giovedì 29 dicembre 2016

Nell'orto

Ho otto o nove anni e mi trovo nell’orto, un posto che qui in paese chiamano così da sempre ma che non ha niente di un orto tradizionale. Per arrivarci bisogna passare sotto la vota, un archivolto la cui parte convessa altro non è che il pavimento in travi di una casa vecchissima e disabitata da almeno mezzo secolo di cui si possono scorgere attraverso le fessure degli assi marciti dal tempo bottiglioni impolverati ed altre cianfrusaglie stipate su precari ripiani di legno, dalla vota penzolano delle lanugini di ragnatela spessa e fibrosa come il cotone che se non stai attento ti si impigliano tra i capelli, ma io sono talmente piccolo che queste stelle filanti tessute da ragni panciuti non mi sfiorano nemmeno e così arrivo spensierato nell’aia che subito dopo mi si apre dinnanzi, qualcuno, come ogni anno, taglia l’erba infestante nonostante nelle tre abitazioni che vi si affacciano non ci sia più anima viva, poco oltre un mostro di rovi e spine ha già cominciato a sommergere il muro di una delle case, uno dei miei incubi più paurosi è svegliarmi d’improvviso in mezzo ad un groviglio di piante selvatiche nel cuore della notte montana punteggiata da bisbigli sinistri. Poco più avanti il suolo si fa leggera discesa e ai lati del declivio il signor Teo ha messo quattro gabbie con dentro dei grassi conigli che muovono freneticamente il nasino, ogni volta che vado nell’orto prendo uno stelo di fieno e stuzzico uno dei conigli fino a quando l’animaletto non soddisfa la mia stupidaggine di bambino mangiando l’erba secca con disprezzo verso quell’essere che ha appena disturbato la sua placida vita nel mondo-gabbia. Superati i conigli bisogna scendere degli scalini affianco ad un muro a secco tirato su da chissà chi e che il passare del tempo e la pioggia e la neve e il ghiaccio hanno bombato come se fosse gravido di un enorme neonato-pietra-muschio pronto ad essere sparato direttamente nell’orto. Perché quando vedo davanti a me il muretto significa che sono lì, in un fazzoletto di terreno che un mio bisnonno aveva adibito a pollaio e dove per un periodo incalcolabile la merda delle galline rimestata dalle loro stesse zampette si è amalgamata all’impiantito naturale rendendolo quello che è ora: un banco di terra umida, quasi bagnata, e di un nero che non potete immaginare, e fertilissima nonostante il sole, a causa di due alti peri posti agli angoli bassi del quadrato terricolo, non arrivi mai. E io gironzolo affondando i piedi nello spazio di humus, prendendo manciate di terra fredda che svelano vermi rosei impazziti alla vista mentale di un gigante come il bimbo che sono, e trovando strani oggetti sepolti, pezzetti di esistenze passate, cocci, vetri smussati, una piccola bottiglia con dentro una ciocca di capelli. Ho solo otto o nove anni e non penso al futuro.
Poi, allo stesso modo in cui i vermi che disturbo dai loro sogni colliquativi vedono me, io scorgo ai piedi del muro, proprio tra due grossi sassi, lo strisciare di una cosa tubolare e marrone, unta e gelida: non finisce più di scivolare questa biscia, questa vipera, questo serpente che me la fa fare sotto. Scappo! Su per gli scalini, via veloce dai conigli e dai loro occhi rossi, oltrepasso i fili-stalattiti di bava ragnesca che ondeggiano nell’aria al mio passaggio e trovo un approdo sicuro nel rumore che fanno le mie scarpe da ginnastica sull’asfalto amico della strada principale e col cuore a mille arrivo a casa e la mia giovane mamma pesca da un recipiente di plastica azzurro i panni che sta stendendo su una corda tesa fra una noce e un prugno.

