martedì 31 agosto 2021

House with a Turret

Russia, inverno e guerra. Un bambino e sua madre si fermano in una città sconosciuta a causa dei problemi di salute della donna. Complicazioni in arrivo per il figlio.

Diretto a sei mani, l’ucraina Eva Neymann risulta regista principale con Ludmila Kulchitskaya e Ivan Rutkovskyi a coadiuvarla, e tratto dal romanzo autobiografico di Fridrikh Gorenshteyn (sceneggiatore di Tarkovskij per Solaris, 1972), Dom s bashenkoy (2012) è un film che non poteva che generarsi da una schermata nera perché, sebbene lo scenario sia per forza di cose abbacinante vista la neve che imbianca l’ambiente, la storia è cupa e non ha riscatto alcuno, non riabilita, non dà possibilità ulteriori, ipotesi, speranze (se non oniriche nell’ultima, trasognante, carezza materna), è, semplicemente, il diario di un’assenza di calore proveniente dal suolo russo e zone limitrofe, e non ci si riferisce soltanto alle condizioni climatiche ma anche e soprattutto a quelle umane, all’indifferenza, al mors tua vita mea che ieraticamente impregna ogni cosa. Ecco, se c’è una lezione che abbiamo imparato dal cinema sovietico che racconta il proprio passato è proprio un colossale vuoto d’amore verso il prossimo, e spesso chi finisce risucchiato in questa cappa di gelida noncuranza sono i più deboli, ovvero i bambini. Certo, Neymann non è Klimov e non è nemmeno Kanevskij, però pur non avendo la stazza del “filmone” House with a Turret arriva a possedere un peso specifico, una cifra distintiva che illustra lo smarrimento di un bimbo in un mondo inospitale. Il film vuole portarci qui, e così succede. Il tono austero e distaccato non si lascia mai andare ad apici drammatici tanto che l’evento mortuario a metà proiezione si consuma più che altro negli occhi sgranati del piccolo invece che nei nostri.

Ma è la seconda parte ad essere più coraggiosa della prima che, in buona sostanza, aveva fini per lo più esplicativi. Quando il protagonista riesce a salire sul treno grazie all’aiuto del padre di famiglia (è l’unico barlume di umanità che si intravede), la narrazione evapora, non succede concretamente più nulla, oltre a constatare l’avversione della mamma nei confronti del bimbo e l’entrata /uscita in scena di ambigui viaggiatori (mi prendo ogni responsabilità: ho visionato una versione del film con dei sottotitoli a dir poco ballerini e potrebbe essere che non ci fosse nulla di ambiguo ma solo un’ottusa incomprensione del sottoscritto), il racconto si diluisce, si perde nell’ipnotico rumore del convoglio, nelle riprese esterne di ruderi che affiorano dalla neve, di alberi spogli, di uccelli neri appollaiati sui rami secchi, e tutto scorre, tutto va, non si sa bene in quale direzione ma va, mentre nei vagoni, al suono triste di una fisarmonica, le facce dei viandanti sono mappe di paure e vicissitudini profonde. È quintessenza di un cinema in b/n che può arrivare solo da quei territori e che manifestandosi riporta a noi l’eco di una galassia persa in un tempo che ci sembra il Medioevo ma che invece è stato giusto settanta anni fa.

Due extra di cui non sentivate la mancanza:

1) come sono giunto a Dom s bashenkoy? Parecchio tempo fa mi capitò di leggere il curriculum di Yekaterina Golubeva e mi appuntai questo titolo. Poi Katja, Katia, Katerina o qualunque fosse la traslitterazione corretta del suo nome, se ne andò per sempre nel 2011 e House with a Turret dovrebbe (uso il condizionale perché IMDb indica due successivi film usciti postumi che la vedono scritturata) essere la sua ultima apparizione. Quella carezza a fine film diventa quindi qualcosa di più.

