Dopo dieci anni il professore John Oldman deve partire, invita i colleghi nel suo cottage e, per la prima volta nella vita, rivela chi è veramente: un uomo nato nel Paleolitico.
Testamento filmico di Jerome Bixby, autore di alcuni episodi di Star Trek e di Ai confini della realtà, consegnato nelle mani del regista Richard Schenkman, filmmaker dalla carriera non proprio esaltante, The Man from Earth (2007) è un esponente di quella fantascienza che sconfessa la categoria di appartenenza; non ci sono effetti speciali, mostri, o scenografie futuristiche, al contrario: tutta la vicenda è contenuta in un banale soggiorno con divano e caminetto, inoltre sono ugualmente latitanti scene d’azione et similia perché a dare dinamismo, e riescono a farlo, ci pensano soltanto i dialoghi ininterrotti fra gli attori in scena.
Queste premesse portano comunque ad affermare che il lavoro di Schenkman macina minuti senza peso, senza che quasi ci si accorga dello scorrere del tempo, e grazie alla forza della sceneggiatura incolla gli occhi allo schermo per tutta la sua durata. Le suggestioni sono molteplici e si rincorrono le une sulle altre: un uomo che vive fin dall’alba dell’umanità porta inevitabilmente con sé una scia di affascinante mistero, e la brama di sapere è così tanta che si entra in sintonia con i vari professori, i quali, a prescindere da una palese stereotipizzazione, incarnano molto bene l’interesse dello spettatore. Mentirei se dicessi che la pellicola non mi ha preso, perché, davvero, la storia scuote e fa sorgere interrogativi che mischiano scienza e religione.
L’intento personale è quello però di valutare il film dal punto di vista analitico e lasciare da parte i voli pindarici dell’immaginazione. Nulla da dire sulla positività di una induzione al pensare che un’opera trasmette, e nemmeno mi sento di andare a sfruculiare le debolezze narrative che al di là di tutto si possono additare (lo si può fare ovunque nel cinema), c’è da dire invece che accantonando un attimo il sapore ammaliante, il lungometraggio pur avendo una buona partenza sceglie poi per esigenze calligrafiche di infognarsi in un tunnel danbrownesco che, per dirla con un francesismo, piscia fuori dal vaso, e non di poco. Le svolte sono sempre apprezzate al pari dei colpi di scena, ma la rivelazione di John è troppo opportunistica per essere accettata, non infastidisce la confessione in sé (Oldman poteva dire anche di essere stato Hitler che non cambiava la sostanza) piuttosto il voler addobbare con una ciliegina da 500 kg una torta che fino a quel momento non aveva sfigurato. Con i dovuti paragoni è come quando negli anni ‘70 un film “normale” veniva insertato di scene osé per renderlo più appetitoso, lo scandalo attira l’attenzione, ed anche se qui non c’è ovviamente niente di osceno, la notiziona indicata da grosse frecce lampeggianti è ben messa in risalto e si dimostra (almeno secondo il sottoscritto) un accorgimento astuto per attrarre il pubblico.
C’è inoltre la questione padre-figlio suggerita con sagacia durante la proiezione (“ho un ricordo vago di mio padre”, dice lo psicologo) che però ha un’essenza posticcia, costruita ad arte per dare al finale il tocco drammatico (?) delle soap opera.
Se dovessi giudicare da semplice fruitore del prodotto allora sarei entusiasta perché L’uomo che venne dalla Terra mi ha rapito dal principio alla conclusione, vestendo però i panni critici non posso fare a meno di indicare delle sproporzioni difficilmente tollerabili da uno sguardo che ha la presuntuosità di essere, appunto, critico.
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