Di recente sono tornato nell’orto, ho vent’anni di più e molte cose, inevitabilmente, sono cambiate. Mi illudevo che qui fosse rimasto tutto come prima ma dopo la vota non sono riuscito a proseguire, una diga di piante di ogni genere ha creato una barriera insuperabile: il mio incubo di un risveglio notturno in un posto simile non se n’è mai andato. Il signor Teo non abita più in paese perché ha divorziato e credo che abbia cercato di rifarsi una vita in un paese poco più lontano, i suoi conigli, invece, resteranno per sempre lì, invisibili ma belli cicciotti, sepolti sotto una coltre di foglie e spine che li conserverà per l’eternità. Immagino che il muro in gestazione sia esploso del tutto, magari in una notte di temporale, e nel momento in cui ha ceduto è possibile che il mio serpente abbia ripensato a quando si trovava nel guscio molle del suo uovo e all’attimo successivo della sua venuta al mondo, al primo contatto con le sostanze chimiche che costituiscono il pianeta.
Ho imboccato la via verso casa e una volta sulla strada ho sentito un rumore di passi rapidi e veloci, ma ero da solo. Mi sono seduto su una panchina di pietra che dà su un bel panorama collinare, i dolci rilievi parmensi baciati dal tepore di mezzogiorno erano le gobbe di un drago che dormiva da millenni. Un uccellino si è poi posato sulla ringhiera di fronte a me, la frequenza con cui muoveva la testa mi è parsa fuori dalla concezione del tempo umano. Non so, a volte sembra tutto così sbagliato, a volte questo scorrere delle cose, delle persone, dei ricordi, degli affetti, è l’unico modo per capire che cosa sia la vita (da qualche parte, in un altrove onnipresente, c’è anche la microscopica stazione ferroviaria di Framura in una afosa domenica di agosto e mio padre con la borsa frigo piena di cose da mangiare, e c’è anche negli infiniti algoritmi di Facebook il video di una canzone di Tracy Chapman).
Mi sono alzato lasciando su quella panchina un me stesso che rimarrà per sempre lì così come ci sarà sempre un bambino-me che razzola nell’orto, ma mia madre non c’era più a stendere i panni e i miei capelli si stanno facendo sempre più radi.

martedì 27 dicembre 2016

Journey to the West

Perché Tsai Ming-liang, uno degli sguardi che ha segnato il cinema degli ultimi vent’anni, ha deciso di avventurarsi in un progetto come quello del monaco camminatore? Questa domanda il sottoscritto se la poneva già all’uscita di Walker (2012) circoscrivendola al corto sotto esame, adesso che dalla suddetta visione di anni ne sono passati ben tre e con loro altri tasselli di questo strano quadro moviolistico (non visti da me medesimo), giunti a Xi you (2014) la domanda non solo è sempre la stessa ma è ancora più urgente: perché? Parlando di Stray Dogs (2013), ovvero quello che dovrebbe essere l’ultimo film “canonico” del taiwanese, mi ero sbilanciato dicendo che oramai Tsai era giunto ad un tale livello autoriale e autoritario che in sostanza poteva permettersi di fare ciò che più gli aggradava, anche non-film (che ovviamente SONO film) come la serie Walker. Molto interessante, molto chic, ma non davvero esaustivo, cioè: vogliamo di più, il senso è quello che ci colma e come condannati bramiamo di trovarlo per liberarci da un manufatto eterno quale Journey to the West è, lo scoviamo anche senza troppi arrovellamenti interpretativi, e non è solo uno. Benissimo. Non troppo: le suggestioni che maggiormente mi convincono sono due e sintetizzando si tratta di: uno di come il passo estenuante del monaco strida con il caos iperveloce della città (‘sta volta è Marsiglia), da qui un’illustrazione del contrasto fra un certo distacco religioso dalla concretezza dell’affollata urbanità, due di come l’alter ego Kang-sheng possa incarnare il cinema decelerato del suo mentore fautore di esemplari artistici disallineati dall’ordinario brulichio.

