sabato 25 febbraio 2017

Inassenza

Abbastanza interessante sul piano sintattico, di sicuro non seminale ma comunque deviante dai binari del cinema narrativo italiano, Inassenza (2012) di Domenico De Orsi è corto che destituisce il racconto convenzionale in favore di un flusso atemporale. Il regista, e soprattutto montatore, cancella la cronologia degli eventi preferendo una trasmissione che vive negli strappi visivi, nella ricorsività dei dettagli, nella rarefazione dialogica, e tutto questo è bene: perché ciò che ne fuoriesce è un fiotto di istantanee dove non esiste più una progressione ma “soltanto” un continuo tourbillon epifanico dal cuore autoptico, è infatti cristallizzato nel gelo del lutto Inassenza, ma la morte, seppur aleggiante, rientra nella composizione ellittica per cui in entrambi i due spaccati funerei non ci sarà nessun contatto diretto con Essa. Le ellissi sono così disseminate in questi ventotto minuti che il tempo intendibile non esiste più, ne consegue che chi guarda è chiamato ad uno sforzo comprensivo non proprio minimo (il sottoscritto ha dovuto vedere Inassenza due volte per capirci qualcosa di più, e non è detto che ci sia riuscito), va anche detto, però, che il film pur uscendo dall’ordinario non trascende nello straordinario, se facciamo riferimento a quel cinema sensoriale che, al pari di Inassenza, ha nel digitale il proprio traino innovativo, qui il retaggio di un certo classicismo non riesce ad arrivare in zone inesplorate.

La cura del particolare è avvertibile, si veda lo scotch sul vetro di Lena, una diapositiva assente che ritrae un’assenza, o l’improvviso ed apparentemente incomprensibile zoom su una lampeggiante freccia automobilistica, ed anche tecnicamente almeno una soluzione piace, quella che attraverso una regale panoramica omette lo strazio di Paola in seguito alla nefasta notizia. De Orsi, insomma, si avvale di un discreto apparato metodologico fatto di incastri e finezze per ribaltare l’assetto del cinema lineare che immonda la purezza della Visione, ci riesce e non ci riesce, delle scorie intossicanti che non riesco a descrivere permangono.

(chiedo perdono a De Orsi, da non professionista faccio fede alle mie capacità esegetiche amatoriali, e qui se parliamo di sensazioni l’unica che ho avvertito in modo chiaro è stata quella di non pieno appagamento, come se oltre alla patinatura formale ci fosse stato bisogno di più cuore. Ma non sono in grado di spiegarne dettagliatamente i motivi, a volte va così)

mercoledì 22 febbraio 2017

L'immagine mancante

C’è La Storia e c’è la storia, e come probabilmente è giusto che debba essere, nei film di questo tipo, rari ovviamente, le due piste a lungo andare non possono che combaciare: L’image manquante (2013) è così: nella descrizione del particolare si spalancano botole sull’universale e cadere è un attimo. Tump. L’opera di Rithy Panh, sebbene focalizzata su un preciso periodo storico, nel renderci partecipi dei soprusi commessi da Pol Pot e dalla sua ottusa ideologia tracima il recinto del contesto di riferimento per proporsi su un piano archetipico, una possibilità che rimanda a quell’origine che permea i testi storici, che è: ci sono uomini che vessano e ci sono altri che resistono. Tutto, in fondo, si riconduce ad una tale inestricabile diade, ma non è il tutto de L’immagine mancante, è proprio tutto Tutto, la vita umana sul pianeta Terra (copyright by Giuseppe Genna) per intenderci, ed è per una motivazione del genere che assistere al duo The Act of Killing (2012) / The Look of Silence (2014), o all’impetuoso The Autobiography of Nicolae Ceaușescu (2010), o a qualunque altro lavoro incentrato sugli effetti di una politica dispotica ed estremista sul popolo innocente, arricchisce la condizione di spettatore che di conseguenza diventa di più. Credo non ci siano dubbi nel sostenere che L’immagine mancante, al pari delle opere sopraccitate, attui un processo di emersione grazie al dispositivo cinematografico e, una volta che la storia risale a galla, ecco che si palesa La Storia.

