martedì 29 novembre 2011

D'amore si vive

È interessante notare come nei titoli di testa al posto del canonico un film di, si legga invece una ricerca di Silvano Agosti, il che è significativo perché l’aspetto terminologico cela il vero substrato ideologico della pellicola dove il regista bresciano si fa ricercatore di un’indagine portata avanti con il metodo qualitativo per eccellenza, l’intervista, e dove il cinema si assoggetta alla realtà dei fatti: macchina fissa, primi piani, qualche zoom in avanti e qualcuno all’indietro.
La tecnica non va oltre queste poche cose, eppure al cospetto di tali esigui accorgimenti, l’intento del film, ovvero quello di compiere una disamina su concetti come l’amore, la sessualità e la tenerezza, viene colpito, o meglio, chi viene colpito è lo spettatore perché gli esseri umani (tutti di Parma e dintorni) che si susseguono hanno per forza di cose una visione del mondo e della vita che definirei bislacca, ma ciononostante le loro parole possiedono sostanza e donano gentilmente il seme del pensare.

Di storie ce ne sono molte, ma dietro quelle di facciata ne palpitano altre che permettono di passare ai raggi x la società di quasi trent’anni fa. Ed ecco che la prima testimonianza, quella della maestra terrorizzata dall’atto sessuale, mette in luce uno dei cardini della filmografia agostiana – fin dall’inizio: Il giardino delle delizie (1967) – che qui trova riscontri empirici, infatti la condizione di paura della donna nei confronti della sessualità pare derivare, a detta sua, da un’educazione religiosa castrante e reprimente.
La carrellata di persone immortalate si immerge sempre di più nei bassifondi sociali e vira sarcasticamente o forse no in quei territori dove l’amore è difficile da rintracciare, se non impossibile: la prostituzione, e Agosti con il suo interloquire decisamente alla mano cerca di far aprire i suoi soggetti di fronte alla mdp. La genuinità di queste memorie è così palpabile che in alcuni frangenti si avverte l’imbarazzo o anche il sottile fastidio nel raccontare le proprie vite fatte di miserie nelle quali, però, Agosti trova quel che cerca, cristalli, frammenti, pezzetti di esistenza precaria che nelle difficoltà hanno scovato la loro idea personale di amore. Ognuno di questi personaggi, infatti, desume dalle esperienze passate un amaro precipitato di saggezza che va dalla sapienza dell’ex donna di strada al disincanto di Gloria, per finire nel miglior segmento dell’opera che è quello di Lola, la quale fornisce una giusta chiosa: se allevi dei piccioni devi amare anche la loro merda.

Ma D’amore si vive (1984) è un documentario “famoso” grazie alla presenza del piccolo Francesco, vera star della pellicola il cui stralcio di conversazione gira e rigira nel web da molto tempo.
Probabilmente è opinione comune ritenere le congetture del bimbo di 9 anni l’apice del film, vuoi perché esprimono candore, vuoi perché alcune affermazioni hanno significato condivisibile e importante, eppure ritengo che un bambino con quell’età di certe cose non dovrebbe parlare, giusto o sbagliato non è questo il punto: per pensare al bene c’è tutto il tempo, a 9 anni è meglio dedicarsi agli aspetti ludici della vita (comunque sottolineati da Frank) che sono, appunto, la fonte di un corretto e proficuo rapportarsi con se stessi e gli altri.
C’è da dire che erano altri tempi (per il cinema e tutto il resto), ma c’è anche da dire che questo inserto appare più una strizzatina d’occhio allo spettatore che una maglia del tessuto filmico.

In breve: un documento d’Italia prezioso e curioso, Agosti è investigatore scaltro e provocatorio: l’ultima polisemica sequenza lascia pesanti detriti nello spettatore.

domenica 27 novembre 2011

Schwarzy rehab

In realtà il fatto che Schwarzenegger ritorni a calcare le scene dopo I mercenari è solo un'informazione collaterale, d'altronde io stesso risponderei: e chissene fotte!
Notizia ben più significativa è che lo fa alle dipendenze del talentuoso Kim Jee-woon, qui alla sua prima prova in territorio americano. Nel cast anche Forest Whitaker e Johnny Knoxville.
The Last Stand dovrebbe uscire nel 2013, ma se si pensa che Il buono il matto il cattivo è stato distribuito da noi con "solo" tre anni di ritardo, questo minimo minimo lo vedremo intorno al 2015.