Orbene, le appena summenzionate vie esegetiche sono le medesime che estrapolai vedendo Walker, e credo sia inevitabile poiché Xi you altro non è che una sua prosecuzione dove non muta pressoché nulla. Probabilmente una volta che il disegno di Tsai sarà terminato e magari riunito in un fiotto unitario si avvertirà meno ciò che qui, con una pausa di tre anni tra una proiezione e l’altra, ho percepito, ovvero un senso di ripetizione, di quel già veduto impossibilitato a fertilizzare il discorso. Non bisogna avere timori riverenziali, mente sgombra!, cosa aggiunge Journey to the West? Domanda retorica, più che altro si accoda, si adagia, si sovrappone al suo predecessore (e presumo anche agli altri) svelandosi come una copia degli intenti deducibili dal primo episodio della serie. Tenuto conto che al di là dell’idea soggiacente il regista si diverte, e lo spettatore insieme a lui, in uno studio sulla visualità del corpo nella scena (perfetto il campo lunghissimo con Lee che prospetticamente deambula sul viso di Lavant), mi si potrà obiettare che qualcosa di divergente da Walker c’è e non è cosa da poco, la presenza di un attore come Denis Lavant a sua volta feticcio per un altro regista (Carax) potrebbe significare l’incontro concettuale tra due lontane culture cinematografiche (questione non nuova visto che Tsai ha più volte teso la mano verso il cinema francese: Che ora è laggiù? [2001] e Face [2009]), eppure non ritengo sia abbastanza uno sfiorarsi del genere, curioso sì, che si instrada nella globalità del progetto pure. È come se Lavant fosse un accessorio la cui figura dell’adepto al seguito del monaco non sia capace di concimare più di tanto la faccenda. Si vedrà con No No Sleep (2015) quello che succederà, plausibilmente niente di diverso da ciò che sostanzia Journey to the West.

sabato 24 dicembre 2016

Abbacinante. L'ala destra

Mircea Cărtărescu
2016
Voland; 637 p.
 
Quando muore un fiore, o una mosca, scompare un mondo che non ha nemmeno saputo, per un istante, di esistere. Quando muore un feto abortito e gettato tra rifiuti e spazzatura, si spegne un cosmo raggrinzito prima di avere avuto la possibilità di esistere. L’apocalisse è banale e quotidiana quanto la genesi, in questo mondo che le mescola a ogni istante, genesi-apocalisse o apocalissi-genesi snodata sopra una caule neuronale.

375 + 571 + 637 = 1583. Tante sono le pagine che compongono l’edizione italiana della trilogia Abbacinante pubblicata dalla casa editrice Voland tra il 2008 ed il 2016 a firma del genio letterario Mircea Cărtărescu, scrittore incredibile che ha inciso il suo testo a mano con un inchiostro che mescola tutti i liquidi e gli umori contenuti nel corpo umano: sudore, urina, sperma, saliva, sangue, lacrime, e molto altro che ancora non ci è dato comprendere perché lo sforzo che sta dietro ad Abbacinante dà origine ad un’Opera che non sta dentro le unità di misura, dire che esonda è poco, che esorbita non è abbastanza, che universalizza non è esatto, davvero: non si può parlare di un libro che si aggiunge alla lista delle pietre miliari dell’umanità dall’Odissea ad Infinite Jest, non si può e non si dovrebbe perché il rischio è quello di trasformare il proprio pensiero larvale in una monca protesi del colossale organismo originario, ma è un rischio che va corso anche solo per far sapere al mondo che Orbitor esiste, che è sugli scaffali delle librerie italiche le quali per un miracolo incomprensibile riescono a sostenere il peso di una galassia di carta che non abbiamo mai vissuto, e che, al contempo, conosciamo come le nostre tasche perché come tutti i capolavori di qualunque settore artistico il dialogo che alla fine si instaura con l’annesso fruitore è figliale, ombelicale, leggere Abbacinante è come ripercorrere cent’anni dopo il canale vaginale della propria madre e acquattarsi nuovamente nel tepore ovattante del liquido amniotico.

