martedì 31 luglio 2012

The Arbor

Andrea Dunbar (1961-1990), scrittrice e autrice teatrale inglese perfettamente sconosciuta in Italia a causa della sua numericamente esigua produzione, è l’oggetto d’attenzione di questo The Arbor (2010) diretto dalla semi debuttante Clio Barnard. Attenzione però, il film in molti siti viene catalogato come opera biografica, ciò non è completamente errato, ma nemmeno totalmente vero.
Sicuramente l’interesse verso la figura della Dunbar è centrale perché comunque tutto ruota intorno a lei, al contempo però il lungometraggio allarga il suo raggio d’azione inglobando e proponendo ulteriori aspetti all’attenzione dello spettatore.

Il titolo è già un elemento su cui ragionare. La Barnard per denominare la sua opera ha preso in prestito il nome del primo lavoro di Andrea Dunbar, scritto all’età di soli 15 anni, che raccontava la storia di una ragazzina messa incinta dal padre alcolizzato. Opera molto personale perché la Dunbar stessa ebbe una gravidanza poi finita male a quell’età. Ma Brafferton Arbor è anche il quartiere working class in cui Andrea visse e che la ispirò per i suoi scritti, i quali come viene ripetuto nella pellicola trattavano semplicemente di cosa lei vedeva (e viveva) ogni giorno. C’è quindi una forza profondamente radicata nel territorio all’interno delle sue opere, e Clio Barnard cerca di riproporre questa vicinanza alla strada insertando il proprio film con alcuni atti di un’opera della Dunbar, la particolarità è che tali scene sono proprio ambientate nelle vie di Brafferton Arbor senza alcuna scenografia se non quella proposta dall’anonimo paesaggio della contea, una specie di Dogville (2003) urbanizzato.

Detto questo, che già dona una certa particolarità, è opportuno sondare la polpa della pellicola per scoprire che l’etichetta di documentario gli va parecchio stretta. Sebbene vi siano dei filmati d’archivio della BBC proposti a schermo ridotto in cui si può vedere la Dunbar e alcuni dei suoi famigliari, il resto del film è costituito dalle testimonianze dei figli (ne ebbe 3 con 3 mariti diversi) e delle persone che l’avevano conosciuta. La peculiarità è che si tratta di attori, non di veri amici o veri parenti, per cui la patina documentaristica scivola via rapidamente mostrando il suo nocciolo di pura finzione.
Questa piccola “scoperta” è con ogni probabilità il cuore del film, e Clio Barnard insiste su tale punto perché già verso metà pellicola racconta della morte improvvisa della scrittrice da tempo fedele compagna del bicchiere, per spostare l’attenzione sulla sua primogenita Lorraine nata dal breve rapporto con un uomo pakistano. Qui avviene una sorta di duplice contatto: la Barnard si focalizza sulla terribile storia di questa ragazza (eroinomane, madre sciagurata), e a sua volta questa storia sembra essere sputata dalla penna della Dunbar. I due cerchi si sovrappongono nella narrazione del film in questione che, tenendo sempre conto del nome che porta, potrebbe benissimo essere un’opera postuma di Andrea Dunbar.

Apprezzato dalla critica inglese, The Arbor è in effetti maggiormente fruibile da uno spettatore anglosassone: per la lingua (davvero arduo stare dietro all’incessante favellare britannico); per i riferimenti contestuali che trattano un’epoca e un quadro sociale a noi poco stuzzicante; e per il soggetto dell’opera, questa Andrea Dunbar di cui niente si sapeva.
Resta una forma accattivante e sperimentale; che non sia molto sono d’accordo, ma almeno c’è.

domenica 29 luglio 2012

I Love Sarah Jane

Teen-movie mascherato da zombie-movie e viceversa.
I Love Sarah Jane (2008), diretto da quel Spencer Susser che abbiamo conosciuto di recente con Hesher è Stato Qui! (2010), scorre nella sua brevità tra questi due argini intercambiabili, necessari e complementari per la propria esposizione. Susser adopera la messa in scena tipicamente di genere (cadaveri in strada, macchine rovesciate, fuochi sparsi) per stendere il significato: all’interno di un contesto inzuppato di horror-dramma gli unici sopravvissuti sono degli adolescenti, per non dire dei bambini; gli adulti (i genitori) o sono morti, o sono dei morti viventi che hanno perso ogni tipo di qualifica: non c’è più nessun padre, ma solo uno zombi da torturare.

La metafora suggerirebbe il corto come un’istantanea dell’adolescente opposto all’adultità, separato, acerrimo nemico del mondo che lo aspetta in futuro. All’idiosincrasia si accompagna il turbine sentimentale, qui piuttosto domato ma per forza di cose caricato visto il titolo, che è, o dovrebbe essere almeno nella mente del ragazzetto, il mastice per ritrovare calore (la storia del martello è una fantasia generata da qualche porno visionato in Rete), quello vero, o almeno che gli si avvicina: essere dei pesci rossi presi e rigettati, essere degli innamorati respinti e magari un giorno ricambiati.

venerdì 27 luglio 2012

Himizu

Sion Sono.
Il Giappone.
Il terremoto.

All’interno, intorno e all’esterno di queste tre strutture prende forma Himizu (2011), ennesimo devastante capitolo di una filmografia in perenne sgretolamento, film che come al solito mostra l’altissimo tasso autoreferenziale del regista perché ancora una volta la cellula della società, il mattone della comunità: la famiglia, viene polverizzato, maciullato sotto i colpi di ruoli e identità plasmati nell’illogicità, nella perpetrazione del sopruso, e poi scambiati, rivoltati, in un gioco che come sempre è all’eccesso ma che, come sempre, non naufraga mai nell’esibizione, nella gratuità di mostrare la sopraffazione, perché nel cinema di Sono, grazie ad un miracolo che forse è meglio non svelare, la violenza è parte fondante della storia e permette di delineare i contorni dei personaggi senza psicologismi narcotizzanti: è cinema di schiaffi che colpisce e lascia il livido, un’ecchimosi di consapevolezza: film così li fa solo lui poiché oltre ad una caratterizzazione unica dei suoi attori, Sono riesce a far convivere nell’ecosistema diegetico un ventaglio di generi che per ampiezza inonda di brio la visione: non c’è un attimo di respiro nel passare dall’ottovolante della commedia più ingenua al teen-movie di formazione, dal gangster-movie più pacchiano al dramma introspettivo. Sebbene tutto ciò sia già stato proposto all’interno dell’opera-monstre Love Exposure (2008), Sono non pecca mai di derivazione né ama sedersi sugli allori: in ogni tassello della sua carriera si rigenera con rinnovata potenza un senso di sofferenza artistica che non sarà di certo il sottoscritto a tentare di descrivere.