venerdì 25 novembre 2011

Love Exposure

Film torrenziale, capodopera che va ben oltre la sintesi stilemica, Love Exposure (2008) non è soltanto la grondaia che raccoglie tutta la poetica di Sion Sono, ma fiume in piena che spezza gli argini per esondare, testualmente: affogare, la storia della civiltà contemporanea ricolma di opulenza e falsi dei che mascherano a fatica un vuoto interno universale, una tale assenza di bontà che lascia ancora una volta esterrefatti, a bocca spalancata, una devastante radiografia dell’uomo che si protrae per quattro cortissime ore in cui vengono annientati tutti quei capisaldi che fanno dell’aggregazione di persone una società, dell’aggregazione di sentimenti una famiglia, dell’aggregazione di umanità un uomo.
Love Exposure è prima di tutto disamina feroce verso l’erroneità insita nell’attuale vivere comune.
I personaggi sono costituiti da tutte quelle qualità negative esprimibili con il prefisso inversivo a: sono, ovviamente, amorali, ma anche apolidi per la loro caricaturizzazione che li allontana da un qualunque tentativo di collocazione, e sembrano astorici, con un passato che razionalmente, per quel che ci è dato sapere, appare impossibile possa essersi sviluppato così.
Nonostante questa loro essenza straniante improntata sull’ostinazione dell’eccesso, accade un miracolo che riguarda Sono come molti altri registi orientali, accade che pur avvertendoli così assurdi, folli, insani e dissennati, a conti fatti risultano incredibilmente reali.
Questo perché la loro appartenenza al mondo è esibita esacerbando processi più sotterranei e meno smaccati ma che comunque ci sono anche nella vita vera. E allora ecco che la misandria si trasforma in puro splatter, il fanatismo religioso in un tunnel che conduce all’infermità mentale, una piccola perversione si tramuta alternativamente in realizzazione personale e/o pietra tombale, l’amore è vissuto in maniera cristologica, strabordante di sofferenza e continue ingiustizie.
La società di Sono è una kermesse di tristi saltimbanchi, tristi come i nostri vicini di casa.
Love Exposure è inoltre l’annientamento del primo ambiente educativo per eccellenza.
In totale aderenza con il passato ed il suo futuro registico (molto ritornerà in Cold Fish, 2010), Sono demolisce con impetuosa spietatezza La Famiglia. L’atto di demolizione prolifera su più piani e su più livelli con i problemi che nascono già negli archetipi: Maria (La Madre) è una ragazzetta in balia di un odio viscerale verso la categoria maschile, Giuseppe (Il Padre) è un ragazzetto in balia dei suoi tumulti deviati, e Gesù sulla croce (pericolante) è muto osservatore di tutto questo.
Ma nello specifico, se si analizzano le famiglie dei tre protagonisti, si scovano grovigli da cui non c’è alcuna uscita di sicurezza; il padre di Yu è un vedovo, poi diventa prete (e quindi genitore, pastore, di una comunità), poi si risposa (e perciò nuovo marito e nuovo padre), poi disconosce il figlio e infine aderisce ad un nuovo credo religioso; la madre di Yoko è una donna libertina che si fa chiamare da sua figlia con il proprio nome (“più che una mamma, un’amica”), e sposandosi con l’ex-prete genera un nuovo equilibrio famigliare in cui aleggia prepotente l’aria dell’incesto (il filo rosa della pellicola viaggia sull’amore non corrisposto del fratellastro); Koike è una moglie che ha evirato il proprio marito e insinuandosi all’interno della nuova famiglia diventa sorella odiata/amata.
Padre madre, fratello sorella, i ruoli all’interno dell’ambiente casalingo vengono rivoltati nelle viscere, non c’è nessuna base su cui intessere una relazione se non quella costituita dall’inganno (tutta la manfrina di Koike), dal rifiuto (Yoko che allontana Yu solo perché è maschio), dal sesso (il prete ammetterà che stava con la donna solo per questo).
Ma Love Exposure è, quasi a sorpresa, anche un tragitto di formazione personale che incontra continui arretramenti, ostacoli dalla portata inevitabilmente deformante.
Figura centrale di tale processo è Yu che nel lungo incipit si manifesta come entità separata nella diegesi, ma comunque presente con la sua narrazione. Piano piano l’entrata in scena rivela l’acerbità adolescenziale e il desiderio – l’unico Sogno di tutta la pellicola e forse di un’intera filmografia – di trovare la sua Lei cosiccome la madre defunta gli aveva auspicato. Ma la crescita di Yu si subordina a fatti devianti: l’iniziale assenza del padre lo porta a commettere peccatucci di lieve entità che vista la conciliazione del prete che non vuole nemmeno farsi chiamare papà, si tramutano in “semplice” perversione con la maestria nel fotografare le mutandine sotto le gonne.
Tuttavia Sono è un maestro dell’accumulo e Yu si trova in poco tempo ad essere ripudiato dal padre, abbandonato come un cane, e soprattutto spappolato dentro, nell’identità, poiché in bilico agli occhi dell’amata fra il compagno di scuola/fratellastro imbecille, e l’eroina Miss Scorpion sprezzante del pericolo.
La parola d’ordine è: disidentificare. E Sono spinge prepotentemente in questa direzione.

Pur avendo un palpabile rallentamento nell’ultima ora al quale si aggiunge una risoluzione un po’ nebulosa (la riconversione di Yoko va rivista), Love Exposure è un film che attingendo alle più svariate enciclopedie, dalla commedia al softcore, dal gore al wuxia, dall’introspezione religiosa all’inettitudine terrena, non inciampa mai perché è un rullo compressore che spiana qualunque dislivello, e una volta passato lascia la consapevolezza che non c’è niente, ma davvero niente, in cui credere: né Dio o Gesù, né Padre o Figlio, ma solo aggrapparsi a vicenda come nell’ultimissima immagine sperando in qualcosa che si avvicina all’amore.
Se non immenso, praticamente gigantesco.

martedì 22 novembre 2011

Il cavallo di Torino

PRE-MESSA

Sono la persona meno indicata per parlare de Il cavallo di Torino (2011) perché ritengo Béla Tarr il più grande regista vivente.
Il più grande, sì.
Sono conscio che l’autore magiaro sul piano quantitativo non abbia un curriculum parificabile a quello di altri suoi colleghi – si badi bene però: il primo film Nido familiare risale al 1979 e ciò indica una carriera che ha oltrepassato i trent’anni di attività – ma consiglio spassionatamente a chiunque ami la settima arte di posizionarsi sul piano opposto per esaminare la sua filmografia, quello squisitamente qualitativo, in modo da comprendere, con disarmante stupore, che a Tarr sono bastati due film (ma uno vale quattro vista la durata) per diventare quello che almeno per me è: un gigante, e adesso che le voci su un possibile ritiro dalle scene non sono state né smentite e né confermate, lui ha comunque deciso di chiudere un cerchio. [1]
Capolinea. Basta. Stop. Fine di tutto.
Dopo Satantango (1994) e Le armonie di Werckmeister (2000) arriva il terzo Capolavoro totale capace di suggellare e definitivamente sigillare 17 anni di cinema che ora passeranno alla Storia e che dovranno essere ricordati ad imperitura memoria fino a quando non accadrà ciò che viene vaticinato in questo film.

R.I.P. CINEMONDO

Letargico e liturgico.
Tremando, con il cuore dentro quella schermata nera, sono le prime parole che mi sono sentito di accostare a A Torinói ló.
La prima perché, come era lecito aspettarsi, si tratta di un film eterno, che fa della dilatazione narrativa il proprio carburante, ed è una lentezza che non è mai l’anticamera di un’esplosione, piuttosto costanza visiva, impervia pianura che accumula in maniera indecifrabile, sottopelle, per poi colpire con scariche di cinema sopraffino. Nella prima ora e mezza non succede praticamente niente. E allo stesso tempo il richiamo a volgersi verso questa catapecchia schiaffeggiata dal vento è cogente, magnetico, ipnotico. Era già successo: non accade niente, accade tutto.
La seconda perché quel poco raccontato viene ripetuto durante tutti e cinque i giorni qui rappresentati.
La sveglia, la vestizione del padre, l’acqua del pozzo e il pranzo spartanissimo, assomigliano ad un rituale, un silenzioso protocollo: una cerimonia funebre.

