante narrativo poiché la componente affabulatoria si moltiplica nelle voci extra ed intradiegetiche.

Al solito, il fascino esercitato su chi scrive è dato da un mischiare le carte ad oltranza, è, essenzialmente, la complessità di una composizione per nulla certa, ma aperta: il cuore del guardare non è situato nell’effettività degli eventi quanto nella possibilità di ricostruirli da parte nostra e di poter fornire, soprattutto, un grado di significazione che magari non c’entra nulla con le intenzioni del regista di turno ma che in virtù dell’accessibilità sopraccitata si impreziosisce grazie ad un progressivo ventaglio semantico. Io, ad esempio, nel tormento del padre verso il pesce rosso e l’odore di fritto, ci ho visto alla lunga un abisso esistenziale impeciato in una tragedia ancora più grande, quella di un omicidio (della propria figlia) seguito da un suicidio. Supposizioni senza evidenza di riscontro, lasciamo allora che l’epitaffio conclusivo schiuda gli atri titoli di coda: “siamo tutti morti?”

mercoledì 19 agosto 2020

El lugar más pequeño

Se prendiamo in prestito il titolo di un libro di Francesco Pecoraro, El lugar más pequeño (2011) è la vita in tempo di pace, un resoconto che arriva parecchi anni dopo una devastante guerra civile che, come ci avvisa l’alert ad inizio film, dal 1979 al al 1991 ha causato nello stato di El Salvador più di ottantamila morti oltre a migliaia di desaparecidos, e, almeno nella prima parte, la regista Tatiana Huezo Sánchez, avvalendosi delle testimonianze dei sopravvissuti, illustra come il villaggio di Cinquera, ora, sia un villaggio “qualunque” in America centrale con le sue vecchiette che oziano all’ombra, i bambini che corrono per strada e il piccolo tessuto economico locale che funziona. Il procedimento usato dalla Huezo Sánchez è in buona sostanza il medesimo che riproporrà anche nel successivo Tempestad (2016), nuovamente il cinema si fa contenitore di una memoria che in questo caso riguarda una precisa collettività, ed è una memoria da cui non possono che sgocciolare lacrime e sangue, tanto sangue e tanta violenza che fa rima con repressione ma anche con resistenza, perché il documentario in oggetto è un presidio da conservare contro qualunque privazione della libertà altrui, è una storia di perdite, di ingiustizie, di paura e al contempo di tenacia assoluta, miracolosa, di dignità, e si badi che, ovviamente, non vi è la benché minima esibizione/ricostruzione dell’orrore perpetrato verso i dissidenti, ci sono solo le loro voci, spesso fuori campo, eppure la forza immedesimante non viene meno.

Quindi, se trenta, trentacinque minuti sono utili a fornire il quadro storico dei tristi accadimenti, ad un certo punto si decide di alzare il tiro: un cielo nero gonfio di nuvole e la narrazione interna si adombra, di più: si annerisce, entriamo nel dramma, i ricordi degli abitanti di Cinquera si fanno angosciosi, se non disperati, le madri piangono per le figlie brutalmente uccise, e i figli fanno altrettanto per i padri scomparsi da una notte all’altra. Forse durante la visione non si ha il polso della situazione, eppure, dopo, è appagante ammettere che in quei frangenti così evocativi che attraverso un incontro tra immagini e parole raggiungono vette di rara intensità, si realizza l’ammutolente potenza della settima arte che a volte, e El lugar más pequeño è una di quelle volte, si trasforma in un megafono emozionale che trasmette ben oltre il mostrato, e così facendo si divarica al punto di inglobarci rendendo la vicenda di questi salvadoregni scampati al loro Olocausto personale anche un po’ la nostra: dobbiamo fare silenzio, ssshh, siamo in una caverna piena di pipistrelli appollaiati sulle rocce, fa così buio che se ci portiamo le mani davanti agli occhi non riusciamo a vederle, però a differenza degli altri compagni siamo ancora vivi, ssshh...
Il ritorno alla realtà fruitiva è dato dalla cruda messa in sequenza di fotografie in bianco e nero di giovani deceduti durante il lungo conflitto, arrivati qui il film ha detto tutto del proprio passato, dopo c’è un soffio di speranza nelle nascite di un pulcino spelacchiato e di un vitello. Sotto la pioggia scrosciante che lava via l’abominio, la vita continua.
Tatiana Huezo Sánchez è un talento vero.