La conferma sononiana è solo una porzione della sfera Himizu perché se è vero che l’isterica impostazione bildungsroman tiene banco dal primo all’ultimo minuto, è ancora più vero che nel cuore del film sussiste un parallelo improntato all’autosostentamento, ovvero a trovare la propria benzina allegorica all’interno delle dinamiche di superficie. È un parallelo che nonostante sia messo in luce senza sotterfugi, non lede affatto, si scrolla di dosso ogni possibile evidenziazione didascalica e si apre così, rovinoso e sconquassante, nei confronti dello spettatore, perché è chiaro: Sumida è il Giappone. La traslazione di un Paese in ginocchio nel corpo di un ragazzino altrettanto disperato crea un doppio canale riflettente laddove le vicissitudini di Sumida abbracciano questioni molto più ampie, strettamente legate alla nazione di appartenenza e interpretabili come lame che fendono piaghe a cui è praticamente impossibile abituarsi: chi vede la follia nel padre che invita il figlio al suicidio non vede l’idea del presente giapponese che non crede nell’avvenire, chi vede nel gesto dell’anziano un semplice modo per sdebitarsi dell’accoglienza ricevuta non vede la solidarietà fra chi pur non avendo più nulla spera ancora nel futuro, chi vede negli episodi urbani delle imbottiture narrative non vede le scorie di una catastrofe umana ancor prima che naturale, chi vede nell’alter-ego femminile una banale deviazione sentimentale non vede nella prossimità uomo-donna il primo passo per provare ad immaginarsi… felici. 

Presentato a Venezia ’11 dove i due giovani protagonisti si sono portati a casa il Premio Mastroianni, Himizu può vantare inoltre un cast di interpreti eccezionali che in passato hanno già lavorato col regista (ci sono i volti di Cold Fish [2010] e Guilty of Romance [2011]). Piena di trovate che saziano l’appetito estetico, la pellicola sciorina situazioni magistrali come l’uccisione del padre (un pianosequenza al chiaro di luna con un magnifico carrello in ascensione) e scorci intensissimi come il dialogo tra il vecchio ed il boss mafioso o quello tra Keiko e Sumida nel finale.

In attesa di nuovi sismi filmici, il consiglio è: amate Sion Sono come se non ci fosse un domani.

giovedì 26 luglio 2012

Diritti in Amazzonia

Giorgio Diritti è sicuramente uno dei registi italiani più apprezzati dell’ultimo decennio.
Anche se finora la sua produzione è stata piuttosto contenuta, appena due lungometraggi più una manciata di documentari, ha dato prova di avere la stoffa dell’Autore, e quindi alla notizia di un nuovo capitolo della sua filmografia è doveroso drizzare le antenne.
Se i lavori precedenti si caratterizzavano per la loro forte identità “geo-umana” (la recitazione in dialetto!), Un giorno devi andare (questo il titolo definitivo) si profila come una pellicola diversa, almeno sulla carta, perché il set esce per buona parte dall’Italia dividendosi fra la foresta amazzonica e il Trentino; la protagonista è Augusta, una donna che si reca in Sud America per cercare se stessa dopo degli infausti eventi.
Uscita prevista in autunno.

mercoledì 25 luglio 2012

Lola

È dal 2005 che Brillante Mendoza è totalmente calato nella realtà filippina, non inventa: riprende; non falsifica: invera; e, come si è ripetuto fino alla noia, film dopo film lo ha fatto sempre meglio, ne consegue che Lola (2009), ultimo lungometraggio prima di Captive (2012) che probabilmente sarà una questione a parte, è un’opera pregevole alla quale non si sente la necessità di rivolgere una qualsiasi critica, piuttosto pare interessante scandagliare il corpo-film per riconoscere qualche variazione dal solito spartito.

In primo luogo è evidente che lo shock, l’impatto, la tetraggine sono elementi che si sono fermati poco prima (l’incubo dista un niente, Kinatay è dello stesso anno), qui si racconta in maniera diretta il dopo, gli strascichi, quello che la morte lascia: niente, a parte una candela piantata nell’immondizia e una voglia di rivalsa a cui probabilmente nemmeno si crede. La rassegnazione balena negli occhietti liquidi di una nonnina che prende atto della propria condizione (la pipì non trattenuta), e di riflesso il cinema di Mendoza diventa per la prima volta ritrattista, non si misura più soltanto nella verità in cui è calato ma modella le sue due anziane, le coccola, le nutre con la malinconia della vecchiaia, le mette al centro di un confronto incrociato, e le propone a noi così: persone vere in un luogo vero.

Se sono dunque due le protagoniste di questo film, allora anche l’intelaiatura generale si costituisce in una bipartizione. Non è la prima volta che Mendoza gioca su più fronti, anzi, tutto ciò che precede Service (2008) si plasmava nella coralità, ma alla molteplicità degli sguardi non corrispondeva un’unione convincente, sicché molto rimaneva isolato, e si può citare Tirador (2007) come esempio principe.
In Lola le due piste hanno al contrario una compattezza reciproca e forniscono linfa vitale alla vicenda. La sussistenza narrativa è proprio collocata nel dialogo a distanza fra Sepa e Puring che sebbene siano divise dal crimine e dalla legislatura, si scoprono più unite di quanto possano credere, e lo si intende nella conversazione, la prima e l’ultima, dove gli acciacchi in comune e le perdite coniugali allontanano il colloquio dal motivo dell’incontro.