Dall’esegesi alla diegesi: la ripetizione della forma e le reiterazioni musicali fanno del cinema di Béla Tarr un vero e proprio rito.
Parlando de L’uomo di Londra (2007) Sangiorgio dice che la maniera di Tarr prima che stilistica è morale (link). È vero. L’approccio di questo regista non cambia dai tempi di Perdizione (1988), il suo agire, il suo credo, soggiacciono ad autoimposizioni capaci di creare una sintassi che ad oggi non può avere alcuna comparazione.
Rifiutando ora e sempre le canoniche dialettiche del campo-controcampo, ogni film di Tarr, e questo non sfugge a tale regola, si edifica su sequenze in cui la mdp coglie traiettorie celestiali, microviaggi sospesi nell’aria, palpitanti riduzioni di distanza tra chi riprende e chi è ripreso, oppure con la sublimazione della stasi l’occhio di Béla se ne sta candidamente fermo catturando ciò che gli riesce fuori e dentro il campo.
Il modello di Tarr è così: avvolge la realtà, la indottrina secondo le sue regole, e la ripropone in uno schema che contempla al suo interno la quintessenza di cose che non si trovano facilmente altrove: della vita, della noia, della morte, dell’uomo.

Di fronte ad una manifestazione cinematografica di tale entità non si può tacere.
Non si può perché Il cavallo di Torino è un film incommensurabile, il capitolo conclusivo di un decennio iniziato, non a caso, con Werckmeister harmóniák [2] di cui quest’opera sembra la sua prosecuzione perché parte là dove si era concluso: da quella balena in macerie simbolo della follia umana. Ora, è il mondo intero ad essere in macerie.
Quindi nessuna argomentazione sul male, sul potere, nessuna disgregazione del Sogno (Valuska!): tutto è già successo, Nietzsche è impazzito, l’uomo alle soglie del nuovo secolo è solo, circondato da rovine e degrado, come dirà l’unico visitatore della casa.
Non c’è guerra, non c’è oDio, ma solo l’incontrovertibile verità della Fine.
Padre e figlia in una terra lontana da qualunque luogo e i segni di un’apocalisse silenziosa: come il vento biblico che spazza le foglie e spianta, estirpa, spezza ogni possibilità di speranza (una finestra sul niente); come i tarli che hanno smesso di far rumore perché non c’è più niente da rosicchiare; come il cavallo che prima non vuole partire e che dopo non vorrà più mangiare (accadrà la stessa cosa con la figlia); come il pozzo che improvvisamente si svuota; come una lampada che non riesce e non riuscirà mai e poi mai a schiarire tutto quel buio.
Guardare, mangiare, partire, bere. Verbi coniugati all’infinito alla base di ogni esistenza, e qui prosciugati di ogni senso, inariditi dall’avvicinarsi dell’eternità.

La scala emotiva che fa crescere d’intensità l’opera non ha eguali nel cinema moderno, merito della sopraccitata dedizione al ripetere che quando esibisce l’inceppamento del meccanismo rende quest’uomo e questa donna – e sì, pensateli pure scritti in maiuscolo – l’emblema dell’impotenza.
La Fine non è mai stata così enorme nel cinema, così sovrastante (leggi: sovrumana), così immensa, e di conseguenza l’uomo non è mai parso così disarmato, così povero (di qualunque cosa, sia dentro che fuori), così minuscolo alle prese con l’ovvietà delle faccende quotidiane.
E tale progressione si deve anche alle solite musiche stratosferiche di Mihály Víg che non sono un semplice accessorio, ma parte fondante che si integra totalmente nell’Immagine, innervandola, donandole potenza ed emotività, al pari di tutti gli altri film di Tarr che non sarebbero gli stessi senza le note del suo fidato collaboratore. Ma qui il riconoscimento per il comparto sonoro è doppio visto che per l’intera durata del film le nostre orecchie capteranno continuamente quel vento tremendo che spira fuori dalla casa, costante e ripetitivo, senza alcuna accezione negativa, come è il cinema di Tarr.

Capolavoro di inquietudine, The Turin Horse è un film che non può essere paragonato a niente semplicemente perché annichilisce tutta l’attuale produzione cinematografica. E per fare questo gli basta anche un singolo frame, si veda il primo piano del cavallo [3] o la fiammella della lampada.
Inquietante Capolavoro, A Torinói ló è anche il film che diegetizza in maniera assoluta il concetto di Apocalisse caricandola magnificamente di un’attesa che troverà sontuosa liberazione in quello che la voce off definisce, giustamente, un silenzio di morte.
Il probabile addio di Béla Tarr al cinema è, infine, un commiato di commovente bellezza che fa di questa arte territorio escatologico senza coordinate, l’avamposto prima del baratro, una lucina tremolante nell’oscurità che raggela.
Il cavallo di Torino è, dunque, il funerale della totalità, di ogni singolo elemento che costituisce la Vita, e noi non siamo altro che i partecipanti della cerimonia: i testimoni silenziosi della fine… di noi stessi. Almeno ora, speriamo di riposare in pace.

Visione definitiva: il Cinema e il Mondo come se li vedessimo per l’ultima volta.
____
[1] Ma nell’intervista che potete leggere qui (e fatelo, che merita), Tarr sembra non ammettere repliche sul suo ritiro. “Non sono un tipo che scherza. Se dico sì, puoi star sicuro che è sì. Se dico no, puoi star sicuro che è no.”

[2] Non fraintenda la data di uscita. A Torinói ló era già pronto nell’agosto del 2010 come avevo sottolineato in questo post.

[3] Pura impressione soggettiva, ma la suddetta scena ha la stessa potenza di quella con il vecchio delle Armonie. Devastante.

lunedì 21 novembre 2011

... e 4!