Si è visto di quanto i postumi di una dittatura annichilente hanno contribuito in Romania al fiorire di un movimento cinematografico che dal 2000 in poi è salito in cattedra, i vari Puiu e Mungiu razzolano ancora oggi nei più importanti Festival internazionali e col tempo si sono costruiti una solida fama nel loro ambito professionale, ma il cinema rumeno degli ultimi anni, pur avendo una radice culturale inevitabilmente simile alle produzioni di Cărtărescu, è un manufatto che vuole aderire il più possibile al reale e che lo viviseziona con fare autoptico, il buon Mircea si colloca invece in una posizione opposta: parte sì da basi concrete, quotidiane e personali, ma innesta all’interno di esse un impianto che deflagra in ordigni di potente surrealtà. Come in fondo molti, se non tutti, i grandi (e non) scrittori fanno, Cărtărescu nel suo romanzo uno e trino racconta essenzialmente la sua storia, in particolare l’infanzia, che è quella di un ragazzino nato in Romania in una famiglia povera e che crescendo ha visto allungarsi sul suo Paese la minacciosa ombra di Ceaușescu fino ad un teso ed inevitabile punto di non ritorno. Quindi, all’interno della trilogia si alternano diversi piani narrativi che riguardano sia la biografia del suo autore che quella della nazione di cui fa parte, ma di certo non si può liquidare così la faccenda: la complessità e la varietà di punti di vista, di narratori interni, di digressioni rendono Abbacinante, e forse specificatamente L’ala destra, il testo massimalista che l’Europa non aveva ancora avuto.

Proprio in questa terza parte le due succitate componenti (storia & Storia) raggiungono apici altissimi in cui Cărtărescu dà l’impressione di poter proseguire oltre l’infinito. Attraverso un linguaggio che è colla e che stordisce tra riferimenti religiosi e voci da manuali di medicina (l’unico appunto lo faccio all’uso esageratamente frequente della parola “cranio”, non so se si tratta di un problema di traduzione ma è un lemma troppo diffuso nel racconto), L’ala destra è sia compendio e approfondimento dell’infanzia/adolescenza di Mircea segnata in modo indelebile dalle figure genitoriali così come è indelebile il ritratto che ci viene offerto dei due, in particolare quello della mamma, sia penetrazione nel tessuto politico della buia epoca di Ceaușescu (e questa è una novità rispetto ai due capitoli precedenti). In entrambi i casi l’ex poeta bucarestino strabilia per la capacità di compiere accelerazioni che folgorano e che divelgono letteralmente i paletti della logica, così piano piano, parola dopo parola, il confine che separa il possibile dall’impossibile si smaterializza e quello che si crea è un tutto che è Tutto, una visione dantesca che si avvicina al divino e, ovviamente, anche al luciferino. Non si contano i cortocircuiti spazio-temporali che crivellano la trilogia, come non si contano i salti in avanti bilanciati da ricordi ancestrali e da altre diramazioni sanguigne che sbocciano da una pagina all’altra, e questo smisurato quadro popolato da miriadi di personaggi che potrebbero essere usciti dal pennello di Bruegel e che invece sono figli dell’immaginazione dello sconosciuto Monsù Desiderio, artista d’apocalissi seicentesco, a sua volta cellula del mondo-abbacinante, arriva ad un suo completamento nella conclusione de L’ala destra, un imbuto dove quel tutto trova una collocazione nell’universo letterario che, alla fine, è l’universo tout court. Di quanto ci sarebbe da dire, mi preme sottolineare il compimento dell’ossessione rivolta al concetto di simmetria che attraversa l’intera struttura, e grazie ad un finale biblico viene sancito lo strepitoso incontro tra Mircea e Victor, tra un’ala e l’altra, tra un riflesso e l’altro, e quello che si scatena è una fine del mondo che si consuma tra l’amore fra due fratelli e l’ascensione di un popolo sottomesso al cielo, tra lo sfolgorio di un fiammifero ed il fragore immane del big-crunch tombale.