Il tracciato di Mendoza non perde comunque il suo orientamento che fin dagli albori artistici obbliga a volgersi verso il proletariato filippino (cosa che fanno anche dei cineoperatori sul treno), alla miseria che impedisce di comprare una bara, di pagare un funerale, una fototessera, un risciò, e obbliga a scendere a patti con le istituzioni (l’elemosina alla donna di potere) e con se stessi: i soldi sotterrano la voglia di vendetta, la morte allora lascia qualcosa: il silenzio della coscienza, senza rimorsi, l’età non lo permette più, dopodiché ognuno per la propria strada.

lunedì 23 luglio 2012

Into the Abyss

Dall’alba al tramonto in un solo anno.
Dall’alba primordiale di uomini che costruiscono i primi mattoni della società, che iniziano a rapportarsi con ciò che è altro da loro, che trovano nella pittura rupestre, e quindi nell’arte, una forma catartica per realizzarsi (Cave of Forgotten Dreams, duemiladieci), al tramonto terminale di uomini che non hanno più alcun riguardo verso il concetto di comunità, che antepongono la proprietà materiale alla propria condotta morale, che tentano di combattere la violenza infliggendo a loro volta la brutalità di un omicidio legalizzato (Into the Abyss, duemilaundici). 
Nell’arco di appena 365 giorni Werner Herzog si occupa prima dei magici anfratti della grotta Chauvet, e dopo delle celle anonime del carcere di Huntsville, Texas, prigione che ingloba dentro di sé un tale di nome Michael Perry, condannato a morte di lì a pochi giorni, focus herzoghiano dal quale l’autore teutonico parte e da cui, con la sua solita curiosità, si allontana sondandone la sfera sociale che comprende i vari componenti della cittadina di Conroe.

Il documento è più che asciutto e mancano i voli pindarici del caso, lo stesso Herzog si limita ad essere l’interlocutore degli intervistati laddove l’intervista diventa il combustibile narrativo. Estromesso dal ruolo extradiegetico di prosatore, il regista si limita ad interrogare chi gli sta davanti; tirare in ballo la cantilena di un autore sempre attento alle figure di confine appare una scontata reiterazione che qui non verrà ripetuta: le donne e gli uomini che delucidano, con sofferenza, i fatti della vicenda sono semplicemente tali, tanto che la sensazione di un Werner “distante” dalle persone è, per il sottoscritto, evidente e ciò influisce sulla riuscita del documentario che è meno personale di quanto ci si possa aspettare. Il metodo colloquiale e le immagini di repertorio pescate direttamente dagli archivi della polizia, rendono Into the Abyss un prodotto non lontanissimo da un qualunque dossier giornalistico.

Ciò non toglie che comunque gli argomenti proposti posseggano un loro interesse.
La panacea vitalizzante è concentrata in un approccio estremamente concreto che, dal punto di vista concettuale, si districa bene su quello che è un campo minato. Maneggiare l’argomento “pena di morte” può comportare il rischio di scivolare nella retorica più stantia, nei processi in piazza più rabberciati. Il film evita questi dossi scontati e sceglie di non schierarsi. Ad esclusione di una breve battuta da parte di Herzog, mai l’opera demonizzerà la pena capitale o men che meno stigmatizzerà l’assassino e il suo complice. È un Herzog pragmatico che cede il palcoscenico alle intime confessioni di chi ruota intorno all’uccisione di Sandra Stotler, e a parte il casus belli al centro dell’attenzione, ci sono molti altri abissi che provocano vertigine (essere stati analfabeti fino al momento dell’incarcerazione; essere in gabbia insieme al proprio figlio; essere incinta di un detenuto tramite – probabilmente – un traffico occulto di sperma dal penitenziario verso l’esterno), vuoti profondi in cui brillano due luci: per una sghemba associazione di idee dalle tenebre riemerge lo sguardo di quella scimmia dietro le sbarre in Echi da un regno oscuro (1990), che poi è lo stesso di Kinski aggrappato al palo di una zattera, cambiano i luoghi e i tempi ma non i precipizi dell’esistenza, e questo Herzog lo sa bene.

sabato 21 luglio 2012

Snowtown

Pare che il signor John Bunting stia scontando tutt’ora la sua pena in un carcere australiano, tenendo conto che è considerato da sempre il killer più prolifico nella terra dei canguri, probabilmente non metterà mai più il naso fuori. E per capire come sono andate le cose in quei sette anni di sangue l’esordiente Justin Kurzel ci propone un ritratto dell’assassino visto con gli occhi del giovane Jamie.

Debutto o non debutto, Kurzel si è studiato bene quella frangia di cinema americano indipendente che forse piace più a noi europei che agli americani stessi. Film che magari furoreggiano nei vari Sundance e che nel giro di poco tempo precipitano nel loro meritato oblio, penso ai lavori di Araki o di Clark che dopo aver creato la classica bolla di scandalo affondano pian piano nel mare delle pellicole dimenticabili.
Ciò che si vede e si percepisce in Snowtown (2011) è (e magari sarà) un probabile percorso gemello a quello compiuto dalle opere appena citate.
Chiaro che l’ambiente colpisce, qui siamo al di là della povertà, della miseria, o di qualunque altra assenza materiale, qui è il cielo perennemente plumbeo che si è insinuato prepotentemente nel cuore delle persone: come dopo un tornado: restano solo macerie. Vediamo in sequenza sogni molto più vicini agli incubi, madri che giocano a poker, vicini di casa che abusano di innocenti, incesti omosessuali, animali uccisi per basso ludibrio umano, omicidi diabolicamente pianificati a tavolino.
Di roba per far notizia ce n’è fin troppa, e scansando un momento alcuni dubbi è innegabile che il tasso di crudeltà sia tanto elevato quanto capace di stuzzicare i ricercatori di storie forti. Per di più Kurzel si mostra abbastanza parsimonioso nell’esposizione sfuggendo ad un sempre controproducente esibizionismo. (per inciso: sottolineo “abbastanza”, ché qualche scena all’emoglobina c’è, e pure un’unghia strappata a mo’ di tortura).