Ops… Oltre il fondo compie oggi 4 anni (cazzo.) e io me ne stavo dimenticando.
Quindi a ‘sto giro nessun sproloquio catastrofico, nessuna riflessione pessimistica, zero promesse di chiudere baracca e burattini.
No. Sul serio, probabilmente di quello che scrivevo in passato non ne ero nemmeno tanto convinto, avevo solo bisogno di sentirmi dire “oh, perché queste stronzate?”, “continua così!”, “sei abbastanza bravo, dài”. Eccetera, eccetera. Vabbè, siamo tutti in cerca di conferme, e in rete si trovano con una certa facilità.
Perciò ancora una volta grazie a chi c’è stato a chi c’è e chi ci sarà, sarà banale dirlo ma se io non fossi letto il blog sarebbe già morto e sepolto, davvero.

Da parte mia posso assicurare che ho sempre l’entusiasmo del primo post, e forse di più. Il motivo, banale, again, è che guardare film è una cosa bellissima, ma condividere l’opinione che se ne trae ancora di più.
Non ricordo chi diceva che il cinema libera la mente, forse nessuno perché gugolando non esce nulla, di certo la frase è vera e mi trova in totale sintonia.

Per festeggiare degnamente il compleanno fra 24 ore comparirà il commento (inadeguato) al film che attendevo con più trepidazione da circa un anno e mezzo due anni.

E poi è arrivato.

Ed è quello che mi aspettavo.

Un Capolavoro indescrivibile.

A domani con A Torinói ló.

domenica 20 novembre 2011

Gente che si può ascoltare


Loro sono i Rubik, band finlandese che solo per il paese d'origine mi sta già simpatica.
In più hanno partorito da poco il loro terzo album che si chiama Solar.
Lo stile è popeggiante e le reminescenze svariano, dal passato si modella un saltellante Boy George (Laws of Gravity), dal presente i Temper Trap e chissà quant'altri (praticamente il resto del disco).
Questa è Not a Hero. Robetta che comunque ti allieta un po' la giornata.

venerdì 18 novembre 2011

White Palms

LA VITA IN PALESTRA

Il ritratto che Szabolcs Hajdu ci dà della ginnastica a Debrecen negli anni ’80 ha in sé reminiscenze della situazione politica del periodo. Non è un allenatore quello che chiama i suoi allievi “figli”, e nemmeno un coach, lemma bandito in piena guerra fredda. No, quell’uomo con la tuta e il fischietto è un generale di pietra che attraverso le punizioni corporali impone le proprie regole, senza capire che quello è il modo migliore per far sì che non vengano interiorizzate.
La ferrea disciplina imposta ai ragazzini tramuta l’allenamento in un rituale silenzioso fuori dal mondo: in riga come soldati i piccoli atleti sono separati da tutto il resto, tanto che gli occhi dei genitori non possono vedere ciò che accade, e le coetanee sono al di là di un gigantesco sipario rosso valicato soltanto per diventare oggetto di scherno a causa di un esercizio mal fatto.
Il tutto ci viene offerto dall’autore ungherese tramite un dogmatico canale visivo iper-realista che rincorre le evoluzioni ginniche fino a far sentire il fiatone dei bambini, e forse anche il battito del loro cuore.

LA PALESTRA È VITA

Uno pensa che fuori dalla palestra le cose possano e debbano andare meglio, invece no.
White Palms (2006) oscilla fra dramma sportivo e dramma sociale rivelando una realtà ben poco confortante che si riassume nella sequenza casalinga dove Dongó, interpretato da adulto dal fratello del regista e che mai verrà chiamato per nome, viene presentato dai genitori come un piccolo arraffa-medaglie dai muscoletti pronunciati. Il mix di assenza famigliare, e severità opulente, rendono Dongó prima un bimbo in fuga, poi in bilico, e per finire un ragazzino che cade nel vuoto. L’uomo che ne esce fuori è un uomo con le ossa rotte, per certi versi ancora in fuga ma da cose a cui non può sfuggire, che contro il suo stesso volere ha interiorizzato quei modelli aberranti del vecchio allenatore, riproposti ora in Canada, segnando così un’evidente identificazione, corroborata dalla caduta, con l’insegnante-colonnello.
È una pellicola che ci parla di educazione, mettendo a confronto due diverse espressioni corrispondenti a due diversi risultati: la vittoria e la sconfitta, apogeo e perigeo della vita, forse non solo sportiva. Con questa duplice zona d’ombra da illuminare, anche il cinema si sdoppia costituendosi in un montaggio alternato fra prima e dopo precursore dell’indimenticabile climax in Bibliothèque Pascal (2010). Qui non abbiamo uno sforamento di una realtà nell’altra, ma il registro complessivo è di ottima qualità, e la morale che sgocciola giù dal finale consola un bel po’: anche perdendo si può vincere.

mercoledì 16 novembre 2011

Noroi: The Curse

Vedere Noroi: The Curse (2005) nel 2011 equivale a fare un viaggio nel futuro e capire che questo era un film già vecchio al momento della sua uscita.
La macro-traccia è quella che Ringu ha scatenato dal ’98 in avanti, ossia storie di fantasmi raccontate per dilatazione caratterizzate da accumuli di sottile tensione fino alla catarsi piazzata spesso e volentieri nel finale. Questo regista di nome Kôji Shiraishi, uno che nella sua carriera ha sempre trattato il campo del fantastico, per il suo lungometraggio decide di seguire i dogmi narrativi del j-horror (maledizioni, bimbi spiritati, folklore) attraverso un approccio che però si distingue dal genere, difatti ci troviamo fra le mani un’opera girata come finto documentario che a sua volta contiene tutti i topoi del caso (immagini tremanti, costruzione fittizia del contorno: la sparizione, l’invio della cassetta video).