lunedì 17 agosto 2020

Guest

Guest (2010) è il videodiario tenuto tra settembre ’07 e settembre ’08 da José Luis Guerín durante le varie presentazioni in giro per il mondo del suo film In the City of Sylvia (2007). Il primo passo che dobbiamo fare per provare ad accedere in questo ottimo documentario è di tipo linguistico-semantico, semplicemente: la traduzione italiana del titolo, che di primo acchito sarebbe “ospite”, deve essere intesa come “invitato”, Guerín, al livello più immediato, è un regista chiamato dai diversi Festival di cinema sparsi per il globo a presenziare la proiezione di un suo lavoro, tuttavia, in un’opera che potenzialmente poteva essere impregnata fino al midollo di settima arte, il cinema praticamente non c’è (e c’è, sia chiaro, c’è sempre, ma non sotto forme illustrative), Guerín si sottrae di continuo a tappeti rossi, interviste radiofoniche e quant’altro possa orbitare in una dimensione formale, lui sfugge preferendo la strada, sopratutto le piazze con particolare attenzione ai folli predicatori religiosi, e armato di videocamera intercetta una babele di voci che stordisce: il cammino del regista, segnato solo da un calendario che scandisce il tempo e non da indicazioni che identificano il luogo in cui si trova, inizia e si chiude come un cerchio perfetto a Venezia ma il raggio disegnato è ampio e copre un viaggio che tocca la Colombia, il Cile, il Brasile, Macao, Cuba, il Perù, Gerusalemme e magari altri posti che chi scrive non ha colto, il contatto ravvicinato con gli interlocutori locali ci restituisce degli splendidi ritratti umani che sono dei fiumi in piena, sono loro i veri invitati a partecipare, si aprono a noi, permettono che il cinema converga in loro raccontando un ulteriore film collettivo che amalgama le storie personali (che struggente bellezza tutto il segmento cubano...) alla politica e alla società in un pregevole mix che merita di essere vis(su)to con forte empatia.

È vero, Guest è un documentario, lo è sicuramente più de L’accademia delle muse (2015), ed è altrettanto vero che, come si diceva sopra, Guerín fugge dall’habitat naturale di una pellicola e dalle chiacchiere che è d’uso fare su di essa, eppure non ce la fa completamente ad isolarsi, a farsi occhio-che-riprende e basta, anche laggiù, in Perù se ricordo bene, una donna ad un certo punto gli chiede che differenza ci sia, dopotutto, tra un film e un documentario (la risposta arriverà verso la fine dalla bocca di Chantal Akerman), un’altra, sdraiata in un letto a L’Avana, domanderà che tipo di film fa, e pure in un posto disperso da qualche parte in Israele, tra le macerie di una scuola abbandonata, dei bambini insisteranno a gesti per farsi dire quando potranno vedere quel film che sta girando. La fuga di Guerín, questo consapevole distaccarsi dalla materia teorica, lo porta comunque a doversi confrontare con se stesso, con il suo mestiere e con la percezione che l’altro, ovvero il pubblico, ha di lui. E poi Guest ha delle caratteristiche che alterano lo status documentaristico che gli si attribuisce, sono più che altro accenti, dettagli che però sottolineano l’averci messo mano da parte del regista catalano, in generale aleggiano degli accorgimenti che sembrano arrivare addirittura dal cinema muto o periodi appena successivi (è forse un retaggio di Tren de sombras, 1997), quindi il recinto dell’etichetta è abbastanza traballante e i confini sono così blandi che può finirci dentro un filmato d’archivio in inglese e subito dopo la faccia pigmentata di Jonas Mekas che fa un brindisi [1], ed è proprio al tavolino di quel rumoroso ristorante che, dalle parole del grande lituano, possiamo comprendere il possibile cuore di Guest: “ma io non scelgo. Rispondo al momento. Io reagisco alla vita. Cammino per la strada e decido: ora dovrei filmare. Reagisco a ciò che vedo, non è questione di pensare, niente viene da qui [indica la testa], viene da... è automatico. […] ovviamente anche l’uso del caso è una scelta, tutto è una scelta e tutto, al contempo, non lo è.” 
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[1] Non è da escludere che la conversazione tra Guerín e Mekas sia poi convogliata in Correspondencia Jonas Mekas - J.L. Guerin (2011) perché il leggendario filmmaker deceduto nel 2019 brandisce a sua volta una videocamera puntata sul collega spagnolo.