Questa tendenza a non eccedere si ravvisa anche all’interno della narrazione costituita da un susseguirsi ellittico capace di nascondere gli eventi. Se a prima vista una tale peculiarità potrebbe apparire come un discreto escamotage per ravvivare il racconto, quello che ne esce fuori è un esteso disordine implementato dal modus operandi della banda che necessita di una buona parte di film per essere compreso appieno. Non si sa quanto Kurzel abbia voluto attenersi il più possibile ai fatti reali, ma se l’aderenza è stata pressoché totale ne consegue che la notevole mole di personaggi non aiuta a comprendere anche solo i legami base all’interno del film (esempio: chi è secondo voi l’ultima vittima?), se invece il comparto attoriale è stato volutamente accresciuto in fase di scrittura allora il regista non ha fatto altro che darsi la celeberrima zappa sui piedi.
C’è ancora un elemento che aggrotta le sopracciglia e che riguarda questo come altri biopic o pseudo tali, va bene la ricostruzione storica, ma la biografia non basta a sorreggere un’intera opera, così in Snowtown si affacciano timidamente questioni “etiche” che riguardano tutto il blocco in cui John e soci si ergono a paladini della giustizia dando la caccia ai soggetti deviati della località, e a ciò si collega il fatto che Jamie passa da vittima a carnefice in un ribaltamento non proprio seminale, il risultato è che entrambe le sfaccettature rimangono sfocate e non vengono dotate di sufficiente consistenza.

Menzione speciale al Festival di Cannes, il film di Kurzel ha molte attenuanti del caso (si tratta pur sempre di un esordio!), cosiccome ci sono meriti che vanno evidenziati. Ma ci vuole altro di più per farsi seguire, e altro ancora per saper ferire.

giovedì 19 luglio 2012

Naufragio

Credo che Naufragio sia un film astratto e abbia diversi piani di lettura, di modo che ognuno possa trarre le proprie risposte. Il film è una critica alla letteralità del mondo, i giornali, i media e la gente stessa tende a leggere il mondo in modo del tutto letterale, invece di dargli una profondità e complessità maggiori.
(parole del regista estratte da qui)

Il sole sorge e con lui un uomo, figlio di Dio o di un dio ulteriore, che per Pedro Aguilera arriva dalla sorgente vitale: l’acqua, e da qui inizia il suo vagabondare in mezzo ad un’umanità che si esprime in un ampio ventaglio di qualità, dalle più infime (il razzismo becero del cacciatore), alle più nobili (la solidarietà dell’anziano). Ma ridurre Naufragio (2010) ad un’interpretazione così meccanica non rende il giusto merito ad un’opera stratificata fino alla polisemia, un film punteggiato in ogni singola inquadratura dal ritorno del mistero, del sacro, della magia, della religione. Poche linee di dialogo, predilezione verso i campi lunghi e le riprese panoramiche, obiettivo perennemente puntato sul monolite di ebano dagli occhi bianchi (Solo Touré, attore per la prima volta), manipolazione tecnica tradotta in ruggiti accelerati e allucinati, il film abbraccia dentro di sé una moltitudine di trovate da renderlo un oggetto filmico che, molto semplicemente, va vis(su)to ora e adesso, in questo momento storico dove tutti siamo degli emigranti (da noi stessi). Jodorowsky docet (video).

Aguilera, qui alla seconda prova registica dopo La influencia (2007) e dopo aver assistito Reygadas in Battaglia nel cielo (2005), partorisce un lavoro che stimola una quantità così variegata di suggestioni da lasciare scossi, perturbati. La scelta di avvolgere Robinson in una fitta nebbia impenetrabile (attenzione a quella del magnifico incipit!) fa aumentare esponenzialmente l’appeal di un personaggio che, forza del paradosso, non fa quasi niente per attirare l’attenzione: il suo atteggiamento passivo, al contrario, esaspera i comportamenti di chi gli sta accanto finendo per dover fare i conti con bassezze che non gli appartengono (il sesso rifiutato o il denaro bruciato). Su quel quasi è però obbligatorio soffermarsi più di un attimo: Robinson, la cui vicenda è adattata molto alla lontana dal libro di Defoe, oltre il suo essere imperturbabile nasconde dentro di sé un qualcosa di arcano, un distacco netto nei confronti degli uomini che incontra, e ciò viene egregiamente tradotto da Aguilera che con parsimonia insinua il dubbio (l’ombra che schizza via), architetta il suo profilo esoterico con semplici abbassamenti di luce (tutte le sedute in cui “chiama” il padre), arzigogola l’intreccio senza superflue chiarificazioni (la presenza opposta del barbone), e poi, spavaldamente,  ne rivela la non appartenenza all’ordine delle cose, la sua straordinarietà (il fuoco che viene dall’acqua) e la sua straordinaria umanità (“papà perché mi hai lasciato solo?”).

L’eco più potente è senza dubbio quella di matrice messianica. Il rapporto spirituale padre-figlio, sebbene mascherato dalla componente esotica delle pietre magiche, possiede un’epifania biblica che non smette praticamente mai di essere sottolineata. Lo sguardo del ragazzo si rivolge spesso verso il cielo (guardare il poster, prego), e la mdp segue fedelmente la traiettoria ottica andando a cogliere quel blu non dissimile dal colore del mare. Il cinema proposto dall’autore si adegua a questo dialogo tra su e giù offrendo inquadrature dall’alto che spaziano da una ripresa all’interno della camera d’albergo ad una dal taglio naturalistico in grado di certificare la conversazione tra un figlio che comunque prova rabbia, paura, disorientamento (per tutto valgono gli attacchi simil-epilettici), ed un padre che silenziosamente risponde: la caverna, un taglio nel corpo della natura, è il luogo in cui, prima o poi, potranno ricongiungersi.