C’era perciò un minimo di interesse data la variazione sul tema, ma bastano davvero pochi minuti per capire che se il come cambia, il cosa resta immutato. Superfluo stare qui ad elencare tutte le forzature che si possono facilmente rintracciare in un mockumentary – la domanda è sempre quella: possibile che questi avessero sempre la camera a portata di mano? –, più che altro preme al sottoscritto evidenziare l’inoffensività di un film del genere che fallisce laddove invece dovrebbe eccellere: Noroi non inquieta, non angoscia, non fa paura. Essendo il protagonista una specie di indagatore dell’occulto, buona parte della pellicola mostra le sue bolse procedure investigative che provocano ripetuti sbadigli, la componente che dovrebbe fare da contraltare, ovvero il Terrore, è talmente centellinata da risultare innocua, al punto che di fronte a delle fugaci apparizioni ectoplasmiche non si può che continuare a sbadigliare con il serio rischio di slogarsi la mandibola.
Le cose non migliorano nemmeno nel finale che vuoi per stile e ambientazione sembra avere un discreto debituccio con la strega di Blair, ma al di là delle somiglianze il problema principale è che non accade niente di interessante, non solo nell’ultima mezz’ora ma anche prima.

Esclusivamente per gli afecionados della categoria.

lunedì 14 novembre 2011

The Woman

Continua il sodalizio fra il regista californiano Lucky McKee (May, il suo esordio del 2002 è un ricordo piacevole) e lo scrittore Jack Ketchum, apprezzato narratore a tinte horror che da queste parti avete potuto incontrare con La ragazza della porta accanto (2007), adattamento di un suo libro uscito nell’89.
Così, dopo che i due si erano sfiorati nel 2005 con The Lost, l’incontro vero e proprio è avvenuto grazie al thriller Red (2008) che risultava essere l’ultima prova di McKee nel lungometraggio fino a gennaio 2011, data in cui The Woman è stato presentato al Sundance.

L’incipit graffia: nel soave paesaggio fluviale irrompe una figura strana, nera, sporca, bestiale.
Cambio scena ed eccoci a bordo piscina in un party molto cool pieno di sorrisi e festoni, eppure accadono micro-eventi sospettabili: un dialogo tra il padre Chris e una vicina che vuole cambiare casa; il figlio che “si gusta” le prepotenze degli amici ai danni di una coetanea.
McKee getta nella prima manciata di minuti qualche indizio che si rivelerà prova con l’avvicendarsi della trama, la famiglia presa in esame è totalmente succube dell’autorità patriarcale, o meglio, l’assoggettamento è tale soltanto per chi appartiene alla sfera femminile, tanto che se si misurano gli indizi con adeguato metro, si scopre già dall’inizio, e poi sempre più marcatamente, di come ci sia una complicità tale tra padre-figlio che non è riscontrabile con gli altri componenti della famiglia.
L’andazzo sembra durare da tempo e basta leggerlo negli occhi di una dimessa (e notevolissima) Angela Bettis che subisce senza a né ba il volere del compagno, e tra i due la scena dello schiaffo diventa manifesto di una relazione insopportabile, per lei e per chi guarda.

Un altro termometro atto ad indicare la pessima situazione casalinga è dato dalla figlia maggiore, una altrettanto brava Lauren Ashley Carter, che non avendo il coraggio di esplicitare il peso che porta in grembo, si chiude a riccio in se stessa distanziandosi ancora di più dalla tirannia maschile, e dando perciò maggiore risalto alla cattiveria dell’uomo.
Questo è dunque il mondo (che dovrebbe essere) civile ivi rappresentato. L’impatto distruttivo lo si ha con l’entrata in scena della sauvages che porta con sé significati bisognosi d’analisi.
Innanzitutto la sua provenienza è un luogo d’Origine come un bosco, e nel cinema abbiamo visto quanto i grandi autori si siano affidati alla forza primigenia degli alberi per esplicitare contenuti.
In secondo luogo la donna in questione deve essere vista come La Donna, poiché non avendo nome si porta sulle spalle il peso di una categoria che nella Storia passata ha sempre dovuto lottare ottenendo poche meritate vittorie. In sostanza è quello che Medem avrebbe voluto fare con Chaotic Ana (2007) senza però avere la stessa efficacia di questo McKee che rispetto al suo collega avrà avuto molto meno tra le mani (e in tasca) su cui poter lavorare.
Infine La Donna sposta numericamente l’ago della bilancia verso il team delle girls perché senza contare la cucciola di casa si hanno due uomini e tre donne, per la serie l’unione fa la forza il marcio equilibrio fino a quel momento dominante è destinato a sfaldarsi.

L’osservazione di Elvezio Sciallis (link) sul fatto che a fare male non sono tanto le torture, comunque contenute, ma altri piccoli fatti che sommati creano la famigerata valanga, e che colpiscono più a fondo delle varie sevizie le quali non scivolano mai nella gratuità e non mostrano nulla se non due catene e una ciotola di cibo, è molto pertinente, per questo, oltre a trovare ampi consensi nel sottoscritto, il comparto drammatico si forgia sulla sempre credibile disumanità dell’uomo invece che su reiterate quanto noiose angherie.
È la figura paterna a meritarsi l’occhio di bue del nostro odio perché il suo ruolo evade lo schermo per farsi metafora attuale, e se il potere è l’immondizia della storia degli umani come dice il poeta, qui ne abbiamo un esempio quanto mai incisivo.

Il tutto porta ad una conclusione che comincia con la scena migliore del film in cui durante la visita della maestra assistiamo ad una pregevole alternanza di campi, e prosegue in un bagno di sangue dove resterete a bocca aperta per un colpo di scena che a prima vista potrebbe apparire un po’ pretestuoso ma che in seconda battuta getta ancora più merda sul padre e sulle sue azioni.

Le mie parole spero non siano travisate, ovvio che non ci troviamo di fronte ad un altro Dogtooth (2009), opera vicina all’esaustiva definizione del termine dispotismo, e lo si intuisce dalla cornice che è lontana da un cinema come quello di Lanthimos, ma proprio per questo è piacevolissimo rintracciare in quello che è solo (?) un horror segni e significati non rintracciabili in altri prodotti del genere.
The Woman è, insieme a Red White & Blue (2010), il mio film sull’America dell’anno proprio perché entrambi raccontano in un modo e di un mondo che non sembra l’America, invece lo è, e fa davvero paura.