sabato 15 agosto 2020

iBhokhwe

Pura etnografia per iBhokhwe (2014), ma, purtroppo, non quell’etnografia d’assalto e ruspante che ci si potrebbe auspicare, il taglio fornito da John Trengove è ben ben patinato estromettendo dal principio qualunque coordinata documentaristica e quindi di possibile originarietà. Non che lavorando sulla finzione sia impossibile arrivare in siffatte aree (e qui comunque l’impostazione fittizia è limitata: attori non professionisti, location naturalistica, qualche timido ingresso musicale), soltanto è decisamente più difficile, in particolare quando il contenitore è un cortometraggio. Comunque se il regista sudafricano, che espanderà concettualmente la realtà tribale di The Goat nel film di debutto The Wound (2017), aveva intenzione di illustrare scolasticamente un mondo inarrivabile dall’agiato occidente, l’obiettivo è stato raggiunto e riporto di seguito quanto imparato: una minoranza etnica presente in Sudafrica di nome xhosa pratica ancora l’Ukwaluka, un rituale dove gli adolescenti vengono circoncisi in modo da rimarcare il passaggio verso l’adultità per poi essere lasciati alcuni giorni in una capanna nel deserto in attesa dell’arrivo dei propri famigliari, ecco cosa Trengove voleva mostrarci ed ecco ciò che in buona sostanza mostra.

Del possibile dramma vissuto dal ragazzino abbandonato non c’è traccia, e non poteva esserci con il limitato tempo a disposizione, qualche ripresa ad affetto (lui intabarrato fra le rocce) ed il proseguimento sulla falsariga folkloristica conducono in un finale “a sorpresa” godibile sebbene un po’ epidermico al pari dell’intero impianto proposto. Accenno rapido e limitato alla schietta informazione sull’omosessualità, il cerimoniale servirebbe, tra le altre cose, ad eventualmente estirparla, ma il bambino rivolgendosi al protagonista domanda se verrà il suo fidanzato a prenderlo, oltre non si va. 
Presentato a Berlino ’14.

giovedì 13 agosto 2020

The Icebreaker

 
È un vero peccato che in Rete non vi siano (o perlomeno il sottoscritto non le ha trovate) dichiarazioni di Nikolay Khomeriki a proposito della sua creatura Ledokol (2016), saremmo infatti molto curiosi di sapere perché un regista come lui che fino a quel momento aveva intrapreso una via artistica lontana da certi schemi decida di buttarsi a capofitto nel mainstream confezionando un’opera che potrebbe, o vorrebbe, fare il paio con i disaster-movie statunitensi. Ok, probabilmente non c’è granché di imperscrutabile dietro se non il copioso tintinnare dei rubli confluiti nel conto corrente di Khomeriki (anche se pare che gli incassi complessivi non siano stati esorbitanti), però parliamo di uno che pur avendo un curriculum piuttosto scarno può “vantare” oggettini abbastanza ricercati come Nine Seven Seven (2006) o Tale in the Darkness (2009), oltre che Heart’s Boomerang (2011, non visto ma dalle immagini non sembra una pellicola da multisala) e una partecipazione attoriale in uno dei film più weird visti negli ultimi anni: Rita’s Last Fairy Tale (2012), ma niente, è evidente che Khomeriki non ha voluto interpellare la sua coscienza autoriale una volta accettato il progetto, sicché il risultato finale, un blockbuster russo ma pur sempre un blockbuster, non potrà mai trovare il vostro apprezzamento se voi avete una coscienza spettatoriale che, al contrario dell’esimio Nikolay, è opportuno chiamiate in causa di fronte a torture cinesi spacciate per cinema.

Che cosa The Icebreaker si prenda la briga di raccontare è una storia tratta da fatti realmente accaduti nel 1985 (fa sempre ridere questa espressione sottolineata anche sulla locandina, come se finzionalizzare la realtà sia un marchio di garanzia, cosa che invece è l’esatto opposto) quando una nave rompighiaccio sovietica rimase intrappolata tra i ghiacci del Polo Sud. Khomeriki decide di partire in quarta spettacolarizzando subito l’impatto tra l’imbarcazione ed un gigantesco iceberg, l’uso di computer grafica è massiccio e forse nemmeno di livello eccelso (dei dubbi sull’effettiva consistenza del bestione glaciale rimangono), a controbattere c’è una certa fluidità presente anche durante i momenti più concitati (il finale sull’elicottero) che attesta un tasso di professionalità nella media. Oltre al mero impatto effettistico è però il comparto narrativo che proprio non lega con chi guarda, essere testimoni delle manfrine politiche dietro la vicenda del prolungato incagliamento è un’esperienza tutt’altro che esaltante al pari dei tenui sviluppi relazionali all’interno dell’equipaggio. Inutile farla troppo lunga: in prodotti del genere, e non è tanto importante quale sia la loro bandiera di appartenenza, manca un’anima, un cuore, un centro irradiante, la scrittura, elemento basilare per questo cinema, è guidata da un pilota automatico che imposta sia il procedere tramico che gli interpreti in gioco su binari di cui si conosce a monte la destinazione.