Non privo, come prevedibile, di azzardi narrativi che saturano il piano simbolico, Naufragio è film che non si cruccia della sua essenza enigmatica e al contempo non se ne approfitta nemmeno, Aguilera ha sfornato un’opera che ritrae il Mistero, indiscusso protagonista di una vicenda che allo spettatore lascia delle briciole chiaroscure, ammalianti, sensazioni tremendamente seducenti che ritraggono l’Uomo come ultima frontiera dell’interrogativo, perché ha ragione Dumont quando dice che la fede in cui val la pena credere è il cinema (link), “poiché per me il cinema è ciò che permette di far posto allo straordinario nell’ordinario e di lasciar percepire ciò che vi è di divino negli uomini.”
Hors Satan (2011) e Naufragio sono la prova che il cinema quando vuole e può è molto, molto di più che semplice arte, è confine della certezza, riflesso dell’anima, fortezza solitaria  dove tutto può accadere: ritornare dalla morte o ritornare a Dio, risorgere o morire, salpare o naufragare.
Incantesimo nero su pellicola, occulto capolavoro.

martedì 17 luglio 2012

La traversée de l'Atlantique à la rame

Attraversare l’Atlantico con una barca a remi.
Tale è lo spunto utilizzato dall’animatore francese Jean-François Laguionie per questo cortometraggio del ’78 che si guadagnò importanti riconoscimenti sia a Cannes che ai César.
Il tragitto che dovrebbe andare da un capo all’altro della crosta terrestre acquisisce fin dalle prime vogate altra consistenza: quello che la coppia affronta non è un viaggio, ma Il Viaggio, della Vita ovviamente.
La loro storia, che sfiora la vera Storia (il Titanic affonda davanti ai loro occhi!), si sviluppa all’interno della barchetta e mostra in maniera traslata un’esistenza coniugale come ce ne sono molte in cui si parte legati (un laccio), si bisticcia per motivi futili, si disconosce il proprio partner (lei è una sirena, lui un gabbiano), si rimpiangono i sogni mai realizzati (la donna che culla tra le braccia una lisca di pesce), ma alla fine, nella vecchiaia, si ritorna al punto di partenza, di nuovo insieme per sparire, e ammettere che il viaggio, in fondo, non è stato neanche troppo lungo.

Percorso sulle stagioni dell’adultità, La traversée de l’Atlantique à la rame si inoltra nelle pieghe di un surrealismo implementato dal tratto di Laguionie che ricorda per estro visivo il connazionale Laloux. Scandito dal diario dei naviganti, scolpito nei fantasiosi paesaggi marini, illuminato dalla villoniana scena del casinò sull’acqua, il film si esprime in una confidenza autunnale, in un bisbiglio d’universale intimità.
Simbolico, malinconico.

Un ringraziamento al forum di Asian World il cui lavoro di ricerca non ha eguali.   

domenica 15 luglio 2012

Meat

Due uomini: uno è un macellaio dedito alla perversione, l’altro è un ispettore di polizia in crisi con la moglie. Un uomo, due facce.

Come dicevano tempo fa alla tv: all’improvviso uno sconosciuto, anzi due.
Andando a vedere i crediti di Vlees (2010) si scopre che è un film diretto a 4 mani, e se si va più a fondo nella ricerca si può notare di come questi due registi collaborino insieme fin dal lontano 1990.
Sono olandesi, si chiamano rispettivamente Victor Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth, ed entrambi prima di essere dei filmmakers sono degli artisti: lui fotografo (qui il suo sito)  e lei pittrice/scultrice (qui invece il suo). Dando una rapida sbirciata alle loro produzioni si può intuire di come questo film, e qualcosa mi dice anche quelli precedenti, diverga dal comune vedere.
Materiale succulento per questo spazio virtuale? Mmm…

Il problema ciclopico di Meat è che si tratta di un’opera incurante dello spettatore: è scombiccherato, disordinato, delirante. Priva chi guarda delle coordinate elementari.
E allora sembra non esserci tempo perché i fatti accadono e poi riaccadono in un loop disorientante, tanto da chiedersi se molto di ciò che si è visto non sia un sogno, oppure un incubo.
Inoltre sembra (è un eufemismo) che non vi sia coerenza narrativa, il macellaio e il poliziotto interpretati dallo stesso attore si annodano in una spirale illogica che si regge in piedi soltanto per la curiosità che la vicenda riesce all’incirca a sprigionare.
Infine va registrato un quantitativo notevole di “messaggi” che però non convinco granché nel contenuto, si va dalla crisi coniugale che culmina con l’ottima scena del suicidio, alle abitudini pruriginose del macellaio, passando per altre strette sottostrade che, nuovamente, sembrano condurre soltanto a dei vicoli ciechi: vedasi le velate allusioni all’ambientalismo, la sequenza dello stupro, d’impatto ma poco utile ai fini della storia se non per delineare sommariamente la personalità della ragazza, o la presenza della donna al piano di sopra che resta la figura più enigmatica della pellicola.

Questo è quello che si percepisce. Probabilmente il titolo brachilogico ha significati più sotterranei, potremmo infatti pensare alle persone come carne, quindi roba già morta e per di più fatta a pezzi, ma questa è un’interpretazione del tutto soggettiva che i registi con la loro visione arty di certo non suggeriscono.
Non ci stupiremmo poi se qualche sprovveduto tirasse in ballo Lynch, quando ci sono in giro sdoppiamenti di identità lo si fa di routine, ma è chiaro che qui siamo lontani da un modello così alto.
A tratti affascinante, sulla lunga distanza parecchio confuso.

venerdì 13 luglio 2012

Senza tetto né legge

Aperta campagna: il cadavere di una ragazza viene trovato nei pressi di un campo.
È la fine di una vita e l’inizio della storia.

Partendo dal capolinea, il viaggio si muove obbligatoriamente al contrario in modo che la regressione si trasformi in propensione per andare avanti, e la regista francese Agnès Varda classe 1928 – doppiata nell’introduzione con un accento transalpino che fa quasi tenerezza per l’ingenuità della cosa –  decide di cominciare in media res, eliminando la biografia di Mona che apparirà soltanto in qualche brandello successivo, preferendo immaginarla come una ninfa che esce dall’acqua per inoltrarsi nella gelida pianura.
Si ha la prima constatazione del titolo, questa giovane ragazza non possiede una casa.
La casa a livello generale è un sottile leit-motiv dell’opera: molti degli incontri che Mona farà tangono questioni riguardanti un’abitazione, possiamo citare come esempi l’eredità della vecchia signora (probabilmente la sottotrama più riuscita del film) o l’immigrato tunisino che non potrà tenerla con sé perché i colleghi non vogliono una donna in casa.
D’altronde un tetto trasmette facilmente le idee di calore, solidità, riparo, tutti elementi che la protagonista non ha, o che forse riesce anche ad avere ma solo per brevi istanti.

