venerdì 30 settembre 2016

One on One

Mi chiedo come sia possibile che Kim Ki-duk non capisca di quanto il nuovo corso da lui intrapreso sia robetta alla stregua dei suoi film giovanili, ma almeno lì, sebbene si trattasse di oggetti più rudimentali, verdi, improvvisati, c’era un che di vitale, un qualcosa che aveva un’anima, adesso, da Arirang (2011) in poi, l’encefalogramma si è fatto piatto, anzi: è in perenne picchiata, tanto da poter affermare che ad ogni sua uscita artistica l’idea, poi prontamente smentita dal titolo successivo, è che non si possa far peggio di così. Non so e non voglio nemmeno pensare troppo se One on One (2014), altro lavoro spinto a Venezia dove evidentemente Kim è bene ammanigliato, sia meglio oppure no di Moebius (2013), è comunque una sfida al ribasso e solo che stare a rimuginarci sopra appare un’inutile perdita di tempo. Personalmente, tenendo a mente la discutibilità dei gusti personali, il mio sentire è ormai lontano ere ed ere dalla proposta del sudcoreano, direi che in sintesi non condivido nessuna delle sue scelte a partire dall’uso del digitale che se viene impiegato come l’analogico allora perde di senso e ci restituisce un’immagine dozzinale, chiaro che dietro una tale estetica ci siano motivazioni economiche (e si vede che non ci sono soldi, la tizia della banda ha sulla spalla uno scorpione fatto con un trasferello!) ma noi cosa ne possiamo? Se l’alcova della gang sembra il set di un b-movie o di un porno se ne prende atto consci che la prossima volta ci si penserà due volte ad avventurarsi in un film di Kim Ki-duk.

Tralasciando la resa formale anche la componente argomentativa non brilla per eccezionalità, ma proprio per niente: tutto questo pasticciato discorso su chi impartisce e su chi esegue gli ordini, sul potere, e sulla violenza da esso derivante è di una sterilità che bisogna vederlo per crederci. Se vi erano dei richiami politici, questioni che il Kim di un tempo sapeva trattare dignitosamente: The Coast Guard (2002), si sfaldano progressivamente denudando il vero nucleo di One on One che è, per la milionesima volta nel cinema orientale, una storia di vendetta personale, il che ci riporta forzatamente al recente Pietà (2012), altro film che aveva nei binari vendicativi la propria capacità deambulatoria. Nell’insieme l’impressione che ha colpito chi scrive è che manchi una componente fondamentale per fare cinema: la professionalità, ed è strano perché parliamo di un autore con una ventina di pellicole alle spalle, ma se non sapessi niente di faccende extrafilmiche e venissi sottoposto alla visione di One on One azzarderei la possibilità di avere a che fare con un regista proveniente dalla tv o con un semi-esordiente. Probabilmente il periodo di afasia creativa che colpì Kim dopo Dream (2008) si sta ripercuotendo adesso con un tentativo che quasi fa tenerezza di tornare ai bei tempi andati girando a ritmi vertiginosi (ad esempio IMDb ci informa che questo film è stato fatto in soli dieci giorni e che la sceneggiatura è stata scritta in itinere), i tempi però cambiano e con loro le persone, non so neanche se ora, nel 2016, apprezzerei tutto quel simbolismo che permeava il suo momento d’oro, ma di un fatto sono sicuro: l’approssimazione generale condita da un’aridità tematica non le avrei accettate nemmeno dieci anni fa.

martedì 27 settembre 2016

The Human Surge

Si era potuto intendere guardando Pude ver un puma (2011) che Eduardo Williams fosse uno di talento, e adesso che dopo una manciata di corti è finalmente arrivato il lungometraggio di debutto la supposizione è diventata piena conferma perché El auge del humano (2016) è un film che si configura come unico, e non tanto nel metodo perché si tratta di un cinema del reale con annessi pedinamenti/stalkeraggi nei confronti degli esseri umani in scena che all’incirca abbiamo già visto (basta rimanere in Argentina: Leones, 2012), quanto nella concertazione complessiva che, come puntualmente sanno fare i grandi film, continua a macerare anche dopo l’alienante sequenza di “ok”, e attraverso uno sguardo di insieme il più oggettivo possibile quella che si apre dinnanzi a noi è una grandezza che stona, un jet lag da cui non è così facile riprendersi poiché qui, semplicemente, si viaggia, e non per farla semplice, davvero: Williams ha creato un’opera errabonda che rimpalla in tre continenti diversi, che si immerge a mo’ di sub in tre culture diverse, che le spia, le assorbe e le espelle, ma la cosa quasi clamorosa è che la triplice divergente veduta alla fine risulta più convergente di quanto appaia in superficie, questa credo sia la possibile chiave per comprendere il film, o almeno provare a farlo: in El auge del humano si racconta di un tragitto vorticoso che ha una latenza di immobilità e sollevato il coperchio dentro vi ritroviamo null’altro che il nostro mondo.

