mercoledì 11 settembre 2013

Ode to the Dawn of Man

Behind the scenes di Cave of Forgotten Dreams (2010) che si concentra su un aspetto lasciato in disparte vista l’inevitabile importanza che nel suddetto film assumono le immagini: le musiche, specificatamente quelle di Ernst Reijseger, in passato già collaboratore di Herzog avendo messo le mani, o meglio le orecchie, in film come Il diamante bianco (2004), L’ignoto spazio profondo (2005) e L’alba della libertà (2006). Herzog, da buon vecchio ficcanaso, si intrufola in una chiesa protestante di Haarlem (cittadina non lontana da Amsterdam) dove Reijseger insieme ad un organista, un flautista e un gruppo corale registra sotto il controllo di Stefan Winter la colonna sonora che avrà il compito di accompagnare sullo schermo le pitture rupestri della grotta Chauvet. A differenza di quanto si possa pensare leggendo il titolo o guardando la locandina non ci sono riferimenti diretti al documentario girato in 3D, quello che il regista tedesco fa è semplicemente collezionare minuti (in tutto quaranta) dove a parte un breve scambio di battute con Reijseger sul suo violoncello costruitogli ad personam, vediamo quest’ultimo abbandonarsi totalmente alle melodie che risuonano nell’abbazia in un processo estatico che rende il musicista olandese un novello Fitzcarraldo perso fra i saliscendi melodiosi al pari del suo esimio predecessore che ascoltava con il grammofono brani di lirica nel bel mezzo della foresta amazzonica.

Non c’è molto altro in questo cortometraggio, anche perché, sia ben chiaro, non ci troviamo di fronte ad un vero e proprio making of, nulla viene tecnicamente spiegato, al massimo possiamo scorgere gli aggeggi di registrazione posti nella stanza a fianco. Ciò che Ode to the Dawn of Man (2011) è si potrebbe definire come una sorta di omaggio alla musica e a chi la produce, la sente, la vive, eppure Herzog, come d’altronde ha sempre fatto, inserisce un elemento estraneo rispetto al topic trattato che però si integra perfettamente e apre un’ulteriore significazione laddove l’ode all’alba dell’uomo non è soltanto quella rivolta agli arcaici abitanti della caverna francese ma anche e soprattutto quella dedicata al piccolo figlio di Reijseger, un “albore” di umanità futura che lascia le prime e inconsapevoli tracce di sé attraverso gli strumenti musicali dei suoi genitori.

domenica 8 settembre 2013

Las Acacias

Las Acacias (2011) potrebbe essere definito cone un road-movie famigliare” perché con sobrietà e senso della misura propone elementi che abbracciano ambo le categorie. Che quella di Pablo Giorgelli sia un’opera in cui la strada intesa come spazio di transizione ha un ruolo di primo piano è una certezza evidente, un’eguale evidenza, solo un po’ più velata, riguarda anche il tema della famiglia che Giorgelli decide di affrontare con modalità quanto meno impavide: buona parte del film è infatti ambientata all’interno della cabina di un camion e vede come protagonisti l’autista del convoglio e la passeggera con neonata a seguito immortalati da un’alternanza di camere fissate fuori dai rispettivi finestrini, a ciò si aggiungono i dialoghi scarnificati di qualunque eccesso e plasmati nell’essenzialità. Al cospetto di elementi così disadorni il messaggio del regista nato a Buenos Aires ci mette un nulla ad arrivare; l’immediatezza dell’impostazione generale, soprattutto nella delineazione dei due personaggi (lui burbero e solitario; lei amorevole e materna), non si può definire un difetto ma senz’altro ne limita la profondità concettuale, Giorgelli stringe il cerchio attorno all’uomo e alla donna, ne evidenzia i caratteri antitetici e allo stesso tempo ne suggerisce un possibile avvicinamento, nient’altro viene trattato menchemeno illustrato: tutto, è qua.