Io che non sono niente mi chiedo come abbia fatto Cărtărescu, una volta posto l’ultimo punto al suo monumento di carta, a rapportarsi con le bassezze dell’umano circostante, se scrivi un libro del genere, se dentro la tua scatola cranica gli impulsi elettrici del cervello trasmettono pensieri e idee di questo tipo, non sei una persona come le altre, sei una lanterna, una candela, una fiamma che arde e che irradia un bagliore, è il caso di dirlo, abbagliante. Abbandonate immediatamente qualunque romanzetto voi stiate leggendo e immergetevi subito nei tumulti di Abbacinante, perché ci sono tanti bei libri in giro, ma nessuno è come questo.

mercoledì 21 dicembre 2016

Les lignes ennemies

Coetaneo di Curling (2010), Les lignes ennemies è il primo film di Denis Côté che si allontana dal focus sull’umanità periferica incastonata in una geografia precisa (succederà [forse] anche con Bestiaire, 2012), in favore di un lavoro meno votato al confronto diadico uomo-ambiente, e ancor meno contornato da tratti certi. Non che il cinema di Côté abbia mai abbondato di didascalie (per fortuna! Un motivo per apprezzarlo è proprio questo), ma qui siamo al cospetto di una vera e propria sospensione descrittiva: molto bene: la totale inconoscibilità della situazione solleva il film da qualsivoglia aderenza narrativa e allora eccoci introdotti in una guerra che non ha nemici, o forse, senza sfociare nella retorica spicciola, è proprio la guerra in sé a non avere nemici visto che chi sta nella trincea opposta “ha comunque lo stesso identico umore”. Non essendoci nessuno contro cui combattere, la linea di Côté non è materialmente calpestabile, è una sensazione, un’atmosfera buzzatiana di continua ed inutile attesa. Va quindi detto che Les lignes ennemies è marcato da episodi squisitamente estemporanei che divaricano le serrature del reale contribuendo a spingere il film in territori di un altrove dove finestre oniriche invadono la diegesi sottoforma di pulsione muliebre (le donne sono vietate dal capo, il nemico è una donna. Ma nuda) e dove gli uomini possono svanire nel niente infilandosi in una catapecchia.

Le ipotetiche letture montano a fine visione, e crescono: Côté metaforizza. Questa è la guerra, dice. Un’ossessione da omini come il capetto che non ammettono ironia o svago, una caccia al fantasma con le armi e le mimetiche, ma non ho mai capito (come credo non l’abbia mai capito neanche questo regista canadese) come può l’Uomo confondersi nella Natura mettendosi addosso degli stracci verdemarroni. È il fallimento il sentimento che prevale, l’impotenza che nasce dalla non avvenuta prevaricazione sull’altro. Ma Côté, soprattutto, parodizza rendendoci consapevoli di un’altra sfumatura del suo tragitto autoriale, e la parodia si fa allora motivo portante: oltre l’inattendibile commando che compie sommosse da principianti, e oltre l’inaspettata parentesi comica col gruppo di podisti, è nel lungo finale che Côté si adopera in una sorta di smilitarizzazione dei soldati in scena, al posto di esibire platealmente uno scontro a fuoco che avrebbe vanificato tutto l’impianto teorico, continuiamo a brancolare in una stasi dove i combattenti smettono idealmente la divisa per ricongiungersi alla forma originaria di se stessi, che non è sicuramente quella bellicosa: un bruco viene delicatamente posato sul terreno, un commilitone fa uno scherzetto al compagno addormentato, il capo cede e chiede un massaggio alla dolente schiena.

Ciò che si profila al termine del film (e una ragnatela che copre un fucile lo fortifica) è un refolo pacifista che passa lieve, senza le ampollosità del caso, senza voler impartire lezioncine para-edificanti, restando, al massimo, un’eventualità perché Les lignes ennemies non è il cinema moraleggiante che ti hanno obbligato a subire, ma esemplare accogliente capace di alimentare con discrezione urgenti dibattiti esteriori (la guerra dell’uomo) e interiori (la guerra nell’uomo).