venerdì 11 novembre 2011

Eat, for This Is My Body

I fatti dicono che Mange, ceci est mon corps (2007) rappresenta il debutto sul grande schermo per Michelange Quay, regista nato a New York da genitori haitiani. I fatti dicono questo, tuttavia il riscontro pratico mette in evidenza una grafia cinematografica di livello superiore alla media, tanto raffinata quanto audio-visivamente sperimentale.
È un film che inizia planando (presumo che la ripresa sia stata effettuata tramite un deltaplano o simili), e perciò comincia con un arrivo, il nostro. Più o meno efficacemente si fa strada l’idea che questa pellicola prosegua attraverso antitesi, alcune sono praticamente immediate altre decisamente più sotterranee.
Salta subito all’occhio il contrasto cromatico fra bianco e nero che non riguarda solo la pelle degli attori in scena, sarebbe troppo facile se no, ma anche gli abiti e gli interni della villa (notare le camere da letto), a ciò si aggiungono le inverse figure dei personaggi che segnano opposizioni semantiche: Madame e la sua vecchia madre nel letto, il maggiordomo e il misterioso albino che si aggira nella villa. I ruoli hanno una certa intercambiabilità che viene sottolineata nella duplice scena della vasca da bagno con Sylvie Testud e il servo di colore che capovolgono in due atti il proprio status filmico.Altra contrapposizione è data dalla musica. Fuori dalla villa esplode nei canti tribali della plebe, dentro all’edificio risuona nelle corde di un pianoforte, il quale a sua volta contiene un ulteriore contrasto fra il silenzio e la melodia. Pare suggerirci qualcosa questo, che l’armonia palpita negli uomini e non negli strumenti [1], ma ciò sembra solo un fatto collaterale poiché la summa delle varie posizioni antitetiche va a ricondursi in una denuncia d’essai ecoambientalista.
La dissonanza estrema fra i due mondi qui ripresi si mostra in tutta la sua urgenza, distorsioni fra ricchezza e povertà, utopia e realtà, fra chi mangia e chi sta a guardare (scena capolavoro).
Le difficoltà di comprensione sono comunque tante e scoraggeranno chi è poco avvezzo a un tipo di cinema così. Quay si mette a fare l’autore, e probabilmente lo è, dando personalità alla pellicola attraverso l’escamotage del mutismo che se si esclude l’intenso monologo della vecchia Madre Natura pervade l’intera opera. Il tono poetico del regista si prospetta come punto di incontro fra i corridoi malinconici del Bartas anni ’90 e la chirurgica estetica di Drawing Restraint 9 (2005), le traiettorie visive si alternano, ma su tutte spicca la predilezione di Quay verso le panoramiche circolari che con il loro lento movimento svelano il campo visivo.

Se dunque Eat, for This Is My Body si caratterizza per continue opposizioni interne, anche il giudizio finale deposita sentimenti contrastanti. Pur avendo assistito ad una pellicola che nega il principio del racconto, si afferra di come il precipitato abbia grande spessore.
Un film da ri-vedere.
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[1] A onor del vero vedremo anche delle persone di colore utilizzare degli strumenti, addirittura un mixer!, “per fare musica”, perciò gli interrogativi proliferano.

mercoledì 9 novembre 2011

Orozco the Embalmer

Shockumentary sui generis, Orozco el embalsamador (2001) è un documentario diretto da tal Tsurisaki Kiyotaka, nato in Giappone nel ’66, ex regista di film porno e ora fotografo di cadaveri, un mestiere tra i meno invidiabili devo dire, che stuzzicato dalla violenza brutale della polizia di El cartucho ha portato nel ’98 in questo sobborgo di Bogotá la sua piccola videocamera per riprendere ciò che vi accadeva. Qui fa conoscenza con Floiran Orozco, un signore sulla sessantina che di lavoro fa l’imbalsamatore, ma tale professione si differenzia un poco dalla concezione che abbiamo noi della tassidermia poiché i soggetti che finiscono sulla sua griglia non sono animali bensì esseri umani, morti.

Il cinema si annienta per far posto alla realtà che più reale non si può: corpi aperti come libri che nessuno ha mai letto, budella che si riversano a fiumi per farci intendere che dentro abbiamo molte più cose che fuori, e poi occhi vitrei o palpebre socchiuse che quasi sembrano addormentate, la pelle giallognola puntellata da lividi, i sessi rattrappiti, l’odore acre che trascende lo schermo. Ed è tutto vero. A confronto Nacho Cerdà dal punto di vista pratico ha fatto un film per poppanti con il suo Aftermath (1994), qua ci troviamo di fronte ad una vera e propria pornografia della morte che non cela niente allo spettatore. Questo potrebbe far pensare che Orozco sia soltanto un derivato dei mondo-movie giunto fuori tempo massimo, eppure la discordanza a mio avviso sostanziale è che Kiyotaka a differenza di Jacopetti & co. non ha alcun fine pseudo-didattico tendente al ridicolo nell’impostazione filmica poiché la sua opera mira al pragmatismo assiderale, e Orozco ne incarna bene lo spirito: lascia allibiti la naturalezza con cui maneggia i corpi senza vita delle persone, e sconcerta ancora di più la percezione che lo spettatore ha delle salme e in particolare dei loro visi che paiono ancora, vi giuro, effettuare delle espressioni facciali. Da brividi.

Ammesso e non concesso che la pellicola in esame sia una roba da cultura più sotto dell’underground, se c’è qualcos’altro al di là di pance svuotate e teste scannate, ecco che si palesa un quadro sociale di una povertà così allucinante da lasciare esterrefatti. Raramente ho visto nel cinema, anche se c’è da chiedersi se in questo caso è giusto parlare in tali termini, una presa così annichilente sulla miseria del sottoproletariato. Le prevedibili derive illegali (droga e prostituzione) vengono doppiate da un ambiente malsano che sfocia in immagini crudissime, su tutte un cadavere disarticolato pucciato nel suo stesso sangue con una bimba (una bimba vestita di viola alta neanche un metro) che a due passi se ne sta lì a guardare una cosa più grande di lei. E di noi.

Un film che andrebbe scritto tra virgolette, un documento funereo che stimolerà i vostri succhi gastrici, una visione disturbante/rivoltante priva di speranza come le ultime istantanee, forse di un post-terremoto, che mostrano naturalmente le macerie di una, della, civiltà.