Tali suggerimenti, asciugati, come detto, di ogni possibile accessorio dialogico superfluo, oscillano “fra le righe” di confessioni appena appena accennate (non c’è nessun padre per Anahí dice Jacinta, e ugualmente Rubén patisce per una condizione paterna difficile) o più semplicemente nel lasciare alla scena cablata sul gesto, sull’espressione, sul sorriso, il compito di significazione. Senza ombra di dubbio la riuscita di suddette sequenze, e nel globale della sensazione di benevolenza che Las Acacias suscita, non si sarebbero mai concretizzate senza la presenza della piccola Anahí che è il baricentro emotivo di tutto il film. Questa bambolina dai grandi occhioni non solo risveglia in Rubén quella voglia di essere padre assopita nel cassettino del cruscotto, ma in particolare ne scalfisce l’armatura rivelando squarci che reclamano un calore ben più affettuoso di quello garantito dal mate, bevanda sudamericana simile al nostro tè. L’instaurazione di questo rapporto genitore-figlia e il conseguente sviluppo vive di momenti irrorati da una tenerezza che per merito della pargoletta si avvertono spontanei, senza artificio, e riescono ad ingemmare un film che concentrandosi su un unico argomento e scegliendo di non dare respiro alle riprese, è privo di aperture contenutistiche: la strada percorsa, oltre a quella che collega il Paraguay con l’Argentina, è la strada dritta e sicura del sentimento latente, non ci sono scorciatoie o ulteriori diramazioni.

Il fatto che la famiglia sia il cuore della pellicola ha radici autobiografiche poiché Giorgelli, come afferma in questa intervista (link), ha pensato al film dopo un bruttissimo periodo: padre ammalato, crisi economica argentina, perdita del proprio lavoro e divorzio dalla moglie, tutti elementi bene o male riversati in questa vicenda scritta insieme a Salvador Roselli, autore della sceneggiatura di Liverpool (2008).
Presentato al Festival di Cannes 2011 e vincitore della Camera d’Or, premio assegnato al miglior debutto cinematografico.

venerdì 6 settembre 2013

Meteora

PVC-1 (2007), per impostazione e realizzazione, è stato uno dei film più fottutamente esaltanti che il sottoscritto abbia mai visto. Ad un lustro di distanza il regista greco (di madre colombiana) Spiros Stathoulopoulos ritorna in scena con Metéora (2012), ma è tutta un’altra storia: se nella folgorante opera prima i livelli di adrenalina raggiungevano picchi clamorosi grazie ad un’adesione pressoché totale al reale, qui la via di trasmissione scelta è distante eoni dal piano sequenza e dalla sua capacità di farci assorbire dal e nel film; si naviga per antitesi, Stathoulopoulos sceglie una via pseudo-contemplativa con camera fissa, campi lunghissimi, dialoghi risicati ed astratti. Viene quasi da dire che PVC-1 sia il film riguardante la seconda parte della sua infanzia poiché all’età di otto anni si trasferì in Colombia con la famiglia, mentre Metéora incarna il primo periodo della sua vita, dalla nascita (avvenuta a Salonicco) alla partenza verso il Sud America.

Vi è una buona percentuale di disorientamento nell’assistere ad un cambio di rotta così smaccato, superata l’impasse si può prendere nota di qualche elemento: sicuramente Stathoulopoulos è uno che ha studiato e che sa rendere un set l’occasione giusta per lasciare un segno, soprattutto (e qua c’è la conferma) sul piano visivo perché Metéora si plasma negli interni del monastero a lume di candela combinati a riprese esterne di forte impatto. Buona parte del merito va alla location in sé che è davvero straordinaria (si tratta del complesso ortodosso situato nella regione della Tessalia), ma i meriti non possono andare soltanto a Madre Natura visto che il regista sa cogliere ed implementare la bellezza del luogo attraverso scorci e prospettive affascinanti. Non ci si ferma all’apparato paesaggistico/fotografico però, Stathoulopoulos sperimenta e inserisce nella diegesi un’animazione iconografica, proprio come se delle icone religiose prendessero vita, che ovvia brillantemente a delle difficoltà tecniche (quale modo migliore per illustrare un mare di sangue [tra l’altro il passaggio più ardito del film] o un orso inferocito?) e che ben si innesta donando un tocco di originalità.