È probabile che non essendo figlio dell’universo russo io possa aver mancato dei riferimenti storici (siamo alle soglie della perestrojka, ce lo rammenta il faccione di Gorbačëv sul quotidiano sfogliato da un marinaio), tanto che in una recensione (link) viene avanzata l’ipotesi che i due capitani, ovvero le principali figure del film a cui vengono appioppate le correlate, e inessenziali, derive sentimentali, rappresentino il conflitto all’interno del Partito Comunista all’epoca del tramonto dell’URSS, c’è poi un dato nostalgico (cfr. di nuovo il commento succitato) che pervade sotto varie forme il girato, parliamo di inezie come la presenza del cubo di Rubik che ha forse un certo ruolo simbolico (perché il giovane comandante va a recuperarlo nella neve?), i maglioni vintage indossati dalla ciurma o la parentesi di battaglia navale d’antan. Il perché di questo sguardo rivolto al passato (che il regista aveva già proposto con ben altri risultati in Nine Seven Seven) onestamente sfugge, o comunque si appiattisce, al pari dell’eventuale sottotesto storico, in un involucro piallato dai dogmi commerciali. Spero ad ogni modo che Khomeriki continui così, lui diventerà più ricco e io potrò depennarlo dalla lista per fare spazio ad altri suoi colleghi più meritevoli d’attenzione.

martedì 11 agosto 2020

DAU. Nikita Tanya


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica
Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. NIKITA TANYA
 
È abbastanza intrigante avere la possibilità, all’interno di un progetto così smisurato quale è DAU, di esplorare le linee narrative proprie di un personaggio che popola l’Istituto, o almeno lo è sulla carta. Per DAU. Nikita Tanya (2020) l’occhio di bue si stringe su Nikita Nekrasov, un fisico russo che nella vita oltre DAU è un’eminenza nel campo della teoria delle stringhe nonché insegnante in una università di New York, e sua moglie Tatiana Pyatina (vera consorte e forse anche collega) che qui diventa Tanya, da non confondere con l’omonima di DAU. Katya Tanya (2020), il quadretto famigliare è poi completato dai due figlioletti, anch’essi realmente sangue del sangue di Nekrasov. Una tendenza emersa dall’avvicendarsi dei vari episodi riguarda il fatto che, quando la durata si aggira intorno ai novanta minuti, il film si occupa tendenzialmente di legami affettivi e/o relazioni interpersonali tra coniugi o amanti, aspetti che, prima di mettere gli occhi sul lavoro di Ilya Khrzhanovskiy, non ci si aspettava avessero una posizione così preponderante, allo stesso tempo va rimarcato che questi tasselli di stampo per così dire sentimentale sono tutti codiretti da Jekaterina Oertel, la make-up artist convertita in regista durante l’impegnativa fase di assemblaggio delle settecento ore di girato avvenuta a Londra. Quindi, se finora siete stati dei fedeli discepoli della divinità-DAU, potrete immaginare che Nikita Tanya non aggiunge granché alla prospettiva fin qui tratteggiata da Khrzhanovskiy, tanto che, se parlassimo di una serie tv, non sarebbe una bestemmia catalogarlo come filler, un riempitivo generato dai si presume innumerevoli taglia e cuci operati dai due autori, oltre che puntuale contraltare del più lungo DAU. String Theory (2020) sempre con Nekrasov come perno della storia.

Dicevo dell’interesse teorico nell’assistere all’approfondimento di uno dei vari protagonisti che abitano DAU, per chi scrive in Nikita Tanya di tale interesse pre-visione non vi è poi un riscontro effettivo. Succede che, purtroppo, si fa largo uno schema di ripetizione già utilizzato nel dittico DAU. Nora Mother (2020) e in DAU. Three Days (2020), se ci pensiamo un attimo l’impostazione e lo svolgimento sono praticamente uguali al segmento sotto esame: la narrazione mette in contrapposizione due “squadre”, quella dei grandi scienziati e quella delle mogli che vivono al loro fianco, in entrambi i casi Landau e Nikita (tra l’altro l’appartamento di quest’ultimo è lo stesso di Dau, si noti la scultura del cavallo nella sala da pranzo) si arrogano il diritto di imporre il proprio volere libertino dentro la coppia, non ho idea se il pretendere l’accettazione di una poligamia abbia radici storiche, se sia una metafora politica del socialismo occludente o se vi siano dei collegamenti concreti con le teorie scientifiche studiate (a leggere le sinossi sul sito ufficiale parrebbe di sì), però quello a cui assistiamo è un duplice teatrino tutto maschile dove le donne, depositarie di un amore che ancora non è stinto, un po’ incassano, un po’ reagiscono, ma comunque alla fine l’integrità relazionale si incrina non poco, Landau scappa, Nikita, complice una Tanya meno battagliera di Nora, gongola leggermente ma l’ultimo abbraccio sulle scale, un’immagine che sa dirci qualcosa, forse l’unica, è gelo cristallino. Con il solito approccio Khrzhanovskiy costruisce le personalità dei due coniugi attraverso i risaputi dialoghi-fiume, nulla da obiettare sul grado di realtà che esprimono però, accidenti, le conversazioni tra Nikita e Tanya non sono interessanti, e questo è un problema. Pur comprendendo l’afflato concettuale di inscenare il vuoto interno di una moglie che si trova davanti un marito intenzionato ad aprire il suo cuore anche ad altre donne, nella susseguente esposizione non riesco a trovar elementi capaci di scuotermi davvero, né sul piano emotivo né su quello realizzativo.