E questa impossibilità si deve ai comportamenti di Mona stessa.
Qui si accerta la seconda parte del titolo. La legge non ha aspetti legali (anche se le conclusioni sbrigative dei poliziotti e il furto da parte del fidanzato della badante aprono ulteriori spiragli) bensì etici. Mona, più semplicemente, non ha alcuna regola a cui sottostare, e vive in una libertà prossima allo stato brado che appare la condizione calzante della sua bestialità (gli strappi al pane raffermo, i rapporti occasionali) o più in generale ad una condizione di apatia che si riversa anche su chi tenta di darle una mano, tanto che, come le dirà il pastore-filosofo, la sua libertà è una prigione di solitudine. Errare, ma non aberrare.

Si sa che non tutte le ciambelle riescono col buco, e allora se il vagabondaggio di Mona e la sua noncuranza verso se stessa e chi la circonda sono elementi che ben si evidenziano dal contesto, è doveroso ricordare che questo è un film di fiction e come tale ci si aspetterebbe che vi sia un intreccio, una sequenzialità, un concatenamento o quel che volete all’interno della storia, invece il pericolo aneddotico fa continuamente capolino, ed anche se alla fine Varda tira per sommi capi le fila della vicenda, alcuni nodi non vengono al pettine, magari anche ininfluenti (il pastore e il tunisino) e superflui (la docente universitaria), ma che messi lì appesantiscono il minutaggio e sembrano quasi corpi estranei dal resto della pellicola.
Leggermente fastidiosa la tendenza di far parlare in camera gli attori, senza infamia senza lode i molteplici carrelli orizzontali.

Leone d’Oro a Venezia 1985.

mercoledì 11 luglio 2012

...E ora parliamo di Kevin

Mi porto dietro una matassa che non riesco più a sbrogliare
comunque la rigiri pesa, e non sono più sicuro che sia lì la soluzione
ma che si trovi in fondo al mare, ma che si trovi in fondo al mare.
(Fine before you came – Sasso)


(…si parla del come)
Partiamo dalla nota lietissima che viaggia sui binari della definitiva conferma: Lynne Ramsay. Al suo terzo lungometraggio la regista scozzese trova nell’intemperanza calcolata la propria dimensione. We Need to Talk About Kevin (2011) squaderna con intransigente potenza la maturità dell’occhio appoggiato al mirino, un occhio che misura millimetricamente ogni componente del rettangolo visivo mixando con sapienza inquadrature che offrono punti di vista fotografici (un plongée come quello iniziale incastona l’incipit nell’iride spettatoriale) a piani che sebbene più ordinari non si concedono all’ovvietà (quello di Eva nel supermercato). Lo stile abbraccia un repertorio tutto da sfogliare, pullulante di immagini franose, che investono, duettano tra di loro e che dettano la linea narrativa, perché, come afferma Pacilio (link), per l’autrice la narrazione è la visione, e viceversa. Sul serio: l’impatto della festa che apre il film (una reminescenza ispanica di Morvern Callar?) si coniuga all’attinente presente in cui la casa della protagonista è segnata da secchiate di pittura rossa. La cromatura sanguigna descrive senza sottotitoli lo spettro esistenziale della donna marchiato indelebilmente dal sangue, anche se il sangue vero e proprio non verrà mai esibito, nemmeno durante la strage. Tradurre questo stato di soggezione, di sofferenza e di annullamento non attraverso le parole ma per mezzo dell’immagine, attracca saldamente sul profilo alieno di una perfetta Tilda Swinton, e con spavalderia non si ferma al canale visivo perché il piatto ha ricchezze ulteriori che si rintracciano nella riproposizione audio dove non abbiamo solo la tremenda epifania degli irrigatori, ma si fende nel contrasto, lo scarto straniante tra ciò che viene sentito (Everyday di Buddy Holly) e ciò che si vede (dei bambini travestiti da mostri per Halloween).

(...si parla del cosa)
Proseguiamo con l’involucro del film, una corteccia nascosta dall’irregolarità temporale con cui la storia viene proposta. Il massacro, a sua volta celato dai balzi ellittici, è soltanto l’ultimo stadio della discesa che, ovviamente, viene disvelato nell’agghiacciante pre-finale. L’atto di rappresentare una siffatta tragedia non deve distogliere dal vero nucleo incandescente: il rapporto madre-figlio, diade controversa dal legame annichilente, indecifrabile, illogicamente contro-edipico. Avvalendosi degli strumenti sopraccitati, Ramsay interra il seme della scomodità nel solco materno, enuclea  insistendo sull’incontro tra i due genitori che vede Eva visibilmente alterata come a sottolineare la risibile volontarietà della donna ad unirsi all’uomo, e incide a più riprese un sentimento sovraccarico di odio, fin dalla natalità e via via nella crescita: il pianto martellante tra le mani della mamma, il vandalismo inflitto alle cartine geografiche che figurativamente sentenzia la prigionia di Eva, la finta bandiera bianca causata dal momentaneo malessere di Kevin che ascolta attento la fiaba di Robin Hood (e sappiamo come l’arco diverrà il suo flagello), l’abuso nei confronti della sorellina storpiata e la relativa indifferenza: un lichis spellato (un occhio, ancora un’immagine) e masticato sardonicamente. Ogni episodio, istantanea famigliare, o semplice sguardo all’interno delle mura domestiche si tinge di instabilità, come se il diavolo non avesse difficoltà a vestire i panni di un nanerottolo, e tutti i frammenti disseminati durante la proiezione trovano drammatica composizione dentro Eva: rivoltata nelle viscere, prosciugata, allontanata: sola.