Nello specifico il film di Panh, uno che parla con assoluta legittimità essendo stato vittima dei Khmer Rossi e avendo perso tutta la famiglia in quegli anni bui, si avvale di un meccanismo rappresentativo che apre la scatola del documentario, nella riproposizione presepiale degli eventi con statuine fatte di terra, la stessa che idealmente accoglie tuttora i resti di quelle persone trucidate, è come se si rievocassero i martiri della strage, è un’apparizione che li eterna, che getta su di loro uno spazio effettivamente mancante (sì, ci sono le immagini di archivio qui insertate, ma comunque nascevano sotto un’egida propagandistica), e, aspetto che non sottostimerei, l’uso dei fantocci non inficia l’efficacia della proposta, anzi molto meglio una scena allestita con modalità così creative (ci sono anche licenze poetiche come il volo pindarico di tre giovani anime) che una fiction banalizzante. Se c’è una nota stonata è a mio avviso il tono dell’io narrante che in taluni frangenti tende un po’ troppo a fare della letteratura, a romanzare, a farsi bignami di possibili citazioni, non so se ciò sia dovuto alla resa linguistica dell’italiano ma tramite suddetto registro la visione si appesantisce di orpelli inessenziali, ad ogni modo nulla di compromettente: L’immagine mancante fa il suo dovere: riempire un vuoto.