A ’sto punto urge una riflessione: per DAU. Natasha (2020) sostenevo che non si poteva formulare un giudizio senza considerare la ciclopica idea che gli stava dietro, bene, adesso che i vari tasselli di questa idea si stanno palesando e il disegno si sta facendo più chiaro l’impressione è che si siano voluti creare più puntate di quante ce n’era bisogno perché alla lunga si avverte della reiterazione data da un set ogni volta identico al pari di un impianto tecnico e di una caratterizzazione delle componenti attoriali. A tal proposito ritengo che il commento di un utente su Letterboxd centri in pieno il bersaglio, lo riporto integralmente perché corrisponde in toto, ad oggi, al mio pensiero:

I’m not sure if these are getting worse or if I’m just getting tired of this project. Maybe a little of both. Things feel too familiar and the Institute is starting to feel smaller, the scope less epic, the characters more alike.
And then there’s also the element of length. These “short” 90 minute episodes so far have been the least successful. They feel shallow and largely empty because the way this project is handled means you need time to get to familiar. I’m starting to think that none of these will come close to Degeneration. And maybe he should have left it at that.

domenica 9 agosto 2020

Permanências

Chissà dove ci troviamo in Permanências (2011), probabilmente in una città della regione natia di Ricardo Alves Jr., Minas Gerais, ma potenzialmente potremmo esse ovunque: a Napoli, a San Pietroburgo, a Buenos Aires, questo perché lo spazio fisico catturato dal giovane regista brasiliano è uno spazio senza connotati geografici a parte l’idioma portoghese biascicato dalle persone in cui il cinema, per una mezz’oretta, diventa la loro vita poiché è la vita di essi, noiosa, vuota, triste, irriferibile davanti alla camera che diventa cinema. Ma, come si usa dire, a volte le parole non servono e quello che si legge negli occhi lucidi di un primo piano, nei tiri di una sigaretta di fronte ad uno spiraglio al di là del cemento o banalmente in un muro scrostato o in una vecchia foto incartapecorita su uno scaffale, è sufficiente a colmare una stasi che si prolunga di quadro in quadro, un’inazione dove non accade niente se non il fluire monotono dell’esistenza. I lacerti che compongono Permanências si riconducono, tutti, ad un’impressione generale di profonda desolazione, è una rassegna di derelitti che con invidiabile naturalezza si cala nella faglia del reale tra l’emarginazione di Pedro Costa ed il grigiore urbano di João Salaviza ma con una cifra contemplativa spiccatamente personale.

Il corto successivo, Tremor (2013), sarà forse un oggetto più raffinato rispetto a quello sotto esame, il quale, comunque, tramite la sua messa in sequenza di piani esclusivamente fissi racchiusi tra due esibizioni al piano (quella d’apertura è più dolce e melodica, la chiusura è invece più synthetica e nervosa), opera con discreta efficacia nel campo dell’avvertibile, in un certo senso è quasi bello accedere in mondi del genere (accedere è un’esagerazione, carpiamo, intuiamo, intravediamo) pur avendo pochissimi elementi a disposizione. Un cinema che gira al minimo e che è ridotto all’osso in ogni componente si dimostra comunque fertile, avvolto da una ricchezza invisibile ai più, trapelante di emozioni e sentimenti sebbene pathos ed eros a prima vista non trovino asilo al suo interno, ma la “prima vista” è spesso fallace: “ho avuto poche relazioni. Ero disoccupato a quel tempo e pensavo: non le farò sprecare il suo tempo, lei può fare meglio, non le farò sprecare il suo tempo. Così l’ho mollata senza dirle il perché. È solo che ero disoccupato, così ho rotto.”