2) la vicenda qui affrontata è una buona occasione per consigliare il saggio edito da Adelphi nel 2019 Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935). Una bella (si fa per dire) finestra storica su un fenomeno sociale che colpì la Russia negli anni che vedete tra parentesi in cui tra guerre e carestie si formò una nuova fascia (sub)sociale costituita da bande di bimbi soli al mondo che vagavano in una realtà di freddo indicibile e fame nera. Che cosa accadeva a questi poveri bambini ve lo spiega bene la penna di Luciano Mecacci. 

domenica 29 agosto 2021

Canis

Sporco è sporco Canis (2013), o almeno lo è se viene raffrontato ad altri oggetti similari passati da queste parti come Oh Willy... (2012) ed Edmond (2015) che condividono con il lavoro del duo spagnolo Marc Riba e Anna Solanas un approccio allo stop-motion “homemade” bello estroso (come del resto è da tradizione), anche qui materiali quali il feltro e la lana addobbano i pupazzetti in scena nonché la scena tout court. La sporcizia sopraccitata si enuclea in un’atmosfera davvero plumbea, un po’ post-apocalittica se non proprio romeriana (al posto degli zombie ci sono dei rabbiosi cani randagi), e da alcuni tocchi di crudeltà che rabbuiano il tutto (l’anziano che cade dal tetto per finire letteralmente disossato dal branco), di Canis non si può certo dire che sia un corto solare e di ciò alla coppia registica bisogna riconoscerne i meriti (anche la componente sonora divisa tra l’iroso abbaiare e delle distorsioni elettriche ne amplifica la cifra dark). È evidente però che la “lordura” con cui abbiamo a che fare non ha una profondità, è patina, niente si scardina o impressiona, ok, si osserverà, il contenitore non permette troppo: giusto, tuttavia è doveroso per chi scrive evidenziarlo.

Che poi ci sarebbe anche nel plot un macro-evento dall’aroma sovversivo (sempre nei confini dell’animazione ovviamente), ossia il congiungimento carnale tra il protagonista e la donna-cane. È l’episodio centrale che attira a sé la narrazione (quanto vediamo [l’assedio canino, la vita resistenziale] è una preparazione all’irruzione dello strano essere nella casa) per mutarla, capovolgerla, dopo il parto infatti il ragazzo si stringe al petto il figlioletto ed esce ad affrontare il mondo armato di spranga, il lungo asserragliamento nell’abitazione rimane alle spalle. In tema di racconto ci può stare, è un cambio di ritmo e prospettive che ribalta l’assunto iniziale anche con un pizzico di degenerazione (l’amplesso in fondo è... bestiale), ma è sufficiente a scalfire l’animo dell’esperto cinefilo con un lungo cv di visioni? Ahimè, non credo proprio. 

martedì 24 agosto 2021

Sollers Point

Matthew Porterfield non esce da Baltimora, quattro dei suoi sei lavori cinematografici sono ambientati lì e ben tre portano il nome di altrettante zone presenti in questa città del Maryland, c’è stato l’esordio Hamilton (2006) poi Putty Hill (2010) e infine Sollers Point (2017), quindi è quasi banale sottolineare che per il regista la geografia di riferimento non è propriamente un dettaglio, evidentemente da quelle parti la vita dei più giovani può incontrare pericolose deviazioni con tutti gli effetti scaturibili che potete immaginare, e Porterfield si trova a suo agio in una cornice del genere, la  panoramica che dà della provincia americana utilizza l’alfabeto del realismo per raccontare di droga, prostituzione, conflitti famigliari e orizzonti alquanto ridotti. È cinema indie americano in forma quintessenziale (lo certifica, in un certo senso, anche la presenza di una star come Jim Belushi), la tendenza è di ridurre piuttosto che implementare, di non dire troppo invece che di dire a vanvera. C’è però un problema a mio modo di vedere: che esattamente come per I Used to Be Darker (2013) il film sotto esame non ha tiro, è un riconosciuto compendio di situazioni e personaggi che non toccano, sono già scritti, già visti, e se ci mettiamo che anche il metodo trasmissivo non finirà negli annali di storia (almeno Putty Hill inglobava delle parentesi-interviste che rinfrescavano l’impianto generale), allora viene complicato consigliare Sollers Point.