sabato 18 febbraio 2017

Lontana quella voglia di morire

In questa città piovono tumori invisibili dal cielo, mio fratello ne aveva beccato uno che gli si era annidato nello scroto, di notte sentiva un polipetto malefico strozzargli il testicolo destro, a me piace molto passeggiare sulla spiaggia di inverno quando il vento che sento addosso mi ricorda i tuoi capelli, nonna dopo la malattia si è trasferita definitivamente da noi, prima era una donna pia e retta, adesso passa le giornate sulla poltrona viola del soggiorno a bestemmiare (“porcoddioporcoddioporcoddio”), papà è andato in pensione da poco e prende millequattrocento euro al mese, è triste e depresso e non dorme da mesi, il cuore gli si è spostato a destra mentre a sinistra gli è spuntato un piccolo uovo bianco, oltre che in spiaggia amo andare nella vecchia libreria del signor L. perché lì tutti i libri sugli scaffali sono amici che mi danno pacche sulla spalla, anche il signor L. è depresso ma lo è in modo più sereno, sostiene che ormai la sua vita l’ha fatta e che prenderà quello che verrà, dopo la chemioterapia mio fratello è rimasto impotente, ieri sera tornando a casa l’ho visto nel letto con il pollice in bocca e un orsacchiotto sotto l’ascella, al mattino mando curriculum per trovare un lavoro, al pomeriggio cammino per le strade che sono l’album della mia malinconia, alla sera l’ultima cosa che guardo è un pupazzo con la nostra foto stampata sopra, ho un amico che fa l’astronomo e dice che sulla Luna ci sono sterminate metropoli abitate da pallidi manichini con delle fattezze umane, il giorno che moriremo l’anima trasmigrerà in quei manichini ed una volta che anche lì il nostro tempo sarà finito passeremo una porzione non misurabile di anni come rocce marziane fino a che le briciole di noi stessi si trasformeranno in batteri nella Grande Macchia Rossa di Giove, e via così fino alle enormi cavallette nere di Plutone per poi ricominciare dall’inizio, da Mercurio, in un ciclo che non ha fine, a volte nonna cambia tipologia di bestemmia (“dioccanedioccanedioccane”), un altro mio amico ha detto: “veniamo schizzati fuori da una fica e passiamo il resto della nostra vita a cercare di rientraci”, ogni tanto ci prende l’idea di salire fin sul promontorio e ficcarci due dita in gola per vomitare delle palle di pelo nerastre e schiumose, un tizio al bar racconta sempre che da giovane fece il giro dell’Europa e che durante il suo periplo aveva con sé un libro così pesante da risultargli una zavorra insostenibile visto il cammino da compiere, ma era un libro bellissimo e allora lo leggeva e strappava lo leggeva e strappava per renderlo più leggero, dice sempre che vorrebbe rileggerlo ancora una volta, e allora io dico compratelo, e lui no, rifarò lo stesso giro per cercare tutte le pagine strappate, accadrà un giorno che l’uovo covato nel petto di mio padre si schiuderà e da lì, attraverso la sua bocca, sciameranno miriadi di corvi neri che come una macchia umbratile volteggeranno nel cielo fino ad arrivare al sole e coprirne tutta la circonferenza esterna in modo da farlo diventare un immenso occhio infuocato che ci guarderà imponente da lassù, ho sognato di essere un produttore di musica elettronica che vive a Berlino in un bilocale non lontano dal Checkpoint Charlie, al venerdì sera prendo la bici per andare a suonare al Berghain dove chiudo i miei set con questo pezzo, all’alba, uscendo dal locale con l’aria berlinese che mi ghiaccia le narici, sento scorrere sotto le ruote una strada che non è più una strada ed io sono felice perché tu sei a casa sepolta sotto il piumone ed io entro piano con un sibilo nelle orecchie e mi spoglio per scivolare sotto e domattina è sabato e potremo dormire fino a mezzogiorno, nel bacino idrico che alimenta la città vive l’ultimo esemplare di scimmia acquatica del pianeta, è devastata dal dolore perché un gruppo di cacciatori ha trucidato la sua compagna per mangiarsela abbrustolita, piange rannicchiandosi su una roccia che affiora dal lago, la testa affonda nelle zampe pinnate, vista dall’alto, dalle stelle, è un bambino-lontra che ha perso la mamma, la mamma non c’è più, non c’è mai stata, adesso credo sia una roccia di basalto sulla superficie di Venere, quando si disgregherà fino a scomparire ritornerà sulla Terra ed io spero ancora di esserci, la nonna ha smesso di dormire ed è sempre impegnata a cantilenare il suo empio mantra (“diostronzodiostronzodiostronzo”), “stai tranquillo che domani passa che le nostre donne si faranno più sode per noi, stai tranquillo che gli eroi non passano mai e ci sarà sempre qualcuno da idolatrare”, era bello andare insieme alla Lidl e vedere nei parcheggi i cammelli delle mogli marocchine o i tuk-tuk di quelle filippine e tradurre l’amore nel fare la spesa e provare serenità in un cospicuo risparmio nei confronti di commisurate compere alla Coop, sognando il nonno che è mancato quando ero bambino sento perfettamente la sua voce, non riesco più a vedere il viso né il corpo, solo quella calda voce di caffè e caramelle Elah e penso che in fondo, tra le pieghe del cervello, sotto qualche ondulazione carnosa, un reticolo di sinapsi ha memorizzato per sempre quelle bonarie frequenze e che l’unico modo che ho per riascoltarle è accendere l’interruttore onirico, io so chi era mio nonno, ma non ho idea, invece, di chi era il mio bisnonno: perché il tempo diluisce i legami consanguinei? E io? Sarò ricordato un giorno dai miei pronipoti? Cosa resterà di me?