venerdì 7 agosto 2020

Oblivion Verses

Prima di ogni possibile riflessione, trovo intrigante il ponte geografico eretto da Alireza Khatami che collega due realtà diverse per quanto riguarda la loro collocazione sulla cartina, ma che, come il regista spiega tra le righe, hanno un denominatore in comune che le unisce in modo fattuale, ne consegue allora che il link non si rifà solo alla geografia, c’è di più, c’è la Storia, una politica, un’umanità, la Morte e la dirimpettaia di sempre. Abbiamo sullo schermo un luogo indefinito, che è in Sud America (Cile? Argentina?) come potrebbe essere in un ovunque dove il potere coincide con la sopraffazione militare, ergo: ecco profilarsi l’Iran del regista, così, la vicenda effigiata in un formato dagli angoli arrotondati, diventa una pagina aperta in cui si può leggere un piccolo grande racconto universale nel quale le componenti sono potenzialmente intercambiabili con altre diverse e, ovviamente, uguali. So cosa starete malignamente pensando, “oh no, Los Versos del Olvido (2017) è l’ennesimo film che vuole stigmatizzare i carnefici e santificare le vittime”, però per il sottoscritto le cose non sono propriamente tali, l’opera non è il protocollo di un’agiografia degli innocenti, diciamo che Khatami inquadra la situazione con garbo e con un certo tatto in maniera da dribblare facili dicotomie, sicché una volta piantati gli assunti su un territorio realistico l’opera si ingemma attraverso svolte immaginifiche che proiettano il protagonista e gli altri compari in una dimensione che galleggia sull’inverosimile, ciò crea un’opposizione tra concretezza e astrazione che, pur passando in sordina durante la visione, si staglia come un notevole punto di forza della pellicola.

Khatami non inventa nulla perché l’America Latina è da almeno mezzo secolo che sia in campo letterario che, più recentemente, in quello cinematografico (di esempi, anche in questo blog, ce ne sono davvero tanti) ha dato vita ad indimenticabili manufatti dove la surrealtà ha pian piano invaso la grettezza del tangibile, si può affermare allora che il debuttante autore iraniano si sia ben adattato al mood locale poiché nel film è piuttosto facile imbattersi in momenti alquanto ispirati. Alla base si rintraccia una metafora-persona (il custode) leggibile come grande memoria collettiva, la Memoria del Paese se vogliamo, che, vessata dalle milizie (bella la scena dell’irruzione celata dal vetro zigrinato), deve subire l’onta della violenza e dell’imposizione, a cascata fioriscono intorno all’anziano signore eventi che probabilmente si fanno simbolo di ben più densi significati, è il caso delle balene che forse sono un po’ la traslazione animale dei desaparecidos, non stupisce dunque l’orecchino della ragazza che ha la forma del cetaceo al pari del disegno che campeggia sulla casa della madre in cerca della figlia, se starete di nuovo perfidamente pensando “oh no, un’altra ostentazione di tronfie allegorie”, be’, ci andrei cauto perché Oblivion Verses possiede un dignitoso equilibrio pur proponendo parallelismi abbastanza lampanti, e poi quando si prende delle licenze poetiche lo fa con classe, si veda, e si ri-veda, la resurrezione del custode che è una scena a dir poco encomiabile (chi comanda vuole dimenticare [/murare], chi resiste deve ricordare), o l’istantanea in b/n dello specchietto retrovisore che non riesco a capire a fondo ma che comunque mi ha affascinato. Per concludere: un film che mantiene una condotta lontana dall’enfasi, composto nel dispiegarsi e rispettoso nell’approcciare un tema delicato, ma dotato di pennellate ravvivanti che intiepidiranno il vostro cuore spettatoriale.
Presentato a Venezia ’74 nella sezione orizzonti dove ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura.

mercoledì 5 agosto 2020

Demning

Da Kano (2011), che forse giudicai in maniera troppo superficiale, a Demning (2015) il passo è stato breve: Paul Tunge mette nuovamente al centro della scena una crisi di coppia, ma rispetto al film precedente che verso il finale si prendeva delle licenze che sbalestravano la traccia principale, qui la questione è molto più circoscritta e protesa verso l’obiettivo, non nitida né immediata, quello no, però bilanciata nella sua costruzione e nel suo sviluppo. La storia, a cui viene sottratto qualunque orpello possibile, vede due ragazzi che decidono di fare un’escursione in montagna, la quantità di informazioni che Tunge somministra è ridotta al minimo: pare che la coppia si conosca da pochissimo, uno sembra più virile e aggressivo, l’altro mite e riflessivo, camminano nella natura, si abbandonano ad immersioni lacustri, ogni tanto effettuano delle attività in cui emergono i tratti caratteriali appena citati, come se uno allenasse/spronasse l’altro. Non è la prima volta che il cinema si occupa di un’estromissione dalla città per scrutare l’uomo in un ambiente primigenio, ricordo le affinità rintracciabili con The Loneliest Planet (2011), Old Joy (2006) e Out of Nature (2014, dove Tunge ricopriva il ruolo di assistente alla regia), Demning ha in comune con queste proposte la concettualità del viaggio che ovviamente non è tanto fisico quanto interiore, ritengo che sia questa la chiave di accesso per comprendere (e perché no anche apprezzare) il lavoro del regista norvegese, perché altrimenti, ad una lettura epidermica, resterebbero soltanto delle bolse scaramucce tra due ragazzetti che si credono ancora boy scout.