In stretta sintesi il centro narrativo dell’opera è Keith, un ragazzo con un non specificato casino alle spalle che lo ha costretto agli arresti domiciliari per un tot di mesi, e intorno a lui orbitano altri piccoli pianeti con i quali è, ogni volta, prossimo al collasso. Porterfield pone il protagonista in una condizione di perenne instabilità che rimane nello schermo, del difficile rapporto col padre si registra poca roba capace di segnare l’attenzione, di quello con l’ex fidanzata ancora meno. Il girovagare di Keith, che in buona sostanza scandisce l’intero film, istituisce una composizione episodica dove si susseguono vari soggetti dall’esiguo spessore, tale frammentarietà non fa bene alla pellicola che spera di tenersi in sella mostrando le tentazioni in cui Keith ricade, suggerendo perciò nel contesto locale una strada fatta di perdizione ardua da abbandonare per chi non sa bene come tirare avanti. Gli scazzi con la banda del quartiere, la fugace relazione con una spogliarellista o l’incontro casuale con una studentessa di arte (segmento forzatino nelle premesse e nel breve sviluppo che non ho affatto gradito) insieme ad ulteriori frangenti di esigua entità, descriveranno anche la complessa realtà esteriore e interiore che Keith vive ma, appunto, non si va al di là della descrizione, il che fa spesso allontanare il sottoscritto da qualsiasi tipologia di visione, soprattutto per una così dove tutti i come e tutti i perché che mette in campo sono nel nostro database da molto, moltissimo tempo. 

martedì 17 agosto 2021

Alice

Già al primo lungometraggio Marco Martins si rivela autore oltremodo austero, Alice (2005) pur imbevendosi di pura tragedia (la storia è questa: Alice, quattro anni, svanisce nel nulla e i genitori non possono che essere disperati) non esacerba mai i toni né cerca di esibire l’immane dolore che colma le anime di Mário e Luísa. Il flusso filmico, ovvero la fusione della componente narrativa con quella estetica, arriva come un monolite grigiastro simile alla Lisbona carpita, una città fredda e insensibile alla scomparsa. Non so se due indizi fanno una prova ma ripensando anche all’opera successiva How to Draw a Perfect Circle (2009), altro dramma dal carico pesante e dalle intenzioni parecchio ardite, si nota che Martins è a suo agio nell’urbanità slavata della metropoli e che tale sbiaditura non è altro che il riflesso di ciò che racconta. Appunto, il racconto: l’attenzione è riposta sul padre e sul metodo (leggi: illusione) escogitato per provare a rintracciare Alice, una specie di Grande Fratello lisbonese che si unisce al rituale quotidiano di ripercorrere passo passo l’itinerario effettuato nel giorno della sparizione. In generale tutta ’sta faccenda dall’iterativa concretezza è godibile, ma se Martins aveva il proposito di spingere il pedale sul tema dell’ossessione allora mi è parso essersi fermato ad una distanza di sicurezza, non si è preso il rischio di salire d’intensità.

Strutturalmente invece il regista opta per un rimpallo temporale che mischia un po’ le carte in tavola e la percezione che si ha della vicenda. A metà film scatta infatti un lungo flashback il cui termine è forse portato avanti fino alla fine della pellicola (il che starebbe a significare che la vera fine sia all’incirca quando Mário quantifica i giorni senza Alice) e che chiarisce alcuni aspetti fin lì non granché immediati, si potrebbe discutere se la scelta sia azzeccata o meno (si sa, a volte dire troppo è dire niente), fatto è che ad esempio veniamo a sapere del perché il papà sia così fissato con le videocamere (non male la scena di fronte alla parete di televisori). Il salto cronologico all’indietro non riserva tuttavia particolari sorprese, il mood disposto da Martins è una costante dal principio alla conclusione, l’abusata espressione “senza picchi né pecche” che viene in soccorso del recensore a corto di idee calza perfettamente ad Alice, se siete interessati ad un titolo che non eccede in banalità ma che nemmeno vi farà battere il cuore allora siete nel posto giusto.

giovedì 12 agosto 2021

Solenoide

Mircea Cărtărescu
2021
il Saggiatore; 944 p. 
 
Può una mente, dopo essere riuscita a rappresentarsi sia la totalità, sia l'eternità, accettare che non è eterna e onnicomprensiva? Posso accettare che mi è stato dato, in questa vita, di contemplare l'universo con un cervello di gatto, di granchio o di lombrico? Posso sapere che l'universo è intelligibile, ma che a me non è concesso comprenderlo?