È sempre bello, e in un certo modo confortante, sapere che esistono giovani cineasti capaci di tratteggiare un cinema inevitabilmente “piccolo” ma dalla gittata potenzialmente universale, e Williams non può certo nascondersi, la sua opera prima mira in alto, mira alla comprensione della modernità come fenomeno di iper-connesione: d’ovunque (dalle strade polverose del Mozambico alle giungle filippine) si è connessi, allacciati ad altre persone profondamente uguali tra loro. El auge del humano racconta perciò dell’unica globalizzazione che si è realmente compiuta negli ultimi vent’anni, quella informatica, mostrandone però le sue pericolose derive perché, va sottolineato, il film propaga tossine rattristanti e deprimenti, tanto che nelle prime due porzioni aleggia un processo di disumanizzazione a cui è scomodo assistere, e non si tratta solo del vendere sesso in una videochat gay, quanto nella bravura del regista nel carpire lo status disorientato di una gioventù apolide che ozia e va a zonzo e che sembra riporre ogni speranza verso la tecnologia e quegli oggetti che ci tengono “al sicuro”, che ci tengono on line. Non è un caso che il film si chiuda in modo freddo e distaccato su una catena di montaggio che produce dispositivi hi-tech, l’illusorio apice dell’umano sta lì, nella finta sicurezza di poter racchiudere il mondo dentro una scatoletta di plastica e circuiti.

Il Link è la sostanza che accomuna tutto ciò che si vede ne El auge del humano ed anche di ciò che lo costituisce, illuminante a tal proposito il passaggio dal Sud America all’Africa che avviene attraverso la trasformazione di una web-cam in videocamera al quale si subordina l’effettiva mutazione dal 16 mm al digitale, da applausi scroscianti, invece, il collegamento tra l’Africa e l’Asia dove la penetrazione di un formicaio, riduzione in scala di una realtà tutta cunicoli e budelli, si avvale del superamento del razionale per certificare la gigantesca dimensione ipertestuale che segna la contemporaneità, ed il film infatti è al di là di ogni interpretazione la scentrata trasposizione dell’ipertesto ante litteram: la realtà.

Grazie mille a Dries senza il quale non avrei visto nulla di quanto appena descritto.

domenica 25 settembre 2016

A Fábrica

In un Paese come il Brasile dove l’asfaltante progressismo di Lula ha completamente eliminato il ceto medio, ci sarebbe bisogno di molto più cinema rispetto a quello che, almeno il sottoscritto, ha potuto visionare negli anni (i suggerimenti sono ben accetti). In attesa di portate più sostanziose, per colmare la latitanza si può anche sbocconcellare con A Fábrica (2011) di Aly Muritiba, cortometraggio che fa leva su un effetto automatico della povertà: la prigione. La tematizzazione del carcere, e dell’uomo obbligato a vivere in tale ambiente, sfocia in un taglio che nella settima arte odierna è la routine, la ricerca ostinata di un realismo comporta la pedissequa marcatura degli attori in scena, una soffocante stretta sui corpi che qui, vista l’ambientazione, non risulta stonata (Muritiba è così interessato al mondo-galera che nel 2013 partorirà un altro film girato in un penitenziario: Pátio). Fiorisce, allora, un frutto piccolo finanche acerbo ma con una veste formale che si guadagna comunque la dignità minima per farsi seguire fino al suo quindicesimo minuto.

Scorrendo il ricco palmarès di A Fábrica salta all’occhio il quasi accesso alla magica cinquina per la vittoria dell’Oscar, non si tratta di una bazzecola perché tutti sappiamo che se un prodotto cinematografico giunge alle porte di Hollywood non ci sarà pressoché nulla di interessante per degli infaticabili cinefili, così la chiusura da family-drama potrà risultare commovente per i multisala-friendly e, viceversa, urticante per coloro i quali rifuggono ogni eccessiva intensificazione sentimentale. Accogliendo l’ammissibilità di ambedue le posizioni, cerco di trovare un approdo sicuro nel summenzionato contegno generale; già il fatto che non si sbandieri la condizione del prigioniero fa acquistare dei punti, inoltre la compostezza diffusa si riverbera (o si genera) anche dall’umanità in scena con l’anziana mamma, esempio principe di quanto vado dicendo, che con uno stratagemma è capace di sterrare almeno una valida lettura (la maternità della vecchiaia: partorire un cellulare dentro un lurido cesso per aiutare il proprio figlio), anzi due (la paternità di un detenuto: la menzogna appesantisce più della clausura). Il quadro è questo e al netto della piaga sentimentalistica, un’afflizione che riguarda la maggior parte degli oggetti narrativi (con qualunque chiave di volta: il colpo significante è un obbligo, ma quanto vale invece un’indefinibile apertura?), A Fábrica si rivolge a voi con umiltà e un rispetto accettabile per la vostra intelligenza, bistrattarlo troppo no, dài.