Ed il viaggio personale di cui parliamo non può che essere un viaggio sentimentale. Lo è per i due protagonisti di cui pian piano scopriamo qualcosa delle loro vite e delle loro emozioni, sia del passato che del presente, ma lo è anche, e se vogliamo credere nel film è il momento di farlo qua, accogliendo ciò che sto per affermare, in caso contrario Demning risulterà uno dei tanti onanismi autoriali che popolano la scena mondiale, dicevo: lo è anche per tutti gli altri, innamorati e disinnamorati, in uno slancio che si fa universale. Perché la vicenda sullo schermo, un amorazzo scandinavo che ha bruciato la passione nel giro di qualche notte, è la metaforizzazione di una qualsiasi storia d’amore con i suoi step definiti a partire dall’inizio quando l’altro subisce il processo di idealizzazione e diventa ciò che si vuole diventi e non ciò che in realtà è (scena nel tunnel con l’attribuzione reciproca di qualità che nessuno dei due conosce per davvero), e poi si prosegue con dei “normali” eventi di criticità che crepano il rapporto fino a provocare una ferita incurabile, e Tunge è bravo nel dosare gli elementi di rottura, mai esplicito, si colgono più che altro gli effetti: l’insofferenza che si traduce in masturbazione solitaria, l’invasione della privacy con la lettura del diario. Tutto ciò è la deduzione di un impianto antiletterale che vive in una dimensione sospesa, quasi onirica (del resto Tunge è un gran tessitore di atmosfere, si veda il successivo Ad Astra, 2016), dove ralenti da videoclip e sequenze contemplative dettano un ritmo alieno e disorientante, eppure, se lo si vuole, è appagante estrapolare un senso d’insieme unificante, oltre la materia trattata la congiunzione è anche nello spettatore che rivive quel freddo risveglio slavato dove lui o lei non sono chi avevamo pensato e sperato fossero, e allora la percezione muta e una vetta si profila, di rabbia, gestita abilmente dal regista che sfasa l’ordine temporale ricollegandosi al primo fotogramma, ma con quel consapevole amaro in bocca di una separazione.

lunedì 3 agosto 2020

Commodity City

Breve tour virtuale nell’Yiwu Market, uno dei più grandi mercati all’ingrosso del mondo, che si trova in Cina a Yiwu, una città situata a sud di Shanghai che supera il milione di abitanti.

La struttura di Commodity City (2017) è semplice, Jessica Kingdon, regista americana che ha iniziato la sua carriera come executive producer del pessimo Mea Maxima Culpa (2012), mette in sequenza una serie di quadri fissi dove abbiamo sempre due elementi costanti: i venditori ed i prodotti. Quest’ultimi sono oggetti di scarso valore (fiori finti, penne, orologi di plastica, semi di girasole, led, Barbie taroccate, e un sacco di altra roba) ma che hanno mercato perché sono quelli che poi vengono rivenduti nei dollar store di tutto il mondo, compresa, ovviamente, l’Italia. È indubbio che l’attenzione della Kingdon è rivolta alle persone che lavorano nei loro box stracolmi di merce, in tale ottica il corto riesce ad avere anche una sua estetica visto che nel caos ordinato (perdonatemi, dopo “silenzio assordante” è il peggior ossimoro della nostra lingua) emerge una strana geometria fatta di colori e linee che non dispiacerebbe al Wes Anderson di turno, è chiaro però che in uno spazio di dieci minuti non c’era la possibilità di un approfondimento umano (cosa che invece si sarebbe potuta fare, un Geyrhalter qualunque avrebbe portato a casa almeno i canonici novanta minuti), di sicuro però i commercianti che vediamo, anche se annoiati, sonnacchiosi o impegnati a stare dietro ai figli che si sono portati appresso, sanno fare il proprio mestiere e nonostante ci sembrino così lontani è plausibile che tutti noi abbiamo in casa degli oggetti che provengono esattamente da là.