Per curiosità sono andato a cercare le copertine di Solenoide nelle diverse traduzioni uscite in giro per l’Europa a partire dall’edizione originale edita da Humanitas, la casa che ha l’onore di pubblicare Mircea Cărtărescu prima di tutti gli altri, e ho riscontrato che in Rete se ne possono trovare ben due all’ombra del drapelul: una ha il titolo monolitico che campeggia in bella vista con sopra il nome dell’autore, mentre l’altra offre una rappresentazione di quello che potrebbe essere un quartiere urbano visto da un pittore simil-cubista. La versione spagnola ha invece puntato su uno dei luoghi cardine del libro, ovvero la casa a forma di barca dove vive il protagonista, mentre quella tedesca al pari della francese ha fatto un po’ come la pubblicazione rumena, titolone d’impatto e via (anche se l’editore transalpino dietro le lettere ha stampato un disegno che forse – e ripeto: forse – è la piantina di una città, dallo schermo non si riesce a capire). Questa premessa per arrivare a parlare della “nostra” cover a firma del Saggiatore che ha strappato il maestro bucarestino dal parterre de rois di Voland mantenendo però il medesimo traduttore, il prode Bruno Mazzoni. Lì a Milano le copertine le sanno fare, e pure bene, l’intero catalogo ha un forte carattere identitario, se vai in libreria e vedi un volume bianco con un’immagine che attira l’attenzione stai per certo che è roba loro, per Solenoide, opera attesissima la cui uscita è stata rimandata più volte negli anni incrementando la bramosia di noi poveri lettori in attesa, il lavoro svolto a livello visivo non si è subito segnalato in fatto di memorabilità, il pensiero che ho avuto quando sono iniziate a circolare le prime foto è stato che un volume così importante meritava una veste migliore. Però poi leggendolo, venendo risucchiato da questo formidabile luna park di invenzioni letterarie, ho cambiato idea. A farmi guardare le cose in maniera diversa ci ha pensato uno degli ultimi capitoli, il quarantacinquesimo, dove il protagonista compie un viaggio psico-fisico dentro... una colonia di acari, nel cuore di un universo apparentemente minuscolo che nei fatti si rivela non così diverso dal suo. Ecco allora che la scelta saggiatoriana assume una pregevole valenza concettuale, quasi da istruzioni per l’uso: entrare in contatto con Solenoide, toccarlo e guardarlo per la prima volta, significa affacciarsi su un oblò circondato da tracce ematiche che fornisce l’accesso ad un altro mondo: Bucarest, epicentro narrativo da cui si dipanano in ogni direzione possibile (e impossibile) altre storie che appartengono ad ulteriori galassie immaginifiche. È un movimento catabasico perché ci sono delle concrete discese dantesche nel romanzo (c’è anche la guida adatta: Virgil), e al contempo permane una traiettoria panottica, dove io, dall’alto, riesco a leggere tutto, ma solo fino a quando non mi rendo conto di essere letto, e allora il mio sguardo divino diventa lo sguardo di un insetto: avere i pidocchi ed essere me medesimo il pidocchio che zampetta sul cranio (rimane una delle parole più usate dal Cărtă) di un gigante sepolto. Solenoide è una faccenda di prospettive, e quindi di grandezze, che mette in relazione le unità di misura dell’esistenza attraverso la letteratura. È un libro maestoso a cui bisogna inchinarsi con ammirazione perché partorito dalla mente dello scrittore più visionario e più geniale che calpesta insieme a noi il suolo di questo sassolino verdeazzurro disperso nello spazio.