venerdì 23 settembre 2016

Rubus ulmifolius

Mio figlio, un giorno, si ricorderà…
della chiesa abbandonata nel piccolo paese dove io nacqui molti anni prima, del suo gioioso vagare per le strade di campagna e dello strisciare sotto il muro di rovi spinati (ahi!) davanti all’entrata della chiesina, dell’aria sacra e perduta che i confessionali sventrati e le panchette impolverate emanavano, dell’altare disadorno ridotto ad un blocco di marmo sporcato dagli escrementi dei ghiri, della sagoma del crocefisso tatuata sul muro, del silenzio che lo circondava e della sua preghiera infantile in cui chiedeva dove io fossi finito.
Io che ero lì, un naufrago che cerca in tutti i modi di sbracciarsi per farsi notare dalla nave: per riuscire ad abbracciarlo. Ma quanto sono lontani questi mondi? Allora dall’abside diroccato planò San Francesco insieme a tre colombe bianche ed Egli posò la sua mano di luce su quello che nell’altra vita era il mio cuore. Quando il bambino uscì vide che nell’intrico di rovi si era aperto un sentiero e che sui rami spogli erano cresciute delle panciute more nero-violacee e che tutto era diventato verde come smeraldo. Un giorno lontano lui ricorderà tutto ciò, ma adesso fate attenzione: sta nascendo! Lasciatemi essere felice ancora per un po’.

Eluvium - False Readings On

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mercoledì 21 settembre 2016

Free Fall

Non il tributo nostalgico di Final Cut (2012) e nemmeno la ricerca sul realismo di I Am Not Your Friend (2009), dobbiamo tornare più indietro per trovare un Pálfi assimilabile a quello di Szabadesés (2014), precisamente al film-porta che lo fece conoscere al mondo: Taxidermia (2006), forse nemmeno: Free Fall è un’altra cosa ancora, decisamente inferiore. Coadiuvato dall’inseparabile penna di Zsófia Ruttkay, il film dell’ungherese è, come potrete leggere in ogni recensione disseminata nel Web, un collage di ritratti bislacchi dove il nonsense tiranneggia, il punto è che ciò a cui assistiamo una volta al cospetto di Szabadesés è esattamente questo: una carrellata a compartimenti stagni di assurdità. Sì, potrà esserci il fil rouge dell’anziana condannata alla vita che nel suo dantesco precipitare-risalire-precipitare è testimone involontaria dell’illogicità che fonda il palazzo (d’altronde è lei stessa la protagonista di una faccenda alquanto curiosa…), ma è sufficiente? Voglio dire, è potenzialmente interessante una struttura narrativa che prospera nei frammenti, a patto però che il demiurgo di turno sia in grado di fornire un collante sotterraneo al proposito. E, per quanto mi riguarda, ritengo che Pálfi qui non ci sia riuscito.

Che il magiaro sappia fare il suo mestiere è fatto noto, e che abbia avuto fin dagli albori una tendenza a mettere in campo idee fuori dal comune anche (il lontano Hukkle [2002] ce lo ricorda), con Szabadesés l’impressione è che abbia dato più che altro sfogo ad una serie di situazioni che covava da tempo ma che non era riuscito ad inserire nei suoi film precedenti. Indubbio che almeno due circostanze accendano la nostra attenzione, e ovviamente mi riferisco alla scenetta con la coppia rupofobica o a quella folle, ma davvero folle, del parto all’inverso, e c’è da dire che presi di per sé i due segmenti appena citati possiedono anche una discreta cavità argomentativa, tuttavia il problema è ubicato proprio nella loro estrema indipendenza reciproca, funzionano di più, anzi, funzionano solo così, perché se posti uno di fianco all’altro finiscono per divenire una fastidiosa sequenza onanistica di insensatezze. Per di più Pálfi oltre a mancare sul piano del raccordo complessivo, ad esclusione delle parentesi summenzionate non convince affatto nelle restanti porzioni squadernando una diffusa debolezza: non c’è forza, appeal, studio, nel rimbalzo tra un guru che insegna (non sufficientemente bene) ai suoi discenti ad attraversare i muri, e una festa di musicisti con la donna nuda (forse) metafora, per non parlare dell’intermezzo in salsa sit-com che probabilmente vorrebbe stigmatizzare il genere ma che fatica come una bestia nell’intento. Un film fatto di continue sconnessioni dunque, quasi fastidioso nel non volersi curare di fornire un abbraccio saldante, incapace di nascondere la probabile miccia che ha acceso i suoi autori: infilare una sfilza di stramberie a costo di fare un film.