(e un uomo nascosto sotto il manto stradale fra topi e rifiuti)

lunedì 7 novembre 2011

Les amours imaginaires

È opportuno partire da dove ci eravamo lasciati.
Xavier Dolan: è nata una stella?
Questo interrogativo, che sicuramente non vi avrà fatto dormire per notti e notti, va posto alla luce di un’opera seconda che si incarica, in linea teorica e anche a confronto con un ottimo esordio, di dare riconferma delle abilità mostrate in precedenza, con l’aggiunta, magari, di qualcosa in più che possa favorire maggiormente l’apprezzamento. È un discorso di aspettative, J’ai tué ma mère (2009) ha incontrato in chi scrive un convinto sostenitore, vuoi per le qualità proprie del film che ci sono, vuoi perché ritornando a quel discorso, chi l’ha diretto aveva solo vent’anni.
Pensando al fatto che Les amours imaginaires arriva soltanto 365 giorni dopo il primo film di Dolan, la mia stima nei confronti di questo giovanissimo rimane immutata tanto che sui difetti presenti si può chiudere un occhio per poi riaprirlo: Heartbeats scorre, si guarda, e piace.Chi è alla ricerca di innovazioni plottistiche è meglio che scelga altre strade filmiche perché il ragazzo nato a Québec lavora su una pietra che da molto ha oltrepassato la soglia dell’inflazione, ipocentro dell’opera è infatti un triangolo amoroso dove due amici di vecchia data (Monia Chokri e Dolan stesso) si innamorano di un angelico belloccio (Niels Schneider), il quale, come è intuibile dal titolo in francese, non se li fila neanche di striscio.
Le premesse sono queste e da qui non si sfugge, che lo si voglia o meno il menage a trois è la base della storia, ma invece di storcere il naso è a mio parere apprezzabile la voglia che Dolan ci mette nell’esposizione proponendo vie alternative e parecchio personali. Principalmente agisce di scalpello nell’area-scrittura sottraendo alla sceneggiatura momenti solitamente rapiti dalla mdp in una relazione sentimentale e qui felicemente ovviati: elementi cardine come l’incontro, la conoscenza reciproca, l’infatuazione, il tormento e il distacco, pur seguendo il classico schema del genere, ci vengono trasmessi attraverso anche singoli piani piuttosto che con un intreccio di sequenze; solo un esempio in mezzo a molti altri: quando all’inizio Marie e Francis tagliano la verdura, lui alza la testa in direzione di Nicolas, ciò è un lodevole suggerimento per comunicarci l’inizio dell’interesse verso il biondo giovine.
Ritornando a J’ai tué ma mère e al tema della riconferma, si può prendere atto del distaccamento personale da parte di Dolan che non trovandosi più a maneggiare un (semi)biopic, è costretto a rinunciare a quell’Io=tutto, e così al posto di un atteggiamento impetuoso viscerale nonché giustamente (per l’età) irrazionale, si sostituisce una condotta più pacata per un personaggio decisamente meno naif, bravo Xavier nel cambiare tono, ma si perde un po’ di appeal nel tragitto.
Parliamo dunque di un film più impaginato rispetto a quello che l’ha preceduto, perciò non sfuggirà la geometria della struttura costituita da blocchi che si ripetono:
blocco-intervista (retaggio dell’esordio)
blocco-storia (la narrazione che, come detto, si affida principalmente all’immagine)
blocco-bang bang (la voce di Dalida che diventa simbolo del film)
blocco-letto (luci alienanti con successivo ralenti)
Se ne deduce che l’attenzione verso il comparto estetico è notevole e non può che far piacere.
La mia opinione è che con un soggetto così banale non era facile cavare un qualcosa che non grondasse miele né si ammorbasse di facile sentimentalismo, l’obiettivo di offrire un vestito diverso per vetusti topoi è stato raggiunto, può garbare o meno ma di questo è doveroso prendere atto.
Se sia nata o meno una stella è presto per dirlo, un luccichio, però, sicuramente c’è.

sabato 5 novembre 2011

Due graditi ritorni

Amen

Il primo, decisamente più imminente vista la premiere al Festival di San Sebastián, segna la resurrezione di Kim Ki-duk che abbandonati i video-piagnistei di Arirang è tornato a girare un film di fiction dopo 4 anni.

Holy Motors

Il secondo, che si farà attendere ancora un po’ data l’uscita prevista per il 2012, rappresenta la riapparizione del regista francese Leos Carax, poco conosciuto al grande pubblico ma di grande talento, ne sentirete parlare su questi schermi. Per inciso, non girava un lungometraggio dal 1999.

venerdì 4 novembre 2011

Il giardino delle delizie

Carlo e Carla.
Più che due nomi, una sovrapposizione, e calzerebbe a pennello visto che i protagonisti de Il giardino delle delizie (1967) sono due freschi sposini. Eppure si sente chiaro e tondo che c’è attrito fra la coppia, malumore, ruggine, distanza, soprattutto dalla parte maschile. Assenza di armonia, e infatti.
Suoni disarmonici: la cassetta del bagno che brontola.
Ricordi (recenti) sgradevoli: Carla insopportabilmente rimembrata.
Ricordi (remoti) de-formanti: la famiglia rigida, l’educazione cattolica.
Un uomo, oggi, perso: Carlo nel suo labirinto mnemonico.

Non si fa fatica a pensare che un film così, con un’impostazione così, abbia trovato poco spazio nel panorama cinematografico del tempo. E, puntuale, all’ostracismo si unì la censura che amputò il film di circa 20 minuti. Plausibile visto che l’intento (riuscito) dell’opera fu, come dice Filippo Schillaci, quello della “messa a nudo del matrimonio borghese visto con occhi insofferenti, mostrato in tutto il suo repertorio di opprimenti luoghi comuni e di parti prescritte.”
A parte questi fattacci che tra l’altro ritorneranno dieci anni dopo con Nel più alto dei cieli (1977), l’esordio di Silvano Agosti è decisamente ambizioso perché pur recintando la storia in una stanza il regista lombardo evade i confini del reale attraverso il flashback che diventa l’espediente principe su cui edificare la cronaca di questa luna di miele. La fluidità non è ammessa, il montaggio alternato in cui trionfa il Dettaglio graffia la percezione, passato e presente si mescolano per divorarsi a vicenda. Non tutto è forse così chiaro, ma tutto è senza dubbio affascinante.

