Ha un nome preciso il
problema che affligge un film come Under the Weight of Clouds
(2012), e quel nome è didascalia. Già la base di
partenza non ha un grande potenziale: illustrare il milionesimo
quadro marcescente della prostituzione coatta, nello specifico la
storia di Elena, madre ucraina in terra olandese, che, insieme ad un
altro nugolo di ragazze sottovive in un appartamento alle dipendenze
di un terribile pappone. Solo che al leggere la sinossi si diffonde
il fumo sottile del già visto, sulla carta non c’è
davvero scampo. L’unica via possibile era l’intemperanza
stilistica, un po’ di grammatica innovativa, un po’ di… meglio
lasciare perdere: la tendenza ostensiva di Martijn Maria Smits è
impossibile da fronteggiare, tutto il substrato argomentativo
dell’opera è come sottotitolato e illuminato da neon
fosforescenti. Elena che mente al figlioletto la cui foto campeggia
sul comodino del postribolo, Elena che si prende a cuore le sorti
dell’orfanella perché, ovviamente, ha un cuore da madre,
ecc. Tale radicata letteralità, morbo che attanaglia non solo
un Under the Weight of Clouds qualunque ma anche buona parte
di tutto il cinema contemporaneo e non, diventa intossicante e
imbruttisce ogni aspetto del film, e allora il dramma si miniaturizza
in cinerea bagatella poiché sempre esibito, ed una esposizione
capillare sortisce effetti opposti: vedere tutto è non vedere
niente. E proprio a causa del mettere in mostra a tutti i costi ecco
che si viene a creare un’imbarazzante faglia tramica (Elena una
volta riacciuffata dal magnaccia viene inspiegabilmente lasciata sola
in auto da quest’ultimo, sicché la donna riesce a scappare
di nuovo) che poteva essere bypassata con una banale escamotage come
un’ellissi.
Non
parrà strano, allora, che l’unico momento dove lo spettatore
riesce a sintonizzarsi su delle frequenze al di là
dell’ordinario è proprio quello in cui ci è
celato l’accadimento dei fatti. Anche se la suddetta scena dura
pochi secondi e ha forma e sostanza di una cattedrale nel deserto, è
comunque una micro riprova di quanto a fecondare la visione sia
paradossalmente la non-visione, quello che accade oltre la
mdp non possiamo vederlo, ne captiamo solo il riflesso nel passo
smarrito della piccola. Si tratta, però, di un miraggio:
Smits, malamente coerente con se stesso anche nel finale, non si
risparmia in fatto di sfoggio diegetico e non contento di palesarci
la situazione della bambina, piazza al di qua del vetro un’Elena
che per “coincidenza” passava di lì, e quindi ci imbocca
nuovamente la questione di suo figlio che è lontano in Ucraina
con la nonna, e così via in una continua rassegna di
accentuate e suggerite tragedie.
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