E poi ho un segreto… ssshhh… mi raccomando, non ditelo a nessuno! È che ogni mezzanotte, poco prima che le quattro avvenenti streghe inizino a danzare intorno al rogo di bambini bruciati nel cavedio del palazzo, mi trovo sdraiato nel solito letto e… l’attimo seguente: puff! Riesco a vedermi dall’alto, sospeso nell’aria della stanza come un pesce che nuota nel mare e, semplicemente, riesco a volare, via, lontano, lontanissimo, volteggio sopra i tetti della città per poi scendere in picchiata ad un palmo dall’asfalto e sentirne l’odore dopo un temporale tropicale, e avvertire al contempo lo schiocco delle mamme che baciano i loro bambini prima di fare la nanna e le preghiere delle anziane vedove nelle enormi case vuote in cui si consumano giorno per giorno, eppure non mi basta perché davanti a me ci sono strade invisibili da percorrere, trecce di cunicoli adamantini, tunnel di luce abbacinante che mi trasformano in un impulso impazzito di energia cosmica capace in un secondo di essere dovunque, e in un altro secondo ancora di percepire chiunque: il dolore di un cane thailandese che sta morendo in un vicolo a Bangkok, le arcane visioni di una veggente bulgara che si è inutilmente cavata gli occhi per porre fine a quei tormenti, l’immane fatica di una formica sierraleonese che sta trascinando una briciola nella sua tana. Sono una spugna microscopica e grande quanto il mondo che assorbe tutto, che si nutre di maree d’esistenza e che affoga serena nei fluidi della vita intorno a noi in, ogni, momento, che, viviamo, ed ebbro svolazzo sulle autostrade notturne che diventano la mia casa fatta di automobili sfreccianti e inconsistenti che prendono la forma dei lampi nel pieno della notte, e le piccole sporadiche abitazioni sui fianchi delle colline sono grossi funghi con lucciole ammalianti a rischiararle, ed è sempre così delicata questa notte universale, anche se nevica tragedia, anche se sul calendario ci sono solo lunedì, le tenui fiamme del cielo mi ricordano la bellezza indeterminabile dell’esserci, e chiedo solo che mi si voglia bene come io lo voglio a voi, fratelli, genitori e amori sconosciuti, che mai ci incontreremo se non nelle mie radianti incursioni serali dove voglio dirvi che vi sento sempre, e che con affetto incalcolabile e disperato aspetto una sola cosa: LA GRANDE NAVE.
E infine, con l’alba che si avvicina, io ti vengo a cercare: dalla terra al cielo si erge una torre luminosa, tu sei lì: lievito sopra la strada che ho percorso infinite volte e guardo l’ex palazzone dell’INAIL ora infestato da baffuti fantasmi statali, imbocco la ripida mattonata costeggiata da statue di angeli protesi verso il mio etereo passaggio e salgo proprio quei gradini che portano al cancello verde un po’ arrugginito dell’entrata, sorvolo lo stretto giardino con lo scheletro della lavanda senza far rumore perché sono ancora un’ombra appena fosforescente che scivola su quei muri che mi hanno visto apparecchiare la tavola per anni, e sempre piano piano attraverso il soggiorno planando sopra il divano rosso fino a diventare un microbo oltre la porta che chiude la camera dove so che stai dormendo sotto una montagna di coperte nel chiarore morbido di un’abat-jour che custodisce la crisalide di un essere puro e celestiale, ed il tuo cuore proietta sul soffitto un fascio di luce che si impenna oltre il tetto, oltre l’atmosfera terrestre per diventare un faro nella galassia e c’è un profumo di viole nella stanza, un calore che non riesco a dimenticare, è lo scrigno del passato che si apre come una valva e che mi fa rivivere tutto dal principio con lo stesso stupore, la stessa paura, lo stesso incanto degli occhi di un gatto che vede passare un treno nell’oscurità, mentre laggiù, nel porto, una nave sta salpando verso la Tunisia. Però sempre mi sveglio, e sempre vedo quel pupazzo con la nostra foto sulla mensola della libreria.

mercoledì 15 febbraio 2017

Nocturama

Ma io non ho interesse ad essere realista. Il mio compito non è di descrivere il terrorismo di oggi. Ciò che desidero è cogliere una sensazione. Sensazione che è una variante della storia: la rabbia che sente di non potersi esprimere altrimenti che con un’insurrezione armata. A questa variante che è l’insurrezione io ho dato una forma particolare. Ma che non ha nulla di realista. Non deve esserlo.

(Bertrand Bonello da qui)