domenica 18 settembre 2016

Kaili Blues

Sulle tracce di Tsai Ming-liang (la costante degli orologi fa pensare a Che ora è laggiù?, 2001), il magnifico esordio del cinese Bi Gan ci trasporta nuovamente in quel territorio ipnotico che è, a volte, il cinema orientale, un cimitero di vivi, un portale verso mondi così vicini alla realtà eppure proveniente da altre dimensioni spazio-temporali; la morte e la vita, lo spazio e il tempo: il ricordo: dentro a Lu bian ye can (2015) si compone lentamente un paesaggio e un passaggio che ha questi tratti, ma all’inizio è come se tutto fosse sfuggente, il film elude i nostri tentativi di comprensione, il dottore rimbalza dallo studio medico alle diatribe col fratello, una poesia cadenza gli stacchi, le immagini si susseguono, accadono cose, non accade niente: il fantasma di un treno che passa ad alta velocità appare dal nulla, poi, ma solo poi, capiremo… Però, nel nostro intimo spettatoriale, che è una zona intonsa e piena di trasparenti stalagmiti, qualcosa monta ed è un qualcosa tipico di quel cinema che semina nell’umano e che fa aprire boccioli nel cervello, orchidee, campanule, azalee, fiori di ciliegio, e ad un certo punto, voltandoci improvvisamente, Kaili Blues è lì, dietro la nostra spalla, poi davanti, intorno, e allora sì che ci siamo compenetrati a vicenda, sì che a Dangmai Chen non era affatto solo.

Perdonate il lirismo d’accatto ma a volte il cinema mi emoziona ancora e visto che qua non siamo in un luogo accademico né io ho la pretesa di poter capire e soprattutto giudicare qualunque opera cinematografica, faccio parlare le parole che mi vengono di getto, più sincere e spontanee di vuote elucubrazioni: Kaili Blues è potente proprio perché utilizza una grammatica visiva che si situa all’opposto di un’eventuale forza investente; Bi Gan, invece di delineare le forme filmiche di una possibile memoria, fa sì che sia chi guarda a sgattaiolare all’interno di un’area mnemonica, non vi è guida né indicazione, e per questo si profila una libertà fruitiva commovente, una partecipazione alle dinamiche esistenziali di Chen che stordisce, turba, disarma. Ecco, visioni del genere disarmano, non è possibile innalzare barriere verso l’onda silenziosa che si propaga, e non è acqua, è musica (un blues?): questo intreccio gomitolare di persone, di storie avvenute che stanno avvenendo adesso nell’attuale futuro, di cortocircuiti che mozzano il fiato (qual è il tuo nome? Mi chiamo Wei Wei), è una micro-sinfonia fatta di umanità le cui note sono sentimenti come l’amore, la malinconia, il rimpianto. Come gli orologi fermi e i vagoni disabitati.

Non vorrei incensare il piano sequenza che inizia al 55° minuto e che finisce al 96° perché sarebbe troppo facile appiccicare lustrini alla giacca di Bi Gan, ma cosa posso fare? Non capita così sovente di vedere un tale sfoggio di tecnica da stropicciarsi gli occhi come quello offerto dal regista, in tre parole: è una meraviglia. Comunque sia vorrei fare un distinguo perché molto spesso il piano sequenza viene associato ad un atto virtuosistico, quasi masturbatorio, qui, al contrario, per quanto mi riguarda si tratta di un accorgimento funzionale all’opera che non a caso viene utilizzato nel momento in cui il protagonista giunge a Dangmai. L’arrivo di Chen nella cittadina fluviale rappresenta il superamento di una realtà geografica (il territorio urbano fino a quel momento visto) e psicologica (l’uomo che si apre alla parrucchiera) con susseguente approdo in un altrove di bruma onirica dove molti elementi della storia cominciano a farsi parecchio reiterativi finanche illuminanti per coloro che assistono, ne consegue che un cambio di registro estetico era obbligatorio per rimarcare la necessità di un guado così fondamentale, e la scelta pianosequenziale risulta essere un’opzione appagante poiché non c’è altro movimento nel cinema altrettanto “risucchiante”.

