Identità. È la parola chiave per accedere al cinema di Bertrand Bonello, un tema, quasi una missione autoriale, che rintocca in ogni suo lavoro, i termini però non sono mai stati consueti e al di sotto della patina felpata hanno sempre rivelato una cifra indocile, di quelle che scardinano i normali (e banali, al cospetto di Bonello) processi di fruizione, una destrutturazione delle prassi visive che ha trovato in Tiresia (2003) il manifesto programmatico di quanto si sta dicendo: una donna (che è un uomo), un film (diviso a metà come il suo protagonista). Orbene, per avvicinarsi a L’Apollonide (Souvenirs de la maison close) (2011) l’operazione di ammaestramento attraverso la chiave di lettura sull’identità appare una mossa proficua; il punto è che bisogna considerare tutte le prostitute del bordello come un unico corpo, una sintesi muliebre inossidabile a meno che un organo di questa massa dalla pelle latticinea non venga danneggiato, e, manco a dirlo, Bonello fa sì che ciò accada subito: la deturpazione del viso di Madeleine, peraltro smaccatamente sarcastica con quel sorriso permanente che è in fondo quello che la maîtresse desidera costantemente dalle sue ragazze, segna l’inizio di una crisi che, posta a cavallo tra ‘800 e ‘900 e qui vengono subito in mente le profetiche parole nicciane: “ci aspettano due secoli di nichilismo”, riguarda Madeleine stessa (diventa una tuttofare della casa ed è continuamente vessata dagli incubi), le colleghe (i malumori, la disillusione, la sifilide) e il casino (i problemi economici e la chiusura inevitabile). Il progressivo deterioramento del mondo-Apollonide, una prigione che a parte la follia dell’inizio e la malattia venerea appare come una dimensione parallela, indolore, accogliente (per gli uomini), staccata dalla realtà, racchiude in sé, come una grande sineddoche, le grettezze dell’epoca (non troppo diverse dalle nostre) in cui si intravedono i primi rossori di una piaga oltremodo attuale dove il commercio (le meretrici lo chiameranno proprio così) basato sulla compravendita finisce per portare all’implosione del suddetto mondo. La bisettrice che spacca questa identità è il denaro: il grande burattinaio che muove ogni filo, la moneta, combustibile nella duplice accezione: che fa proseguire, che fa vivere, ma anche infiammabile, che ustiona, che guasta.
Ciononostante L’Apollonide non rientra nella categoria “film-storico” con tutte le possibili implicazioni del caso (tipo denuncia della condizione femminile). Bonello si è impegnato nella ricostruzione degli ambienti (il set è un castello vicino a Parigi) attraverso la lettura di carte e documenti provenienti dagli archivi della polizia, e ha certosinamente edificato un micro-clima che trasuda il profumo raffinato (ma comunque fittizio) della belle époque in cui si manifesta un incessante meccanismo di ostentazione che riguarda gli opprimenti arredamenti e gli altrettanto claustrofobici vestiti delle ragazze, immortalate, tra l’altro, nei riti quotidiani, spensierati e lisergici dove utilizzano e si rapportano con oggetti del tempo. Ma no. Bonello, pur svolgendo questo convincente lavoro sul piano della riproduzione, non pare particolarmente interessato a fornire un ritratto che metta in risalto lo sfruttamento della prostituzione di più di cento anni fa e ragionando in tali termini probabilmente anche il discorso enucleato nel paragrafo sopra riguardante la riproposizione dei mali (in particolare) economici che iniziavano ad affliggere la vita reale, sebbene innegabilmente presenti entrambi, non rappresentano adeguatamente lo spirito della pellicola. A questo punto bisogna tornare all’etichetta identità e chiarire quanto prima un punto: Madeleine, Julie, Samira e tutte le altre abitanti della casa sono riconducibili ad un solo profilo, sono tante e sono una, che è l’identità-puttana, status di cui hanno piena consapevolezza e in cui emerge l’appartenenza alla categoria sottoforma di fratellanza, la vendetta infatti si consuma assumendo i tratti sfregiati della propria sorella. L’esplorazione di Bonello in questo universo si scollega dalla materia e in un procedimento molto ma molto lynchiano diventa, e sono parole dell’autore nato a Nizza, un teatro della mente dove sul palcoscenico gli atti sono incastrati in una routine cristallizzante mentre dietro le quinte si propagano effluvi onirici, “eyeswideshuttiani” (direttamente da De la guerre, 2008), tanto che il sogno, possibile contenitore di tutto, travalica il confine manifestandosi meravigliosamente in un pianto che si relaziona all’Io Prostituta, donna invasa dall’uomo, violata, vista (il tizio che vuole vedere continuamente il loro sesso), telecomandata (la bambola), delegittimata delle lacrime.
E comunque il cinema di Bonello si conferma luogo di teoresi, un’investigazione della settima arte pronta a rimescolare gli assiomi di un film scompaginandone i ruoli (la protettrice Noémie Lvovsky, i clienti Xavier Beauvois e Jacques Nolot sono tutti veri registi), suggerendo l’interscambiabilità tra regista e attore (o forse sottolineando la paternità del primo nei confronti del secondo e navigando quindi nelle stesse acque di Cindy: The Doll Is Mine, 2005), smentendo ogni previsione (memori di Le pornographe [2001] ci si poteva attendere un film saettato da spaccati erotici, invece la pudicizia è il tenore che prevale), spiazzando nelle scelte estetiche (chi si aspettava uno split screen?), delineando in conclusione un cinema maieutico, fecondo sulla lunga distanza, che in L’Apollonide trova una sentenza stringente della sua arte, dedalo identitario di luoghi, di maschere, di Uomini.
ottimo bonello bordello!
RispondiEliminanon ho visto i suoi altri film, ma questo mi è piaciuto parecchio
me lo cerco..sei bravissimo come sempre..ciao
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