Dice Bonello che la scrittura di Nocturama (2016) è iniziata ben sei anni prima dei celeberrimi attacchi islamisti del 2015, e che lo spunto nacque da una necessità di girare qualcosa orientato all’attualità in risposta ad un oggetto come House of Tolerance (2011) che invece guardava al passato (ma non del tutto se ricordiamo bene…), quindi il progetto che prende il titolo da un omonimo disco di Nick Cave è stato pensato con largo anticipo rispetto agli eventi terroristici che hanno colpito la capitale francese, ma passando oltre lo stupore generatosi da una tale infausta profezia, si può cominciare a ragionare sull’opera ammettendo che il regista nizzardo non sfugge alle analisi comparative tra ciò che è accaduto nella realtà e ciò che invece accade nel film, e provando a calarci nella sua testa è possibile che Bonello avendo avvertito il montare di uno stato insurrezionale (non bisogna scordare il clima delle banlieu già rovente nel 2005), sia stato spinto dalla necessità di porre e proporre una personale visione sull’argomento per costruire un oggetto come Nocturama a cui, fortunatamente, è stata potata tutta l’eventuale eziologia della sommossa, tutta la pletora di concause sociali e di biografie fittizie, il gruppo di giovani che Bonello assembla non ha una storia dietro, è estraneo a fondamentalismi religiosi barra militanze politiche, o meglio, è lo spettatore ad essere estraneo a ciò sebbene comunque si possano supporre motivazioni che rientrano nei due esempi di cui sopra (i tratti somatici di molti ragazzi della banda non sembrano esattamente europei e uno di loro ad un certo punto è convinto di andare in Paradiso nonostante la strage commessa), ma nulla viene esplicitato poiché facendo fede alla citazione in testa l’autore non riproduce una cronaca, il suo cinema questa volta è scentrato, raffinato ed anche ludico (il vezzo degli split-screen che continua a perpetuarsi), scevro di psicologie e di istruzioni per l’uso.

Ma è anche un cinema che con gli anni sta mutando rispetto alle prime apparizioni, un segnale ce lo aveva già dato il precedente Saint Laurent (2014) che ad oggi continua a rimanere il film più debole dell’intero curriculum, in Nocturama stupisce (e se in positivo o in negativo è un dilemma che non riesco ancora a risolvere) una prima porzione che viaggia a ritmi incredibilmente elevati, quasi fosse la parte centrale di un action-movie canonico il montaggio è un progressivo avvicendamento di situazioni preparatorie alla serie di attentati, mai nella visione di Bonello la cadenza narrativa si era fatta così concitata, e in fondo il risultato non è nemmeno troppo inopportuno perché a prescindere dalla rapidità espositiva che poco c’entra con l’apprezzamento, è sempre la tendenza a bypassare quei perché che mancando smagriscono il racconto a rendere il film illogico, impossibile, irreale (non è plausibile che un manipolo di ragazzetti possa mettere sotto scacco una metropoli… o sbaglio?), e si tratta di una inverosimiglianza che è salutare, che pur adagiandosi su una precisa corporeità (è il corpo di Parigi visto dall’alto a darci il benvenuto) non è interessata ai processi di storicizzazione. Il secondo segmento apre ulteriori scenari (e ritorna un’attitudine a dividere in due la proiezione, vedi Tiresia, 2003) più in linea con la poetica bonelliana, e al di là dei possibili ragionamenti sull’entità-centro commerciale in raffronto ai rivoltosi che lascio all’evidenza, si enuclea come per le prostitute di House of Tolerance la possibilità di uno spazio fisico convertibile in spazio cerebrale, e perciò qui la portata aumenta la propria percentuale di astrazione: dentro al lussuoso iper-mercato Bonello sbriciola il realismo residuale creando un’illusione che non fatica affatto a riversarsi in chi guarda il quale arriva perfino a credere alla fattibilità dell’ingenuo piano dei sovversivi, tuttavia questo percorso di auto-penetrazione mentale da parte dei terroristi (io = manichino) non fa che rivelarne la puerilità che li caratterizza scandita da un passare delle ore che scolora senza appello la collante utopia insurrezionalista. È, alla fine, una strada di realificazione che cominciata e proseguita su frequenze idealizzanti termina in un crudo risveglio pragmatico.

In tale ottica la conclusione ha una ragione di esistere, e non è un finale esaltante, al pari di Nocturama in sé che comunque dell’attenzione la merita, è piuttosto un finale necessario poiché nella struttura filmica si pone come un fatto ineluttabile, ed anche se il blitz della polizia è una situazione “normale” da un punto di vista tramico, è esattamente la restaurazione della normalità a cui Bonello mira attraverso una parabola che gradamente certifica l’incursione della realtà nel suo mondo sigillato, checché ne dica lui stesso, e una volta delineato un chimerico stato guerrigliero il sapore della concretezza ha il suono dei proiettili che crivellano la carne.