Tante suggestioni e tanti pensieri si rivolgono ancora a Kaili Blues perché il Cinema non smette mai di interrogare, ma io, al solito codardo e intimorito da siffatte grandezze, non vado oltre e rimango lì, imbambolato come un bambino di fronte al treno-macchina del tempo che sfreccia al di là del finestrino e che mi proietta lassù in alto facendomi sentire così: fortunato. Arrivano i titoli di coda e credo di poter chiudere l’orizzonte incandescente della vita nel palmo della mano…

venerdì 16 settembre 2016

Anvers

Interessato, per quanto si è potuto vedere, alle forme del dramma sociale, il regista olandese Martijn Maria Smits prima della prostituzione di Under the Weight of Clouds (2012) si è occupato di disoccupazione nel 2009 con Anvers. Come per il film che verrà anche questo focalizza l’attenzione su figure emarginate dall’esistenza pericolante, di certo non ci troviamo in un contesto così duro come può essere quello di una meretrice immigrata, e ciò comporta del giovamento: per fortuna la tendenza a “pornografare” l’eventuale tragedia qui è mitigata da Smits che opta per un tono minore punteggiato da momenti morti, ininfluenti ma non superflui, esposti con un metodo molto realista, uno stile che negli anni zero, in Europa, abbiamo visto arrivare a fiotti dalla Romania. E non ci troviamo neanche al cospetto di un trattato sulla crisi, anche se viene accennata il regista non ha il tempo né le qualità per farlo. Il richiamo al periodo storico è solo un’appendice perché la storia del giovane compagno senza lavoro con domicilio in casa dei suoceri e con figlia da mantenere è vicenda in sé, slegata, senza esserlo del tutto, dalle ragioni dell’attualità, e il dondolio tra l’indipendenza dal sociale e la comunque appartenenza alle velleità di denuncia parcheggiano Anvers nel limbo dell’indolenza.

(una parentesi a mezz’aria è il posto giusto per una contestazione che non è riuscita ad entrare nella dissertazione generale: ad un certo punto il ragazzo penetra in una casa (la sua ex casa?) e inizia a spaccare tutto. Perplessità a tutta birra. Se qualcheduno mai vedrà, è pregato di chiarificare)

Dal suddetto limbo emerge indubitabilmente un aspetto principe: che Anvers ha essenzialmente a cuore la crisi della coppia e non la crisi economica. Il fatto che ci sia un legame è innegabile (la questione che lui sia senza una professione e il suo essere un po’ lassista lo inimicano agli occhi della compagna ancor prima che a quelli dei suoceri), come è altrettanto innegabile l’accentramento sentimentale di Smits; dal momento della lite si dispiegano i caratteri e le afflizioni dei protagonisti, ma anche qua l’assenza di minuti e di doti effettive a disposizione non sollevano il corto dall’area dell’intenzione. Sarebbe stata un’impresa riuscire a far trasmigrare dentro un film così ancorato al reale e in un tempo così esiguo l’enorme matassa di un’unione in disgregazione, dei moti sotterranei e della lava covata in prossimità dell’eruzione. Rinvenendo l’apatia della donna durante la breve vacanza e la rassegnazione al luppolo del consorte si constatano al massimo i pigmenti di una raffigurazione virtualmente spropositata.

(anche una parentesi a piè di commento può avere un motivo d’essere: nel settore del breve, per chi fosse interessato a problemi coniugali può rivolgersi a Km (2012). La comparazione mostrerà il diverso approccio e la diversa struttura del corto greco nei confronti di quello orange. Preferire il congegno ellenico è pressoché automatico)