La connessione tra Est ed Ovest che viaggia su una Via della seta diventata mondiale è il tema più interessante di un lavoro che non ha assi nella manica. Tuttavia osservando i negozi traboccanti di articoli sarà facile, per chi è stato in Asia, soprattutto nel sud-est asiatico, fare un parallelo anche con le vendite al dettaglio, in quei luoghi ci sono esercizi (di qualunque natura: dall’abbigliamento agli alimentari) così pieni di ciò che vogliono vendere da chiedersi se ci sia davvero una domanda per l’offerta che propongono. Banchetti all’angolo della strada che friggono e cuociono non si sa per chi, bugigattoli imbottiti di carabattole che non comprerebbe nessuno, banchi dove si stratificano maglie e magliette che per cercare una taglia bisogna chiamare uno speleologo. Eppure nell’immenso ricircolo dell’economia anche loro hanno una parte, proprio come i colleghi che esportano oltre i confini nazionali, la globalizzazione ha molte facce, Commodity City ce ne fa vedere una e ricordare un’altra che forse non rientra nemmeno nella categoria ma che per associazione quasi nostalgica di chi ha vissuto e sentito gli odori di quei posti, la confusione, la pioggia, lo smog ed il caldo tropicale viene a galla. Che meraviglia l’Oriente.

sabato 1 agosto 2020

L'accademia delle muse

José Luis Guerín, fine cineasta spagnolo che avevamo incrociato tempo fa con In the City of Sylvia (2007), ci avverte fin dall’inizio che La academia de las musas (2015) è un’esperienza pedagogica che vivremo al fianco di Raffaele Pinto, professore partenopeo di filologia all’università di Barcellona, e vorrei subito sottolineare l’impressione che si lega “al fianco”, Guerín infatti utilizza degli accorgimenti che ci avvicinano al docente e ai discenti che interagiscono con lui o tra di loro, gli stacchi in nero così brevi da sembrare un battito di ciglia e le numerose riprese che pongono lo spettatore al di qua del vetro (di una casa, di una macchina, di un bar) trasmettono una taciuta contingenza con i soggetti sullo schermo, ciò è un primo indizio che suggerisce di quanto l’impronta documentaristica abbia contorni tutt’altro che delineabili, io stesso sono rimasto leggermente spiazzato con l’avanzare della proiezione, se inizialmente l’idea di Guerín e Pinto mi era sembrata un tipico caso di sbrodolamento accademico dove involontariamente si evidenziava come il mondo universitario, a volte, sia totalmente alieno alle problematiche che stanno fuori dalla sua porta, con lo svilupparsi dell’opera si acquistano centimetri di vero spessore concettuale coadiuvati da una manipolazione finzionale che arricchisce non di poco il discorso globale.

La scelta è dunque quella di seguire un corso tenuto da Pinto in cui ci si confronta sulla figura della Musa nella letteratura classica, a rimorchio si introducono una serie di questioni esistenziali che si riflettono nel vissuto degli alunni, nelle loro relazioni (anche platoniche) e nei loro desideri, il sottoscritto ritiene che se il film si fosse fermato a questo step sarebbe risultato troppo freddo, troppo didattico, paradossalmente la costruzione che si apporta (laddove solitamente il “costruire” è un’azione che rigetto) è linfa vitale per implementare il pensiero dell’autore, e proprio di assemblamento si tratta, o meglio: di un’intelligente intreccio che si rifà al manuale del melò con blocchi cadenzati ma mimetizzati nel filosofeggiamento generale, abbiamo le porzioni domestiche con la moglie che non guarda mai in faccia il marito e che funge da polo negativo alla sua coscienza formativa e abbiamo situazioni in cui il professore stesso è colto in frangenti che indicano più di quanto mostrano (gli incontri in automobile o il dialogo in casa dell’alunna appena uscita dalla doccia...).

La traccia sentimentale o pseudo-tale che così si dipana non è un banale orpello ravvivante, al contrario risulta una parte realmente integrante dell’impianto teorico di cui diventa, in sostanza, la sua trasposizione empirica. Il film è uno specchio che discetta di amore e poesia (e del primo nei riguardi della seconda, ovviamente) applicando schemi (ci sarà sempre una componente di gelosia) e inevitabili variabili alla concretezza (che non sarà tale ma che comunque accettiamo) dell’esistenza. Sicché Pinto che ragiona su Dante e Beatrice diviene a sua volta un poeta in cerca della somma ispirazione muliebre, ma il gioco (che non è un gioco) delle emozioni, di ciò che si prova, di ciò che si sente, è un complesso ginepraio da dove non è facile uscire. Si parla di desiderio, possessione e passione partendo da un’ideale, da una cattedra se vogliamo mettere la cosa in modo asettico, e si trasla ciò nelle connettività umane del contemporaneo implicando nella ragnatela emotiva proprio i protagonisti delle lezioni, sempre con garbo e senza particolari esplicitazioni (nemmeno il finale cesellato ad arte dice una parola di più, la moglie sa chi è l’amante, noi no). Un film elegante nonostante non brilli per la forma e davvero fertile nel proprio nucleo intellettuale.