Rimanendo nella produzione di Cărtărescu viene automatico fare dei paragoni con Abbacinante, l’epocale trilogia di cui avevo tentato di parlare affrontando l’ultima parte, Abbacinante. L’ala destra (Voland, 2016). Inizialmente la percezione che il sottoscritto ha avuto durante le prime quattro, cinquecento pagine di Solenoid è stata di un’organicità differente rispetto ad Orbitor. Spiego: nel trittico la struttura narrativa possedeva un impianto che a prescindere dai soliti incredibili slanci nel surreale manteneva certi capisaldi che ritornavano ciclicamente nella storia, su tutti il concetto di simmetria simbolizzato dalla farfalla e canalizzato nel rapporto con il gemello perduto Victor (ripreso pari pari, tra l’altro, anche in una parentesi del suddetto romanzo). Qui le cose aumentano di complessità in modo esponenziale tanto che in maniera molto sbrigativa e superficiale si potrebbe considerare Solenoide fino ad almeno la sua prima metà una raccolta di racconti. Affermazione da stolti, lo so, però il susseguirsi dei capitoli ha nella lunga fase preliminare una forte indipendenza tra un passaggio e quello successivo, ok, il caro narratore utilizza come escamotage per raddensare il suo fiume di inchiostro l’idea dello scrivere un diario per mettere ordine tra le anomalie che hanno caratterizzato la sua vita, però la carrellata di stranezze che partono con lo spago generato dall’ombelico, passano attraverso la pelle semovibile di un soldato, i diorami di insetti giganti, amplessi volanti, un’enorme bambina che dorme in una fabbrica abbandonata, misteriosi visitatori notturni e via (via elevato al quadrato) dicendo, non ha nel concreto una marcata concatenazione effettiva. Non me ne lamentavo durante la lettura, e non me ne cruccio nemmeno ora che riordino i pensieri conclusivi, lo metto agli atti e ne prendo coscienza, è un’opera diversa, e questo Cărtărescu lo ha ribadito più volte durante le varie interviste, e lo è al di là della componente strutturale, ci sono digressioni storico-biografiche molto gustose su personaggi realmente esistiti (il matematico George Boole, i fratelli Mina e Nicolae Minovici, lo psicologo Vaschide – stratosferica la porzione a lui dedicata) che rappresentano un po’ una novità, ma, ovviamente, è anche un’opera che ha grande continuità con il capolavoro precedente perché lo stile di Mircea è sempre unico e grazie ai suoi interessi che esulano dalla letteratura e sconfinano nella medicina, nell’astronomia, nella matematica, nella fisica e nella metafisica, la sua prosa rimane sublime e ti fa sentire un asinello che mastica lento la carota quotidiana nel piccolo recinto in cui vive, e poi non si può sbagliare di fronte ai portentosi squarci onirici, le descrizioni di Bucarest o l’implacabile creatività che cinge ogni cosa (forse il mio episodio preferito è quello del vaso blu e in seconda posizione l’abduction aliena ai danni del custode), è un libro di MC, bastano tre righe per capirlo.

A viaggio inoltrato (mi sono segnato il capitolo numero trentasei come sorta di spartiacque) ho intuito, e non capito perché ora si entra in un territorio decisamente più grande di me, che quell’organicità citata poc’anzi non andava ricercata nei meccanismi di causa ed effetto che costituiscono le storie “normali” ma nella forma geometrica che è il Sacro Graal del romanzo: l’ipercubo o tesseratto. Lasciate perdere il rovello metaletterario del protagonista impegnato a scrivere il proprio memoir che poi risulta essere il libro che stringiamo tra le mani, Cărtărescu è un fenomeno nel gestire la faccenda ma l’operazione in sé non può venire considerata innovativa né troppo unificante in un’ottica globale, no, è doveroso concentrarsi su un piano... dimensionale, in particolare quello che va oltre le coordinate da noi conosciute. Per spiegarmi meglio prendo ad esempio quella critica che ha spesso ribadito di come gli scritti di Pynchon del passato avevano a che fare con la fisica quantistica, dal mio umile cantuccio sento che Solenoide è sulla medesima scia teorica, che l’impetuoso torrente che gli scorre dentro esonda per sua natura dagli argini della letteratura andando a fertilizzare e fertilizzarsi in altri campi di ricerca, cosicché le cinquantuno sezioni che lo formano sono le facce di un cubo impensabile ma che, in un luogo che non necessita della larghezza, della profondità e dell’altezza, esiste, esattamente come la casa-nave del Nostro, una dimora così piacevolmente simile a quella inventata da Mark Z. Danielewski che muta di stanza in stanza le cui porte fanno da ingresso a realtà ulteriori, si veda la salita nella torretta con Irina e le inerenti visioni psichedeliche. Dire che vi sia un’armonia coagulante non tanto negli eventi stampati su carta quanto nella concettualità perseguita dall’autore, peraltro in una materia non umanistica, è un’affermazione che comprendo discutibile, tuttavia l’invito è di fare in prima persona questa esperienza di decodifica per toccare quelle vette di apertura artistica per cui ad un certo punto gli innumerevoli anelli pensati dal rumeno si uniscono in una catena di senso compiuto perché comunque l’approssimarsi del finale ha una sua progressione ed elementi/situazioni/personaggi ritornano per suggerire una sensazione di compiutezza.