lunedì 12 settembre 2016

Evolution

È passato un po’ di tempo dalle visioni de La bouche de Jean-Pierre (1996) e Innocence (2004) ma mi sento di affermare con una certa sicurezza che questi due film stringono un laccio molto forte con Évolution (2015) poiché è da tale triade che si profila un dato di fatto: l’ossessione di Lucile Hadžihalilović verso l’infanzia, una fisima, scontato dirlo, il cui approccio non è mai stato convergente l’ortodossia, nessuna favola, nessuna buonanotte, la moglie e collaboratrice di Gaspar Noé ha sempre avuto un modo di intendere la tenera età tutto suo e nella proposta fornita nel corso degli anni si allungano tuttora minacciose forme incubiche, fantasmi perturbanti ed echi di suadente diabolicità. Il cinema della Hadžihalilović non dispiace, almeno al sottoscritto, così come è piaciuto, e non poco, Evolution che rispetto alle due opere precedenti si trova in zone maggiormente elevate (o profonde, a seconda dei punti di vista), e dove la veste estetica, tanto per cominciare a tesserne le lodi, è impreziosita da una fotografia di altissima fattura firmata da Manuel Dacosse (Amer, 2009). Un apparato visivo di prim’ordine, decisamente più curato – come è giusto che sia – della storia mercuriale raccontata, produce un gradito magnetismo nei confronti di chi guarda il quale non deve far altro che lasciarsi invadere dagli assalti artistici della regista, la resa, che deve essere immediata, permette il conseguente godimento di una traiettoria rimarchevole capace di creare suggestioni oserei dire memorabili.

Non saprei affermare in assoluta onestà se nell’idea di base della Hadžihalilović vi fosse una componente sottotestuale, il tipico rimando a questioni latenti criptate da situazioni altre, il tasso di astrazione è così alto che è preferibile subire il nonsense di Evolution piuttosto che impaludarsi nell’ostinata ricerca di significati obbligatori. Il concetto appena espresso mi permette di aprire un’inutile parentesi su Lanthimos che potete tranquillamente saltare a piè pari: (perché questo titolo è potenzialmente un prodotto lanthimosiano [o tsangariano], cioè: un luogo-non-luogo dove gruppi di bambini sono sottoposti a strani esperimenti? Feta pregiata per il greco, anche se, e qua sta lo scarto decisivo, l’autrice francese evita di metaforizzare in maniera pesante il film, senza una lettura precisa dietro le immagini resta un’indeterminatezza che non so voi, ma a me appaga di più). Tornando in topic, quello che però è possibile riportare come informazione concreta è la qualità che ha il film nel sfiorare l’etichetta horror-sci-fi senza però compiervi una netta iscrizione, ciò non accade perché comunque sussiste una forte autorialità alla base del lavoro che impedisce l’assimilazione al genere, tuttavia il fatto di orbitare attorno ad un ospedale à la Silent Hill, o di illustrare attività da mad doctor, o ancora di cogliere una comunità di “madri”-tutor che si sollazzano in sabba marini, sono tutti elementi che conferiscono una tastabile inquietudine alla pellicola e che non sono esattamente i connotati di un comune film d’essai.

Venendosi a creare un limbo categoriale in codesti termini lo scivolamento all’interno di Evolution non può che essere ancor più destabilizzante proprio perché tale limbo fa da contenitore ad un’ulteriore incertezza che è quella prettamente diegetica. Spaesati e spaventati dai non prevedibili sviluppi riguardanti il ragazzino protagonista, nuotiamo con lui nel mare amniotico alla ricerca di una Stella Polare che possa guidarlo. La faccenda della stella è l’ingrediente che più si rifà ad una grammatica narrativa, il suo essere ricorsivo (della Stella) è un chiaro segnale sceneggiaturiale della Hadžihalilović che vi punteggia la vicenda: è quella marina appoggiata su un cadavere a dare il via, ed è sempre l’echinoderme oggetto di attenzioni da parte di Nicolas, prima la deturpazione e poi l’accudimento, inoltre il neon della sala operatoria è chiaramente stelliforme e infine l’auspicata salvezza si incarna in Stella, l’infermiera buona ritratta dal bimbo nel suo quaderno. Insomma, la regista ci fornisce perfino una traccia da seguire che non vuole e non deve essere esemplificativa, è una cosa a sé, forse un punto da cui estrapolare una macro morale che prescinde dal film stesso (la libertà data da una Stella…) e che non ne intacca la cifra anti-letterale. Guardare, in questo caso, è sinonimo di non respirare, l’apnea è infatti il vero e unico stato fisico-emotivo in cui precipiterà lo spettatore assistendo ad Evolution.