domenica 12 febbraio 2017

I've seen a double rainbow

La voce di Julie Byrne mi porta lontano, credo a Cheyenne o a Portland o a Boise in un piazzale d’asfalto deserto sotto una pioggia fine, e io mi riparo a ridosso della tettoia di un Burger King dal quale proviene l’odore di ogni fast-food del mondo, e il mio amico Dave o William o George mi fa cenno di salire sulla sua Ford un po’ rovinata come la camicia a quadri di flanella che indossa, è un tipo corpulento e sgraziato, ha gli occhi azzurri e una pelle sopravvissuta ai blitz dell’acne giovanile, mentre guida dice che la città è cambiata molto negli ultimi anni, che lì c’era un bellissimo negozio d’abbigliamento mentre ora c’è un Internet point gestito da indiani aperto h24, o che là, prima del parcheggio a tre piani, c’era un campo da basket dove giocava con gli amici, e dopo una curva arriviamo a casa, uno steccato bianco, un nido a due piani con tetto spiovente, un prato verde e soffice, Lana o Kendra o Anya ci attende con le mani maternamente giunte sulla pancia tesa e sferica, e sorride emanando un profumo di limone che le è rimasto addosso da quando era una bambina che gironzolava nell’orto del nonno, e dopo cena li lascio ai loro quieti gesti mentre lei lava i piatti e lui spazza le briciole da terra, fuori, la punta della sigaretta che sfrigola incandescente sopra il mio mento è l’unico rumore in questa bolla di silenzio che io sento, non c’è nient’altro adesso, se non l’appena percettibile nostalgia della città che aspetta il mio ritorno, credo Lecce o Parma o Genova.

venerdì 10 febbraio 2017

He Took His Skin Off for Me

Corto ammorbato già nel titolo proprio perché il titolo diventa a priori l’esplicitarsi del manifesto intenzionale: Ben Aston (ex studente laureatosi alla London Film School con He Took His Skin Off for Me, 2014) pensa all’impatto, allo shock frontale senza mezzi termini, e Ben Aston fa: scuoia il suo protagonista, lo spella lasciando in vista tutto l’apparato muscolare. Presto (già dal nome del film, appunto) si capisce però che questo è uno shock monodimensionale, dov’è lo spessore? Dov’è una possibile lettura oltre la patina para-horrorifica? Semplicemente, latitano. Come tutti i prodotti, e per prodotti non si può che intendere oggetti lontani da una dignità artistica, anche questo mira esclusivamente alla superficie, allo sviluppo lineare dell’idea di partenza, ma così facendo non vi è alcuno sviluppo, solo stagnazione nella medietà del già visto, e onestamente sottozero me ne cala della perizia con cui gli esperti hanno scarnificato l’uomo (pare ci sia voluto un team di ben dodici persone per otto ore al giorno di trucco [link]) perché non è questo il cinema che ci riempie, e non è attraverso escamotage epidermicamente traumatici che si può lasciare un segno.

Mi si potrà dire che il mettersi a nudo del tizio è una trasposizione dello spogliarsi letteralmente di fronte all’Altro in un quadro sentimentale senza figurazione, al che è inevitabile controbattere asserendo che tale chiave di lettura si direziona docile docile nel parcheggio della facciata, appena assimilato il concetto ogni cosa (ma quale cosa?!) sfibra di interesse, e il teatrino affettivo così impostato con piatti rigagnoli di vita coniugale non può che scadere nell’insipida prevedibilità. Piano e largamente ipotizzabile, il cortometraggio del giovane londinese Aston è dunque quanto di peggio è possibile vedere oggidì, prendiamo le distanze da chi usa il cinema come palcoscenico per esibire con mezzi improducenti la propria striminzita idea.

