lunedì 17 agosto 2020

Guest

Guest (2010) è il videodiario tenuto tra settembre ’07 e settembre ’08 da José Luis Guerín durante le varie presentazioni in giro per il mondo del suo film In the City of Sylvia (2007). Il primo passo che dobbiamo fare per provare ad accedere in questo ottimo documentario è di tipo linguistico-semantico, semplicemente: la traduzione italiana del titolo, che di primo acchito sarebbe “ospite”, deve essere intesa come “invitato”, Guerín, al livello più immediato, è un regista chiamato dai diversi Festival di cinema sparsi per il globo a presenziare la proiezione di un suo lavoro, tuttavia, in un’opera che potenzialmente poteva essere impregnata fino al midollo di settima arte, il cinema praticamente non c’è (e c’è, sia chiaro, c’è sempre, ma non sotto forme illustrative), Guerín si sottrae di continuo a tappeti rossi, interviste radiofoniche e quant’altro possa orbitare in una dimensione formale, lui sfugge preferendo la strada, sopratutto le piazze con particolare attenzione ai folli predicatori religiosi, e armato di videocamera intercetta una babele di voci che stordisce: il cammino del regista, segnato solo da un calendario che scandisce il tempo e non da indicazioni che identificano il luogo in cui si trova, inizia e si chiude come un cerchio perfetto a Venezia ma il raggio disegnato è ampio e copre un viaggio che tocca la Colombia, il Cile, il Brasile, Macao, Cuba, il Perù, Gerusalemme e magari altri posti che chi scrive non ha colto, il contatto ravvicinato con gli interlocutori locali ci restituisce degli splendidi ritratti umani che sono dei fiumi in piena, sono loro i veri invitati a partecipare, si aprono a noi, permettono che il cinema converga in loro raccontando un ulteriore film collettivo che amalgama le storie personali (che struggente bellezza tutto il segmento cubano...) alla politica e alla società in un pregevole mix che merita di essere vis(su)to con forte empatia.

È vero, Guest è un documentario, lo è sicuramente più de L’accademia delle muse (2015), ed è altrettanto vero che, come si diceva sopra, Guerín fugge dall’habitat naturale di una pellicola e dalle chiacchiere che è d’uso fare su di essa, eppure non ce la fa completamente ad isolarsi, a farsi occhio-che-riprende e basta, anche laggiù, in Perù se ricordo bene, una donna ad un certo punto gli chiede che differenza ci sia, dopotutto, tra un film e un documentario (la risposta arriverà verso la fine dalla bocca di Chantal Akerman), un’altra, sdraiata in un letto a L’Avana, domanderà che tipo di film fa, e pure in un posto disperso da qualche parte in Israele, tra le macerie di una scuola abbandonata, dei bambini insisteranno a gesti per farsi dire quando potranno vedere quel film che sta girando. La fuga di Guerín, questo consapevole distaccarsi dalla materia teorica, lo porta comunque a doversi confrontare con se stesso, con il suo mestiere e con la percezione che l’altro, ovvero il pubblico, ha di lui. E poi Guest ha delle caratteristiche che alterano lo status documentaristico che gli si attribuisce, sono più che altro accenti, dettagli che però sottolineano l’averci messo mano da parte del regista catalano, in generale aleggiano degli accorgimenti che sembrano arrivare addirittura dal cinema muto o periodi appena successivi (è forse un retaggio di Tren de sombras, 1997), quindi il recinto dell’etichetta è abbastanza traballante e i confini sono così blandi che può finirci dentro un filmato d’archivio in inglese e subito dopo la faccia pigmentata di Jonas Mekas che fa un brindisi [1], ed è proprio al tavolino di quel rumoroso ristorante che, dalle parole del grande lituano, possiamo comprendere il possibile cuore di Guest: “ma io non scelgo. Rispondo al momento. Io reagisco alla vita. Cammino per la strada e decido: ora dovrei filmare. Reagisco a ciò che vedo, non è questione di pensare, niente viene da qui [indica la testa], viene da... è automatico. […] ovviamente anche l’uso del caso è una scelta, tutto è una scelta e tutto, al contempo, non lo è.” 
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[1] Non è da escludere che la conversazione tra Guerín e Mekas sia poi convogliata in Correspondencia Jonas Mekas - J.L. Guerin (2011) perché il leggendario filmmaker deceduto nel 2019 brandisce a sua volta una videocamera puntata sul collega spagnolo.

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