sabato 10 settembre 2016

Alextale

Lui dice hai un tramonto negli occhi, lei non dice e parla con la nuca che va via piano diventando un rettangolino di stoppa. Ci sono degli scheletri che guidano le automobili, questa sera. Il ritorno a casa è mesto, sull’uscio afferra i fili che penzolano dal soffitto e si conficca le estremità amate nella pelle, una per guancia: *sorriso smagliante*, adesso è il figlio-burattino che si muove nell’abitazione, in cucina mamma-burattino e papà-burattino lo attendono, *sorrisi sfolgoranti*, di primo pasta col pomodoro di secondo arrosto no l’arrosto no grazie, poi: frutta: pesca, il nocciolo, come quello delle noci, ha un aspetto celebrale, quindi intestinale. Dopo, in camera. Finalmente si sfila i fili, finalmente può vivere la vera vita, shhh, ci sono tonnellate di giga da scaricare: AssholeFever, Pornfidelity, TonightsGirlfriend, IknowThatGirl, Blacked, FakeTaxi, NuruMassage, JoyMii, IhaveAWife, Nubiles, shhh, per l’eiaculazione utilizza il bicchierino dell’Estathé con il suo misterioso accento acuto, e fa così: lo beve e dopo perfora lo strato di similalluminio, è un defloratore di brick, è uno pericoloso: aaah; infatti, per strada, ci sono molte donne che hanno in bocca un Estathé inserito fino all’orlo in modo da sostituire le labbra, guardatele.
Lei dice partiamo? Lui dice sì! poi si sveglia ed è nel solito vecchio letto e realizza che è presto e che sarà come sempre il protagonista di un diorama in cui è egli stesso la ricostruzione di un altro sé, l’Estathé sta lì, dalla sera prima, da molte altre sere, e la spada di luce che filtra dalle persiane ne illumina il pulviscolo sospeso, ci si affaccia sopra e il liquido organico nella notte ha generato una cosa che è lui, piccolo e nudo, e lo guarda, e si guardano, e la creaturina ha uno sguardo tetro, la sclera è nera, l’iride è nero, la pupilla è nera, la voce è uno spillo: vorrei fare come Majorana lui ascolta il suo mini-io senza accorgersi che la stanza è diventata un altro bicchiere di the con il fondo sciaff sciaff di sperma e aromi (… sì, come no) e che una versione xl di lui medesimo è chino con il testone sulla scena e che anch’esso, a sua volta, è l’oggetto di un’ulteriore copia ancora più grande: c’è questo contenitore e questo liquido che ci ingabbiano, cosa sarà questo strano odore?
Lei dice sei cambiato, lui dice sì, ho perso parecchi chili e parecchi capelli, no ridice lei, sei cambiato in un modo diverso, lui pensa:
non voglio fare come Majorana, voglio proprio scomparire da un momento. All’altro. E lasciare i miei vestiti ricadere sgonfi privi di sostegno a terra, di me non resterebbe niente se non un inutile mucchietto di stoffa che la pioggia infradicerebbe e che le persone, calpestandolo, ridurrebbero ad una poltiglia all’angolo di un palazzo e un marciapiede. Dove andrei non importa, bramo un oblio, una lattescenza eterna; volare via dal brick, e portarmi dietro solo il ricordo del nostro mare.

giovedì 8 settembre 2016

La distancia

Eviterò di ripetere nuovamente tutto il discorso che si cela dietro all’artisticità di Sergio Caballero, ne ho già parlato sia in Finisterrae (2010) che in Ancha es Castilla/N’importe quoi (2014), ergo non mi va una terza volta di indignarmi nei confronti di un film che si fa prodotto nonché mezzo pubblicitario, quindi spazio a La distancia (2014): e lo spazio è un buon punto di partenza, ci troviamo in una di quelle situazioni dove è cosa buona et giusta affermare che il luogo è protagonista e che l’edificio abbandonato ha un ruolo più centrale degli attori, sono constatazioni immediate ma vere; questo, comunque, accadeva anche per Finisterrae, sebbene qui, probabilmente a causa dello stallo che costituisce l’intero film, l’impressione è più forte e sa trovare conferme nette. Non basta però l’elevazione dell’ambiente sul palcoscenico per centrare il punto, perché in siffatti termini e in codesta ottica Caballero arriva dopo una riga di registi che sono due o tre spanne sopra di lui, quindi se c’è un’area su cui volgere il nostro sguardo non è di certo quella del set poiché nulla di immostrato si staglia, bisogna invece sintonizzarsi sull’ingegnosità che il direttore del Sónar si prodiga a diffondere in ogni angolo della propria opera. Nell’assistere alla Distancia è inevitabile annotarsi sul taccuino elementi di originalità ed ironia che provocano apprezzamenti a partire dalla base, la traccia narrativa, passando per la scrittura dei personaggi (pochi, eppure memorabili) e saltellando di minuzia in minuzia (il collegamento genitale-mentale; il nome della mortadella), così facendo Caballero crea una sorta di fidelizzazione spettatoriale che si avvale di un contratto dotato delle seguenti condizioni: io ti guardo, tu stupiscimi.