Per i punti che rimangono oscuri, e non sono pochi, il tasso di suggestione tampona qualunque obiezione razionale. Nello strabordare generale mi va di sottolineare un altro congegno molto interessante messo in atto da Cărtărescu dove seguendo nuovamente un po’ il filo conduttore di Abbacinante si spinge sul tema del doppio ma declinato in una autofiction riflessa in uno specchio deformante. Non è infatti difficile vedere nel protagonista, un docente le cui velleità di scrittore sono state troncate durante la lettura pubblica del suo unico lavoro La caduta, il negativo del “vero” Mircea, lo scrittore affermato che vive della sua arte. Il rimpallo tra il contesto finzionale e la realtà fuori dal volume, seppur mimetizzato in mezzo a miriadi di altre cose, c’è e arricchisce il substrato intellettuale dell’opera. D’altronde non ci si deve stupire dell’abbondanza e della qualità a cui si va incontro, ritengo che Cărtărescu sia un Kafka nato settant’anni dopo che ha assimilato le principali correnti del ’900 mettendoci dentro il suo vissuto durante i complicati periodi passati sotto la dittatura di Ceaușescu. La misura della sua stazza, confermata da alcune dichiarazioni, è data anche dal fatto che scrive ancora tutto a mano sopra dei comuni quaderni e, aspetto che lascia allibiti, non esiste praticamente editing per i suoi romanzi, quello che butta giù è quello che viene mandato in stampa, un fluire vergine di parole che proviene direttamente dalla fonte in maniera pura e cristallina: meraviglia. Ma cerco di darmi un contegno, ci sono stati due o tre aspetti in Solenoide che invece ho gradito un filo meno, ad esempio le annotazioni dei sogni che non mi è parso aggiungano granché alla narrazione, oppure i capitoli ambientati nel preventorio che ricalcano il clima di Travesti (Voland, 2000 1° edizione), ma la parte su cui mi sono scervellato maggiormente è il finale. Cioè, è un finale grandioso, apocalittico, colossale, però, se ben ricordo, è davvero simile alla conclusione de L’ala destra, in entrambi i casi la scelta è di chiudere i conti con una solenne ascensione verso il cielo, vieppiù che lo scenario dove l’azione si svolge divenendo teatro di un’entomologa Creazione di Adamo per mezzo del contatto con l’immane statua della Dannazione, riaccade nell’Obitorio con modalità equiparabili a ciò che avevamo letto durante l’esplorazione insieme a Virgil, va bene l’evidenziazione del cambio di ruolo del protagonista da persona qualunque a leader illuminato, però in termini di aspettative avrei preferito venisse posizionato un punto diverso al termine dell’infinito discorso. Trattasi di sottigliezze comunque, osservazioni di una formichina che scribacchia nella sua cameretta interrata.

E poi alla fine ho fatto quello che dovevo fare, ho chiuso Solenoide e l’ho messo nella mia piccola biblioteca a sinistra de... L’ala sinistra, forse non è cronologicamente corretto ma il tomo del Saggiatore è più alto di qualche centimetro rispetto a quelli di Voland e quindi per banale ordine visivo mi è garbato così. Dopodiché ho fatto un passo indietro per vedere meglio tutti quei dorsi colorati, quelle costole di un organismo coricato in perenne espansione e infine sono andato a dormire. La prima notte è passata tranquilla. Durante la seconda un ronzio proveniente dalla libreria mi ha svegliato, allora a piedi scalzi mi sono avvicinato alla fila di libri e ho notato che Solenoide pulsava di una luce aurea, e insieme a lui altri tre o quattro volumi molto importanti, almeno per me. Avrei potuto sfilarlo via, riaprirlo, toccare ancora quel parallelepipido di carta e inchiostro, ma ho preferito lasciarlo lì perché lì è il suo posto, nodo energetico della letteratura contemporanea, chakra risplendente nel corpo delle parole del mondo. La terza notte ho d’improvviso aperto gli occhi e subito mi sono sentito leggero, sgravato dal peso delle afflizioni notturne, il soffitto era più vicino e sotto di me non c’era traccia né delle coperte né del materasso, levitavo in aria, sospeso nella stanza amniotica, rischiarato dal bagliore dei miei amati libri.

martedì 10 agosto 2021

Quintal

Inizia come un ritratto sociale Quintal (2015) del brasiliano André Novais Oliveira, una panoramica su un agglomerato di abitazioni che non sembrano proprio trovarsi a Beverly Hills, una piccola casa con dentro due anziani impegnati nelle loro faccende quotidiane, poi d’improvviso si alza un vento anomalo che riesce addirittura a sollevare la cara signora (e pure una lumaca) ed allora il cortometraggio si apre ad uno strambo tono che flirta con un’accennata commedia ed un’altrettanta abbozzata fantascienza, probabilmente la cifra sociale (e personale) sopraccitata si era già espletata nel docufilm coevo Ela Volta na Quinta (2015) dove nuovamente si ritrova la coppia attempata qui protagonista (che poi nella realtà sono i genitori di André) inquadrata con un taglio presumibilmente più impegnato (sarebbe la messa in scena della loro crisi coniugale), Quintal ne diventa quindi una propaggine di venti minuti scevra di approfondimenti intimi e orientata ad una leggerezza che non disdegna curiose sortite un filo disorientanti.