mercoledì 8 febbraio 2017

I corpi estranei

La lettura sociale, la prima nonché la più epidermica, può essere una valida chiave per accedere al discorso impresso su pellicola da Mirko Locatelli, infatti pare piuttosto chiaro che I corpi estranei (2013) sia un film orientato a mostrarci una sorta di reciproca integrazione, di apertura, di abbraccio verso l’Altro. Ora, da siffatte premesse è comprensibile che sulla carta non nasca una grande curiosità nei confronti dell’opera, però va detto che Locatelli rivela al pubblico un tatto accettabile nel delineare le corrispettive “estraneità” dei due uomini protagonisti (così diversi, così simili), e proprio con Antonio, paradossalmente, abbiamo il vero personaggio da reinserire nella società: è un Filippo Timi buzzurro, bestemmiatore, che pensa al sesso mentre suo figlio è alla vigilia di una delicata operazione. L’estromissione di Antonio dal mondo che lo circonda si manifesta nella mancanza di un vero dialogo con tutto ciò che non riguarda lui o la sua famiglia (gli unici rapporti interpersonali sono quelli telefonici con la moglie, in tutte le altre occasioni dove è chiamato a confrontarsi con un estraneo si chiude a riccio). Antonio è davvero un essere avulso: non ha un lavoro, alla radio ascolta solo notizie sul traffico automobilistico ed è recintato nella propria isola paterna. In questo gioco di ruoli invertiti Locatelli è abbastanza abile nel tessere un filato di ambiguità sulla figura di Jaber. Indirizzando l’opinione spettatoriale su una falsa pista, il regista, attraverso una narrazione che per fortuna sottrae ed elide certi meccanismi altrimenti impoverenti, rovescia i possibili assunti pregiudiziali certificando uno slancio umanista dal più insospettabile del duo, un venire incontro all’altro da parte di chi è ultimo e non ha niente.

Ma una seconda lettura, quella che potremmo definire “religiosa”, amplia i confini del film, perché credo abbia completamente ragione Luca Pacilio (link) quando fa riferimento ad una sottile corrente mistica che vena I corpi estranei. Beninteso, non siamo in un film di Bruno Dumont, tuttavia nel realismo di Locatelli c’è anche spazio per l’impalpabile, e non è soltanto la frequenza delle scene in cui Antonio si reca nella piccola cappella (lui che non è un credente: dimentica le parole di una preghiera) a fare da suggerimento frontale, è qualcosa di più, qualcosa che si instaura nelle pieghe di questa micro-odissea e che ha forse come punto di arrivo proprio il gesto di Jaber da cui consegue quello che può essere considerato un piccolo miracolo, un’azione così solidale, così direzionata verso un’idea di fratellanza universale, che davanti ai nostri occhi si esplica il comandamento di ogni fede, quello che ha solo un dogma a cui attenersi: l’umano.

Nella dimensione distributiva e produttiva italiana I corpi estranei è in grado di ritagliarsi una nicchia di visibilità, Locatelli è tra virgolette coraggioso nel prendersi tempi e spazi che in genere il cinema da sala dribbla con facilità per farsi più commestibile e quindi più vendibile, e facendo ampio uso di immagini ricorsive (Timi ripreso di spalle; Timi impegnato a mangiare; Timi che contempla il paesaggio urbano) crea un ritmo, una musica fredda che echeggia in un contesto ospedaliero rischiarato soltanto dalla vocina del piccolo Pietro. In definitiva un’opera seconda che pur non infiammando in toto la sensibilità del sottoscritto possiede elementi capaci di destare interesse, un lavoro con una cifra personale che in altri paesi europei (vedi la Francia, cfr. ancora Pacilio) è quasi di routine, qui da noi si presenta come dato innovativo cosa che in effetti allargando lo sguardo non è poi così tanto, in ogni caso ben venga un film del genere, più Locatelli e meno [metteteci il nome di un qualsiasi regista italiano della mediocrità].

domenica 5 febbraio 2017

Phantom Love

È un film femmineo Phantom Love (2007), un’opera-vagina che ci permette di copulare con una serie di dimensioni a cui, è il caso di dirlo, non siamo preparati, perché l’irregolarità narrativa che Nina Menkes diffonde nel lungometraggio dissesta la prassi e di conseguenza anche la visione. La logica acchiappa un’interpretazione: quella del triangolo famigliare madre-due sorelle che lentamente trascina le giovani in un vertiginoso abisso, e per implementare questo stato di dedali e trappole oniriche la regista d’origine austro-tedesca fa del suo meglio per soffiare in scena una nebbia che sa di oblio e che si propaga oltre lo schermo, alla resa dei conti ritengo che un film come Phantom Love non necessiti obbligatoriamente di una decodificazione razionale, è in singolarità come queste che dialogano apertamente con una certa sperimentalità che le convenzioni saltano e se loro saltano allora anche la costrizione di ritrovarvi una storia al suo interno si dissolve. Ecco dunque una specie di libertà, di noncuranza verso chi guarda. Se ci si riesce a sintonizzare su tali frequenze è possibile trascendere la conformante ricerca aprioristica di una narrazione, di fronte ad un lavoro come quello della Menkes si attraversa la porta del sensoriale dove i dogmi del tempo e dello spazio vengono divelti.