Un passaggio che si stacca dai due lavori precedenti si situa nell’abbandono da parte del regista di portare gli ingranaggi nascosti alla luce del sole, tale trend era davvero l’ossatura principe dei film passati, ed anche se divertente alla lunga prestava il fianco a qualche ripetitività. È probabile che se La distancia fosse stato girato con quel mood, nelle occasioni dove il nano impiega le sue doti telecinetiche avremmo visto il filo che muoveva gli oggetti fluttuanti nell’aria. Abbandonata dunque l’attitudine smascherante cosa sostanzia ora il cinema di Caballero? Probabilmente, anche se lo dico senza esserne troppo sicuro, un approccio più maturo, nello specifico una derisione delle prassi narrative perché qua, detto brutalmente, non succede niente di sceneggiaturialmente costruttivo, Caballero gongola nell’attesa, occulta passaggi e persone (chi è il tizio che uno dei nani uccide all’inizio? E chi è l’altro che se ne accorge e li va a cercare?), si gingilla nel mettere in piedi situazioni sbilenche (la costruzione dell’ariete e il suo funzionamento?) e infruttuose. L’inclinazione che allora si rafforza maggiormente per lo spagnolo è quella ludica, il gioco, che talune volte scavalla l’argine dellacume per diventare esclusivamente fine a se stesso, è il piedistallo che sorregge la pellicola e quando coadiuvato da soluzioni brillanti (il finale riluce: ☼) sa superare il benaccolto passatempo.

martedì 6 settembre 2016

Soliton

Per Isamu Hirabayashi, sperimentatore e animatore giapponese da approfondire, la prospettiva ed il film sono la stessa cosa. Questa importante sovrapposizione si tinge di originalità nel proporci quello che, almeno in apparenza, si vive come un lacerto bellico: il point of view inusuale è di una testa abbassata, il capo chino (probabile postura metaforizzata) diventa il nostro capo chino, sicché la pulsione scrutativa è intrappolata nei piedi di un militare che cammina su un territorio scosceso mentre rumori sinistri e radioline gracidanti riversano nell’al di qua un clima, appunto, armato. In Soliton (2014), per quanto riguarda la componente visiva non c’è altro, Hirabayashi si attiene a questo precetto stilistico con una sola parentesi che per un istante trascende nel videoludico, il più classico degli upgrade da un livello all’altro. In realtà la soluzione che spartisce il corto non ha niente da condividere con i videogiochi, soliton, al contrario, è un concetto molto più concreto perché è per la fisica un’onda che si propaga ad una velocità costante mantenendo sempre la stessa forma. Hirabayashi suggerisce il carico semantico del titolo facendo passare sullo schermo delle formule che plausibilmente si rifanno alla radice scientifica della nozione sopraccitata. A meno di non essere dei matematici è però impossibile carpire tale informazione, ma ad un’analisi ex post ecco che Soliton squaderna i propri intenti.

Nel giro di poco comprendiamo che il misterioso camminatore non si trova in un qualche conflitto, bensì in una zona appena disastrata da un flagello che proprio il Giappone, a livello di nome, ha sdoganato in tutto il pianeta: tsunami. Così, come Himizu (2011) e The Tsunami and the Cherry Blossom (2011), altri due film trattati in codesti luoghi che raffigurano, in modo diverso, i disastri causati dal terremoto nel marzo ’11, anche Soliton vuole partecipare alla luttuosità dell’apocalittico episodio, nel mentre si profila l’idea che l’articolazione di Hirabayashi in siffatti termini sia ancor più azzeccata per fronteggiare il tentativo di immedesimazione spettatoriale. Quindi abbiamo: un’idea formale intrigante orientata verso un livello partecipativo totalizzante, il calcare gli scarponi con l’irrimediabile peso dell’essere umani sui resti della civiltà si slancia per traslazione in un monito in cui siamo tirati dentro più di quanto possiamo sottostimatamente ipotizzare. La pecca, altresì descrivibile pignoleria personale, è data dal fatto che comunque l’impostazione del regista soggiace in maniera intuibile ad una legge non scritta per cui l’avanzata dell’uomo (che siamo noi, giusto per ribadirlo) è predicibile che possa debba “scontrarsi” con qualcuno, profezia che precisa precisa si avvera. Ad ogni modo lana caprina, per molti. Poi i crediti finali, una carrellata di immagini catastrofiche che esibisce  il nucleo argomentativo (esibire è male, non era necessario), e apertura abissale sul mare (l’anonimato del mare è non mostrare, ed è bene, perché si vede il necessario), covo di morte e disperazione.