(…si parla del perché)
Concludiamo con un piccolo appunto per cui è d’uopo abbandonare il plurale maiestatico, e quindi, se proprio si volesse condurre una sommossa al film, penso che il suddetto presti il fianco quando espone le vicissitudini tra il piccolo Kevin ed Eva. Parlando a titolo personale, e tenendo inserita la spina del razionale, ravviso nel comportamento del bambino una cifra irrealistica che sfonda il muro dell’eccesso. Non c’è solo parvenza diabolica in questo “adulto” di 5 anni, ma anche e soprattutto premeditazione, cattiveria, sadismo, umori che sfaccettano un prisma di ostinata contrarietà nei confronti di chi l’ha messo al mondo. Accetto il fatto che qui siamo in un film dove è lecito che alcune scelte si assoggettino all’intenzione, eppure ritengo che ci sia bisogno sempre e comunque di una coerenza tra i fotogrammi e ciò che sta al di fuori di essi quando si usa un taglio realistico; non si tratta di un difetto, piuttosto di una mancata opportunità nel conferire verosimiglianza di percezione. Ma Ramsay ha scelto questa via e la si accetta: con prepotenza ostacola in due atti la possibilità di compassione: da una parte Kevin che ammette di non sapere più perché lo ha fatto, e dall’altra Eva che nonostante le mostruosità si apre candidamente, quella stanza pitturata di blu garantisce ancora l’integrità di un corpo, il suo, fatto a pezzi. Che piaccia o meno, lei è pur sempre la madre di suo figlio.

domenica 8 luglio 2012

Skhizein

Incassare il colpo, nella perifrasi di Skhizein (2008) venire colpiti da un meteorite e non essere più se stessi. L’attenzione di questo amabile film francese si focalizza su un piano interpretativo che ha più livelli: abbiamo il cambiamento causato dall’evento, qui sta il colpo di genio: essere spostati di 91 centimetri un po’ più in là e quindi riformulare la piantina del proprio appartamento; ma abbiamo anche lo smarrimento dovuto all’allontanamento del proprio esserci, il protagonista dal faccione tondo come la luna non solo deve sincronizzarsi con la nuova vita (sedersi, rispondere al telefono, scrivere a macchina), ma deve, in primis, ritrovare la bussola della sua esistenza.

Gli strati della rappresentazione fanno congiungere 2D e 3D con nostalgica morbidezza, l’incontro è fecondo: la tridimensionalità permette al corto di realizzarsi al 100% con l’omino che attraversa le pareti, mentre le due dimensioni, non si può dire se effettive o presunte, operano invece nel campo delle suggestioni e ornano la storia con quel sapore di mestizia tanto caro a noi scontenti umani.
Lo scenario così delicato non argina comunque il cambiamento men che meno lo smarrimento sopraccitati, il dispiacere cartonato si legittima nel finale dove il colpo rincara la dose e allora cercarsi diventa un’impresa senza senso, non più spostato e nemmeno sprofondato, il piccolo ometto si trova a galleggiare nel suo universo, nella sua casa, nella sua mente.

sabato 7 luglio 2012

Musica tropicale

Fa caldo, vero? In questo periodo che ancora non si riesce ad accettare come piena estate quei 40 gradi all’ombra non fanno per niente piacere. Per combattere l’afa oltre ai tir di ghiaccioli, ai ventilatori grandi come eliche di un boeing, agli impianti di aria condizionata prossimi all’ibernazione o ai consigli babbei dei tg (“dovete bere tanta acqua”… e fin lì ci arriviamo), si può provare un antidoto musicale il cui nome non deve fraintendere, perché il disco di Tropics nulla ha di equatoriale, anzi ascoltarlo dall’inizio alla fine significa ascoltare l’estate notturna, quella che ti entra dalla finestra alla sera, e grazie alla sua consistenza rinfrescante le boccate d'ossigeno non mancano: Sophomore è quel momento in cui tornando da un rave vedi il tuo amico guidare giù per l’asfalto che serpeggia lungo il monte, sei una macchiolina nel nero totale, ma va bene così, per adesso, con l’aria che ti asciuga la fronte ancora sudata, va davvero bene così. Anche perché Small Charm ed Emerald sono esattamente il baccanale elettronico che hai vissuto poco prima addolcito da un suono nu-disco partorito dalla tua memoria. E poi arriva Going Sideways proprio mentre ti corichi a letto con la testa che ancora è sull’ottovolante ma che sta per passare con disinvoltura da un sogno all’altro.
Nautical Clamor: e la canicola è solo un ricordo. 
Ascolti ventilanti: , , .

mercoledì 4 luglio 2012

Michael

- Questo è il mio coltello e questo è il mio cazzo. Cosa vuoi dentro di te?

È ancora una volta il cinema austriaco a mostrare con classe sopraffina la purulenza che attanaglia la nostra razza, il sepolcro imbiancato del vicino di casa, il cuore ammorbato dal male. Michael (2011) è senza vie di mezzo opera tanto nauseante quanto scomodissima che col suo taglio distaccato non si prepone di stigmatizzare: la cifra esterna che sostanzia la storia lascia allo spettatore gli oneri del giudizio; dunque, non un film su o contro la pedofilia, piuttosto un film dentro la malattia, nell’atto quotidiano di una (s)cena, nel gesto calcolato atrocemente minimizzato, nello sguardo implorante.
I presupposti su una pellicola che si occupa di un tema così scabroso implicano una chiarezza dei ruoli che non ammette fraintendimenti: l’aguzzino e la vittima non possono avere ulteriori interpretazioni, nel gioco delle parti devono essere così e devono comportarsi così, uno subisce l’altro infligge, uno è un mostro l’altro è un angelo. Schleinzer, qui all’esordio, non tenta strade alternative, anzi nell’ordine espositivo nulla si ritaglia porzioni di sorpresa: Michael (il maniaco) possiede tutte quelle caratteristiche che lo rendono tale, e la doppia vita, lavorativa e personale, sembra essere la prerogativa fondamentale per tutti quegli esseri sub-umani che si macchiano di orrori simili; allo stesso modo Wolfgang (il bimbo) rappresenta prevedibilmente la quintessenza dell’innocenza, il protagonista di un olocausto indicibile che, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, lo rivolterà nell’anima.

