Guest
(2010) è il videodiario tenuto tra settembre ’07 e settembre ’08
da José Luis Guerín durante le varie presentazioni in giro per il
mondo del suo film In the City of Sylvia
(2007). Il primo passo che dobbiamo fare per provare ad accedere in
questo ottimo documentario è di tipo linguistico-semantico,
semplicemente: la traduzione italiana del titolo, che di primo
acchito sarebbe “ospite”, deve essere intesa come “invitato”,
Guerín, al livello più immediato, è un regista chiamato dai
diversi Festival di cinema sparsi per il globo a presenziare la
proiezione di un suo lavoro, tuttavia, in un’opera che
potenzialmente poteva essere impregnata fino al midollo di settima
arte, il cinema praticamente non c’è (e c’è, sia chiaro, c’è
sempre, ma non sotto forme illustrative), Guerín si sottrae di
continuo a tappeti rossi, interviste radiofoniche e quant’altro
possa orbitare in una dimensione formale, lui sfugge preferendo la
strada, sopratutto le piazze con particolare attenzione ai folli
predicatori religiosi, e armato di videocamera intercetta una babele
di voci che stordisce: il cammino del regista, segnato solo da un
calendario che scandisce il tempo e non da indicazioni che
identificano il luogo in cui si trova, inizia e si chiude come un
cerchio perfetto a Venezia ma il raggio disegnato è ampio e copre un
viaggio che tocca la Colombia, il Cile, il Brasile, Macao, Cuba, il
Perù, Gerusalemme e magari altri posti che chi scrive non ha colto,
il contatto ravvicinato con gli interlocutori locali ci restituisce
degli splendidi ritratti umani che sono dei fiumi in piena, sono loro
i veri invitati a
partecipare, si aprono a noi, permettono che il cinema converga in
loro raccontando un ulteriore film collettivo che amalgama le storie
personali (che struggente bellezza tutto il segmento cubano...) alla
politica e alla società in un pregevole mix che merita di essere
vis(su)to con forte empatia.
È
vero, Guest è un
documentario, lo è sicuramente più de L’accademia
delle muse
(2015), ed è altrettanto vero che, come si diceva sopra, Guerín
fugge dall’habitat naturale di una pellicola e dalle chiacchiere
che è d’uso fare su di essa, eppure non ce la fa completamente ad
isolarsi, a farsi occhio-che-riprende e basta, anche laggiù, in Perù
se ricordo bene, una donna ad un certo punto gli chiede che
differenza ci sia, dopotutto, tra un film e un documentario (la
risposta arriverà verso la fine dalla bocca di Chantal Akerman),
un’altra, sdraiata in un letto a L’Avana, domanderà che tipo di
film fa, e pure in un posto disperso da qualche parte in Israele, tra
le macerie di una scuola abbandonata, dei bambini insisteranno a
gesti per farsi dire quando potranno vedere quel film che sta
girando. La fuga di Guerín, questo consapevole distaccarsi dalla
materia teorica, lo porta comunque a doversi confrontare con se
stesso, con il suo mestiere e con la percezione che l’altro, ovvero
il pubblico, ha di lui. E poi Guest
ha
delle caratteristiche che alterano lo status documentaristico che gli
si attribuisce, sono più che altro accenti, dettagli che però
sottolineano l’averci messo mano da parte del regista catalano, in
generale aleggiano degli accorgimenti che sembrano arrivare
addirittura dal cinema muto o periodi appena successivi (è forse un
retaggio di Tren de sombras,
1997), quindi il recinto dell’etichetta è abbastanza traballante e
i confini sono così blandi che può finirci dentro un filmato
d’archivio in inglese e subito dopo la faccia pigmentata di Jonas
Mekas che fa un brindisi [1], ed è proprio al tavolino di quel
rumoroso ristorante che, dalle parole del grande lituano, possiamo
comprendere il possibile cuore di Guest:
“ma io non scelgo. Rispondo al momento. Io reagisco alla vita.
Cammino per la strada e decido: ora dovrei filmare. Reagisco a ciò
che vedo, non è questione di pensare, niente viene da qui [indica la
testa], viene da... è automatico. […] ovviamente anche l’uso del
caso è una scelta, tutto è una scelta e tutto, al contempo, non lo
è.”
______________________
[1]
Non è da escludere che la conversazione tra Guerín e Mekas sia poi
convogliata in Correspondencia
Jonas Mekas - J.L. Guerin
(2011) perché il leggendario filmmaker deceduto nel 2019 brandisce a
sua volta una videocamera puntata sul collega spagnolo.
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