Cinema (quasi) d’autore, e cinema impegnato a dinamitare due universi educativi: chiesa e famiglia.
Non sarà particolarmente innovativo (ma siamo nel ’67!) cercare eziologicamente nell’infanzia l’origine dei problemi attuali, tuttavia Agosti piace perché non le manda di certo a dire e con personalità stilistica frantuma in pochi fotogrammi l’istituzione-chiesa (potente la confessione con il vecchio prete che si addormenta mentre Carlo-bimbo ammette le sue malefatte, senza pentirsene) e l’istituzione-famiglia (gelo commensale – e sentimentale – che conduce alla blasfemia con una bambola crocefissa).
L’ultimo colpo viene sferrato al matrimonio ed è, inevitabilmente, una stoccata che riassume tutto il disagio derivante dal passato ed esplode in un tradimento che si concreta nella seconda notte, nuovamente tutto non così troppo limpido, ma nuovamente ha un che di magnetico.

Sarebbe interessante vedere la porzione censurata, resta un’opera d’avanguardia spogliante, attenta sia al veicolo che al sottotesto, proteiforme, materia psicologica vintage, attuale e non contemporaneamente.

mercoledì 2 novembre 2011

Melancholia

Strano il mio rapporto con von Trier, strano il mio rapporto con chi lo critica, e con chi lo esalta.
Per sommi capi: quando un suo film è piaciuto in maniera più o meno unanime (vedi Le onde del destino, 1996), io mi sono trovato parecchio in disaccordo, quando invece ha realizzato degli aut-aut su pellicola sono passato autocoscienziosamente dalla parte dei buoni, o dei cattivi, dipende sempre da dove si guarda (vedi Antichrist, 2009).
Neanche a dirlo Melancholia (2011) ha infervorato positivamente il pubblico che affolla forum e blog vari, ossia quella che si presenta come la critica meno dotta ma più schietta, mentre a scrive è parsa come da copione una delle già conosciute masturbazioni filmiche del danese, opera bella, senz’altro, nell’accezione estetica del termine, ma coesiste (/persiste) con questa smaccata superiorità visiva una sorta di vacuità, di sfocatura, di aridità argomentativa; non tanto per poco spessore tematico, piuttosto per la vastità insita nell’intento: la fine del mondo comporta la fine di tutte quelle cose che fanno del mondo il mondo, e nel passaggio [1] della riduzione in scala (l’umanità, e quindi – anche – il mondo, miniaturizzata all’interno delle sorelle antitetiche) la pellicola si arena letteralmente, e pragmaticamente: annoia, soffocata dalla prolissità della prima parte che più che verbale definirei “registica” (l’insistenza sul metodo), uccisa dalla seconda che nonostante punti, finalmente, sull’accumulo tensiogeno, in fondo lo scheletro fantascientifico lo si deve rimpolpare, fa sì che tutto confluisca nell’immaginario predittivo.

Passi l’imponente prologo che avrà migliaia e migliaia di visualizzazioni su Youtube ma che risulta un amplificato riciclo dell’incipit rallentato di Antichrist, cambia nell’immissione del colore e, ovviamente, del materiale ripreso, non cambia l’emissione di musica classica (qui Wagner) a fare da sottofondo, e soprattutto rimane immutata la plasticità conferita ai corpi in movimento, passino dunque questi minuti che si sedimenteranno nella memoria cinefila, ciò che invece non vi starà a lungo, almeno nella mia di memoria, è la bipartizione del narrato, soprattutto il segmento della Dunst che possiede elementi di debolezza.
Intanto la panoramica umana all’interno della festa non trova nessunissima protesi nella seconda parte: perché la riottosità della Rampling? Il dongiovannismo del padre? E il capo d’azienda con l’inutile comparsata del ragazzetto messo lì giusto per istituire ufficialmente l’oscillazione planetario-umorale della protagonista? Ecco, se tutto quello che circonda Justine non è ben impaginato, la sua stessa figura fatica a trovare consensi empatici in chi la guarda, se il suo stato bordeline è dovuto all’avvicinarsi di Melancholia, o se lei stessa può essere metaforicamente vista come quella fetta d’umanità depressa di cui Lars fa parte, non pare avere incisiva rilevanza.
Il tutto è poi immortalato attraverso una linea visiva prossima alla nausea che urlando la propria cifra distintiva trova soltanto il proprio riflesso nello specchio, cosa già successa agli albori nella trilogia europea ed anche in altre opere disseminate nel curriculum trieriano che sembrano preoccuparsi più di come raccontare piuttosto di che raccontare.

La parte della Gainsbourg ha un appeal differente, e sebbene risulti troppo indipendente rispetto a quella che l’ha preceduta, ha almeno la piccola qualità di farsi seguire, semplicemente perché la strada intrapresa sembra poter aver una conclusione degna del nome, ma la speranza di una rivelazione, di un ribaltamento percettivo, viene offuscata dalla catechizzazione di Trier che incanala i significati all’interno delle due sorelle, una cocciuta ad aggrapparsi alla vita, l’altra rassegnata nel perderla. Io, in tutta onestà, non ho visto nient’altro, se non la didascalica contrapposizione fra le caratteristiche di Claire (mora, madre, “borghesizzata”) e quelle di Justine (bionda, nemmeno moglie, ribelle).

Radiato dal Festival di Cannes a causa delle sue simpatie poco raccomandabili, Lars von Trier è da sempre un malizioso accentratore d’attenzione, e pur avendo un fiuto registico fuori dal comune, è parso molte volte che il personale narcisismo non abbia dato voce a quell’amore artistico verso il cinema che egli possiede, alternando così opere stratosferiche a capitomboli prossimi alla provocazione, ma Melancholia non sembra appartenere a nessuno dei due ranghi, solo un’opera monca, inerme, anestetizzata dalla sua estetica e desertizzata dall’impalpabile emotività.
Se questo è un film disperato, la disperazione è diventata un surrogato della banalità.
Amaramente, una delusione.
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[1] C’è un ulteriore passaggio.
Dal pessimismo intimo e personale di Antichrist si passa a quello su vasta scala di Melancholia.
Il salto è mortale e non ha felice atterraggio, se il film precedente grondava sofferenza da ogni fotogramma, qui il guscio patinato non lascia passare niente.