Date queste premesse, la presumibilità ex ante la visione viene annullata dalla visione stessa che ingrana fin dall’incipit grazie al principio ellittico che ammutolisce l’immagine di troppo. Come il prof. Haneke ha ampiamente insegnato in passato, e Schleinzer lo sa bene avendo collaborato con lui e praticamente con tutti gli altri grandi austriaci contemporanei, è nel fuori campo che si raggrumano meglio gli snodi narrativi (occhio non vede, cuore che duole), e di riflesso i significati, questo perché chi guarda è chiamato in prima persona a completare quel processo filmico che il regista volutamente non conclude. Sarà la scoperta dell’acqua calda, ma quando nel non-visto ci finisce la relazione pruriginosa tra un adulto e un bambino la sensibilità non può che aumentare, e le immagini le situazioni le implicazioni elaborate dal cervello sono inevitabilmente più agghiaccianti di qualunque plateale esibizione. Si profila dunque una visione partecipata in cui il cinema diventa cinema delle conseguenze, la causa non è situata nella diegesi ma in chi osserva e gli effetti sanno essere devastanti: la violenza confluisce in una sciacquata del pene, la devianza nell’impotenza, l’insospettabilità in una errata omelia del prete, la ribellione in un disegno raffigurante mamma e papà, la scomparsa di un gattino nella sua morte.

L’orchestrazione complessiva, raggelante e chirurgica, eleva il modus operandi del regista ad autore già molto navigato. La cura verso tutto ciò che compone il quadro traspare nella forza che possiede l’estetica: l’ordine dell’arredamento, la pittura candida, la stanzetta-prigione in cui “vive” Wolfgang sono validi elementi che si scontrano con il dramma assoluto del film, un dramma che nelle ultime battute diventa da batticuore pur mantenendo il suo intransigente rigore, e quando si assiste alla perlustrazione dell’abitazione da parte della madre, un coro potente prende vita dalle viscere e urla: “apri quella porta!”: è l’apice empatico che sigla il patto definitivo tra lo schermo e chi gli sta di fronte; ovviamente, però, il film rimane fedele alla sua politica, sicché, dopo, non viene mostrato nulla se non i titoli di coda, ma da quella fessura lasciata aperta divampa una sensazione di liberazione. Sia per il piccolo, che per lo spettatore.
In concorso a Cannes ’11 e vincitore di alcuni premi non prestigiosissimi tra cui quello di chi sta scrivendo: Michael è uno dei migliori film dell’anno.

- Il coltello.

lunedì 2 luglio 2012

Family Life

Documento sociale redatto da Ken Loach nel 1971, quel Ken Loach famoso per il suo impegno fuori e dentro il cinema nei confronti dell’attualità che sostanzia il mondo contemporaneo. E non stupisce allora che Family Life, nonostante sia uno dei suoi primissimi lavori, tratti argomenti scottanti per l’Inghilterra di quell’epoca. La storia di Janice si incastra all’interno di quadri sovrastanti che mirano all’appiattimento della personalità; come vedremo tra poco ogni passaggio del film mira a sottolineare questa tendenza al conformare, l’ammissione di strade alternative è negata: si deve seguire il percorso che il sistema impone.

Già l’architettura del luogo non aiuta, una schiera di casette in serie tipicamente inglesi, monotone, scolorite, noiose. Il problema è che all’interno di queste case gli eventi seguono il grigiore paesaggistico, anzi nella famiglia presa in esame da Loach il colore che aleggia tende al nero come i capelli sempre ordinati della madre. È un qualcosa che si avverte: le imposizioni casalinghe di un focolare totalmente matriarcale (come viene fatto intendere la madre proviene da un ceto più elevato del padre) non sono in superficie, non sono vere e proprie punizioni, piuttosto lavorano sottotraccia puntando all’allineamento dei valori ritenuti giusti, ma soltanto dai genitori.
È certamente una relazione dispotica, con l’aggravante di essere subdola ed irreversibile. Quello che viene deciso per Janice non asseconda il suo volere ma quello della madre che decide per il suo “bene”.
L’aborto obbligato che dà inizio alla patologia mentale assume un significato che va oltre il gesto, non è tanto da condannare l’atto in sé, quasi comprensibile vista la giovane età della protagonista, il problema è che con l’aborto viene soffocato un gesto di ribellione come è l’atto sessuale fuori dal matrimonio, onta ritenuta troppo grande per una “buona” famiglia.

Fuori da queste abitazioni monocorde i fatti seguono lo stesso andazzo. Loach mostra infatti che durante un consiglio d’amministrazione dell’ospedale si discute la posizione del giovane psichiatra che aveva in cura Janice. In poche battute viene liquidato dicendo che i suoi metodi, metodi di matrice psicanalitica e quindi votati all’esposizione e al dialogo, non sono ben accetti, e gli viene preferito un collega dai protocolli di ricerca più standard come la terapia elettroconvulsivante, altresì nominata elettroshock.
Famiglia che schiaccia a sua volta schiacciata da una società inquadrata, Janice viene sepolta da questo peso immane, e a parte le parentesi (un po’ didascaliche) in cui afferra qualche bagliore di libertà (l’amico e la sorella), il baratro che si spalanca sotto i suoi piedi la conduce nella follia, alienandola, “il tempo non esiste”, spersonalizzandola, “ecco a voi un caso clinico molto interessante”.

Questo è quanto.
E sarebbe tanto se non fosse che il garbo british dell’opera attenua il comparto emotivo. Anche quando si alzano i toni non si perde mai quella compostezza che caratterizza l’opera. Più che un’adesione al voluto contegno materno, Loach appare irrigidire la vicenda e raffreddarla lì, in quell’epoca dal quale si evincono tutti i mali che la affliggono, ma da dove il male della piccola Janice è troppo moderato per poter travalicare lo schermo.
Dunque, se il ritratto personale non incide, quello globale invece trova riscontro positivo, e allora val la pena domandarsi: chi sono i veri pazzi?