Tenendo ovviamente presente che insomma, stiamo parlando di ben poca roba, se nel suo piccolo Novais Oliveira ha un merito è quello di non seguire la corrente della facile illustrazione per, al contrario, lesinare ogni tipo di spiegazione. Il godimento spettatoriale è lontano da questi lidi ma perlomeno viene tenuta in vita fino alla fine la curiosità che il film suscita e in fondo non importa troppo se nessuno dei tasselli proposti trova collocazione e continuità. Che cos’era l’improvvisa brezza? Ed il varco dimensionale dal vago aspetto vaginale? E la parentesi con il politico che chiama la donna? Il regista per tutta risposta... non dà risposte e disinteressandosi di quanto appena detto piazza in coda un buffo ed inaspettato finale, oserei dire divertente se non fosse che ho smesso di divertirmi da almeno una decina di anni.

mercoledì 4 agosto 2021

Dear Zachary: A Letter to a Son About His Father

È un’atroce storia di cronaca nera americana che sta alla base di Dear Zachary: A Letter to a Son About His Father (2008), un documentario che, come da titolo, si propone sotto forma di missiva visiva ad un destinatario che purtroppo non potrà mai ricevere questa lunga raccolta di voci amiche dal cuore sanguinante, c’è un’estesa commozione che fa da motore al film e che Kurt Kuenne registra da una parte all’altra dell’Atlantico costruendo un mosaico che, almeno inizialmente, sa di agiorafia. Andrew era una persona eccezionale, era leale e brillante, di certo non era fatto per Shirley: tre pistolettate ed il suo corpo prono sul terriccio di un parco rimane l’ultima immagine che abbiamo di lui. Ed essendo che Dear Zachary è un’opera di memorie le immagini tratte da filmati d’archivio riaccendono il ricordo dei parenti che si riversa nella nostra azione di vedere-il-film, il rapporto che quindi si instaura in tali esemplari cinematografici tra chi vede e chi è visto calamita rivoli personali più o meno intensi che creano, o desidererebbero farlo, delle protesi empatiche in cui scorre tutto l’amore, o l’odio, per una o più vite che per motivi differenti non ci sono più. È il cinema, e nient’altro. Anche se, nel nobile lavoro di Kuenne, sentito, ammirevole, emozionante, sincero, di cinema inteso come ricerca artistica non ce n’è proprio. Ciò che speravo era di incappare in un oggetto discreto come Must Read After My Death (2007), premesse abbastanza vicine, risultati finali divergenti.

Non approfondirò ulteriormente lo svilupparsi della vicenda perché è realmente una pagina cupa (una delle tante) della contemporaneità che, tra le altre cose, mette a nudo un vuoto giudiziario tristemente paragonabile a quelli del Belpaese, e non riporterò nemmeno l’evidenza, ossia che più i minuti si susseguono e più il regista è stato obbligato a ricalibrare la portata argomentativa, dal memoir al legal thriller fino all’ideale passaggio di consegne: dal tributo ad Andrew al tributo rivolto ai coniugi Bagby che, se davvero esiste il karma o qualcosa di simile, nelle loro prossime esistenze raccoglieranno i meritati frutti, quindi no, non ritengo sia utile sottolineare oltre quanto appena detto perché qui vogliamo parlare della materia prima che modella Dear Zachary e per farlo non ci si può esimire dal dire che nonostante gli intenti siano alti la realizzazione è proprio di livello dozzinale, la sua configurazione appare pensata per una messa in onda in qualche network televisivo piuttosto che per una proiezione in sala. Per il sottoscritto il modo in cui Kuenne fa progredire la narrazione attraverso oculati taglia e cuci, intensificazioni audio e video è equiparabile ad un’iniezione di doping, è inquinamento, è tossicità. Poi sono d’accordissimo sul fatto che il caso Bagby-Turner debba arrivare al vasto pubblico e va bene così, ma la mia coscienza critica non ha potuto fare a meno di mettervi in guardia...