domenica 23 agosto 2020

Varesesaare venelased

Interessanti i cambi di marcia di Sulev Keedus che segnano il suo curriculum in modo più che marcato, il rimbalzare da opere smaccatamente di finzione dotate di un substrato onirico-allegorico ad altre di puro documentario è il sintomo di un autore percorso da una vivacità artistica ammirabile, così se nel 2003 girava Somnambulance ecco quattro anni dopo presentarsi con Jonathan Austraaliast (di cui ho una copia ma priva di sottotitoli), stesso procedimento che avverrà con l’accoppiata Letters to Angel (2011) e Varesesaare venelased (2012), insomma dei testacoda di metodo mica da sottovalutare perché nell’ambito documentaristico Keedus pota un po’ tutti i vari accorgimenti della messa in scena per offrire film davvero ridotti all’osso, c’è lui e i soggetti che va a riprendere, praticamente nient’altro. Nel lavoro sotto esame veniamo letteralmente gettati in una zona orientale dell’Estonia al confine con la Russia, più precisamente una lingua di terra detta Kreenholm (Crow Island) all’interno del fiume Narva, un rettangolo di 750 x 250 metri dove sorgeva una delle più grandi fabbriche tessili d’Europa, la Krenholm Manufacturing Company che chiuse nel 2010. Keedus parte proprio da qua: scandisce il tempo narrativo di Varesesaare venelased attraverso la fine dell’attività manifatturiera, ma le mire del regista non si situano tanto nel sottolineare le problematiche relative all’automatica disoccupazione che sta investendo il luogo (il primo dialogo tra la donna anziana e quella più giovane è l’unico che va in tale direzione), quanto nell’infiltrarsi in un tessuto sociale disastrato dall’alcol e dalla droga già da anni.

Sfuggendomi la connessione diretta tra fabbrica-tossicodipendenti (la gioventù del luogo è figlia di immigrati russi a loro volta sfasciati dai vizi?), quanto vediamo è una discesa che, sarà banale dirlo, non sembra avere ritorno, è un’immersione in un nugolo di esseri umani giovani (ssimi in alcuni casi) purtroppo già sdentati, o catatonici o sieropositivi o alcolizzati o autolesionisti o tutte le cose messe insieme. Di derelitti, nel cinema, ne abbiamo visti tanti, di ogni nazione e di ogni categoria, ciò non significa, comunque, che ci si possa assuefare ad uno scempio esistenziale del genere, Keedus sta stretto sui volti dei ragazzi immortalati i quali vomitano davanti alla mdp tante storie di diversa disperazione che si riuniscono in unico canto funereo. Inutile stare a descrivere le vicende di violenza e di dipendenza delle persone nello schermo, siamo in Estonia ma potremmo essere in una favela brasiliana, si tratta, essenzialmente, di cogliere quel disfacimento che oserei definire universale, un fallimento che nel caso locale è dello Stato (è forse anche una critica verso l’URSS?) incapace di dare un aiuto ai cittadini in difficoltà, ma che allargando la visuale si fa di tutti. Sembrerebbe infima retorica e magari lo sarà anche, però nel momento in cui una donna di vent’anni racconta di aver già tentato più volte il suicidio o quando vediamo un suo coetaneo annichilito dalla droga che passa le giornate a bere tè davanti al PC siamo chiamati in causa anche noi in quanto appartenenti alla stessa razza, umana ovviamente. E mi correggo: la discesa ha un possibile ritorno: la bimba del finale che alita sull’obiettivo è un refolo di cambiamento, uno spiffero di futuro.

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