Che cosa manca allora? Possibilmente tutto il resto, o meglio quello che più preme: questa infatuazione tra il monaco e la suora dirimpettaia non si accende, ma, e ora rischiamo di finire in un circolo vizioso, è Stathoulopoulos stesso che non sembra affatto interessato ad aizzare tale sfera sentimentale, e al contempo il possibile nucleo di tutto, lo scontro amore-fede, la carnalità versus la spiritualità, viene appena sfiorato (c’è solo una sequenza dove in un crescendo di campane si intuisce il potere inquisitorio del convento verso la suora) sviando altrove, anche oltre la desacralizzazione (solo una pala che alla fine ha “smarrito” i due soggetti laterali) e la blasfemia (ci si può indignare per due religiosi che copulano? Ma andiamo!), specchiandosi nello stile (senza infastidire) e celebrando la geografia. Uno ieratico Stathoulopoulos (ieraticamente concentrato dall’inizio alla fine ad esclusione della sequenza in cui viene sventrata una capra) regala Immagini, cellule indispensabili del mosaico-cinema, non ce lo aspettavamo in modo così potente tanto che la sorpresa ripiana le eventuali mancanze. Adesso pare che si sia stabilito a Los Angeles e che voglia girare in America, noi, manco a dirlo, lo attendiamo ad occhi ben aperti.

mercoledì 4 settembre 2013

Flatworld

Corto animato prodotto dalla BBC nel 1997 che potremmo definire, così per darci un tono, “pionieristico”. Perché il lavoro di Daniel Greaves, già vincitore di un Oscar con Manipulation (1991), e di tutto il suo staff è mirato a far convivere due tecniche di realizzazione che corrispondono al passato e al presente (nostri) dell’animazione: 2D e 3D, la rappresentazione classica in compresenza a quella digitale per un incontro che sa andare oltre la storiella di facciata e delinearsi quindi nell’istantanea di un passaggio epocale, la zona franca tra la matita ed il computer. Al risultato complessivo non mancano dei nei probabilmente accentuati dal nostro occhio ormai abituato alle meraviglie pixariane e compagnia cantante, ad ogni modo al pari di Quando soffia il vento (1986), altro film in cui si tenta un esperimento simile con esiti non meno rudimentali, le imperfezioni grafiche slittano in secondo piano visto che il bersaglio viene colpito proprio al centro per quanto riguarda tutte quelle componenti che fanno di un cartone il punto di incontro fra: trovate divertenti, alcune sottili (la gomma per farsi la barba!) e altre che si “consumano” più in fretta, e sviluppo di un’idea (la città fatta di carta) dalla quale si diramano molteplici gag che potrebbero andare avanti anche per più di mezz’ora (ad esempio il fatto che le cose e i personaggi siano privi di spessore è un tormentone che non stufa).

A fronte della (non prendetela come un’accusa) schematica e (idem) infantile contrapposizione fra i personaggi, e ciò non riguarda solo il gruppo di buoni versus il ladro ma anche il pesce contro il gatto che porta quasi obbligatoriamente ad una prevedibile solidarietà reciproca per sconfiggere il nemico, il regista impianta un corpo di discussione come la televisione che gli permette A: di dare sfogo alla propria creatività utilizzando un telecomando come chiave per illustrare infiniti mondi, tutti bidimensionali, d’altronde la tv non brilla per consistenza, e B: di suggerire dopo i vari inseguimenti, ribaltamenti, sconvolgimenti (si esagera un po’, dài) che l’unica e ultima soluzione è quella di prendere il televisore, di accartocciarlo (a Flatworld si può), gettarlo giù dalla finestra e partire per una bella vacanza.