Un approdo in lidi così lontani dalla tradizione può comportare comunque il rischio di sfociare in un narcisismo autoriale dove il flusso filmico tende ad assumere i connotati di un fiotto spermatico, risultato della pratica onanista applicata al film, è un’eventualità riscontrabile in prodotti tendenti all’estremo come questo laddove il confine tra lo specchiarsi nell’estetismo e fare dell’estetica l’architrave che ne regge la totalità è talmente labile che spesso una delle due strade finisce per soverchiare l’altra. Comunque, per quanto possa valere il giudizio del sottoscritto, Phantom Love non ha, o almeno non in maniera così acuta, l’insolenza artistica di cui sopra e mi sento di affermare con moderata sicurezza che la mia memoria fotografica non cancellerà facilmente alcuni passaggi visivi che popolano il lungometraggio, simboli (il serpente nel corridoio kinghiano) o immagini fine a se stesse (di nuovo il serpente…), sequenze inintelligibili (la lievitazione sul letto in stile Tarkovskij) e altre illuminanti (la splendida sovrapposizione di pellicola che fa delle due sorelle una sola Donna), per un catalogo di forme abbacinanti tra il carbone e il nitore, una manifestazione fattuale sul potere suggestionante del cinema.

venerdì 3 febbraio 2017

Dust Kid

Joung Yu-mi (o Joung Yumi, trovo sempre affascinante l’eterografia di certi cognomi esteri, soprattutto orientali, come se una persona avesse un’altra identità), animatrice sudcoreana classe ’81, in una micro-storia autobiografica, queste le sue parole prese dal sito ufficiale (link): “quando comincio a fare i lavori di casa il mio cervello inizia a pensare e a riempirsi di preoccupazioni inutili, ma appena finisco tutto svanisce. Eppure so che le mie apprensioni prima o poi torneranno, esattamente come la polvere che ho appena spazzato via”.

Traslazione dei propri fantasmi, dunque, con uno stile che se possibile trascende il minimalismo, e perciò più che essenziale, scevro, linee di lapis su sfondo bianco: stop. Non c’è volutamente niente in Munjiai (2009), e giustamente aggiungo, perché è il Niente che sostanzia buona parte della vita dove le finestre di emotività sono spiragli disseminati ogni tanto sulla parete della routine: alzarsi, sentirsi infreddoliti, sistemarsi il letto, pulire, mettere in ordine, lavarsi, cucinarsi. L’uso del si riflessivo dovrebbe suggerirvi l’idea che in Dust Kid, e al di fuori di Dust Kid, non vi è molta compagnia, se non quella dell’angoscia. La Yumi non si affanna nel dirci queste cose, il suo pensiero vive in una biforcazione, è tenue il metodo espositivo, così come è greve il sottotesto che ha la qualità di darci del tu in una stretta confidenziale dalla quale non possiamo esimerci. Oso parlare di intimità e lo faccio: se la regista avesse optato per un approccio spettacolarizzante, cosa impossibile visto il tenore degli altri lavori personali (animati e non), di sicuro non avrebbe sortito effetti significativi sullo spettatore poiché sarebbe banalmente scaduta nella rappresentazione delle inquietudini ricorrendo a qualche bestiario del perturbante, invece in Munjiai tutto si riduce all’infinitesimale, sicché l’Afflizione è con intelligenza antropomorfizzata, e non con un essere umano a caso, bensì con il doppelgänger di noi stessi, miniaturizzato, reso insetto ricorsivo: il finale è condivisibile: non esiste discarica per la Sofferenza, né il cestino, né le fogne, l’unica possibilità è la convivenza.