domenica 18 dicembre 2016

Nude Area

Sono molte, ma davvero molte, le perplessità generatesi dalla visione di Nude Area (2014), terzo lungometraggio per Urszula Antoniak nel giro di un lustro con ripresa della struttura in capitoletti di Nothing Personal (2009). Fin dall’inizio veniamo a conoscenza del fatto che non è la linearità temporale il dogma a cui la regista fa fede, infatti la disposizione dei frammenti è rimescolata in un andamento che anticipa e posticipa, nulla di così originale in effetti, al pari della mera storia: una storia d’inamore omosessuale: due ragazze che sono istanze di due culture, occidentale ed orientale. Come intuirete il substrato celato sotto la patina sentimentale è, o vorrebbe essere, politico, ma con le stesse modalità di Code Blue (2011), anche lì c’era una faccia più esterna come la solitudine ed una più interna come il discorso sulla morte assistita, la Antoniak non ha la forza di scendere o ascendere livellandosi in una zona che, detto in modo superficiale ed odioso per voi che leggete, “non mi ha trasmesso niente”. E la trasmissione in Nude Area dovrebbe sintonizzarsi su frequenze più alte rispetto ai soliti film dalla grana sentimentale, perché la regista opta per la radicale scelta del silenzio, le due ragazze, per tutta la durata dell’opera non si parleranno mai. A questo punto la Antoniak avrebbe dovuto cercare di renderci ricettivi nel campo delle sensazioni, di rendere il suo lavoro liquido, capace di tracimare placido, invece per chi scrive non è accaduto niente di questo, ciò che riempie lo schermo per ottanta minuti è un continuo immortalare gli sguardi reciprocamente languidi tra le due, tanto che alla fine la noia troneggia.

Lontano da un La vita di Adele (2013) qualunque poiché non vi sarà alcuna catarsi amorosa qui, nel gioco di occhiatine, carezze e risatine il punto di massima compenetrazione lo si ha col finale aperto a svariate interpretazioni, nessuna comunque di particolare esaltazione. Col suo fare polare Urszula Antoniak iberna qualsivoglia impennata emotiva restituendoci un quadro inerte che, tanto per usare un’altra frasetta fatta tipicamente recensionistica, “non arriva”. Ricapitolando abbiamo: un argomento usurato dove il correlato trattamento, pur mostrando una discreta audacia (l’assenza dialogica), non porta a risultati inebrianti, è come se la Antoniak fosse troppo presa dal vezzo di raccontare una storia senza parole da dimenticarsi di cosa effettivamente stesse narrando, e in più la tesi sociale della crasi tra una realtà europea e una araba non è resa in modo capiente, a parte il continuo sottrarsi della riccioluta (atteggiamento che farei ricondurre alla religione d’appartenenza senza però esserne troppo convinto), non ho rintracciato ulteriori elementi in grado di innervare l’incontro tra gli antipodi, quindi se al posto della ragazza di colore ci fosse stata una coetanea caucasica poco o niente sarebbe mutato. Da tali premesse è automatico trarre delle conclusioni: sconsiglio a gran voce Nude Area, esempio di un cinema involontariamente, o forse no, reazionario.

lunedì 12 dicembre 2016

In the Basement

Reduce da una trilogia che aveva nell’ultimo capitolo Paradise: Hope (2013) il punto più infelice di tutta la filmografia seidliana a causa di un incanalamento narrativo troppo convenzionale dotato di occhiolini gratuitamente provocatori, Ulrich Seidl ritorna ad una dimensione a lui più consona, quella che va a costituirsi nella sua tipica visione frontale: guardare dritto per dritto, come pergamene ammuffite srotolate sullo schermo, per guardare dietro la patina imbiancata della borghesia austriaca. È un atto che il regista viennese compie da tempo immemore e che negli anni ha ricalibrato verso tematiche riconducibili all’esistenza del quotidiano, come se l’ectoplasma di Josef Fritzl sempre aleggiasse tra un fotogramma e l’altro. Presa coscienza di un tale tragitto autoriale, continuo ad avere dubbi di non poco conto sul cinema di Seidl al giorno d’oggi. Prendiamo Im Keller (2014), certo la provocatorietà, l’oscenità, lo “stile”, eppure a chi scrive non è bastato. In fondo In the Basement non è altro che il seguito ideale di Animal Love (1996) in cui Seidl compiva un simile blitz domestico svelatore dei lati nascosti di persone cosiddette normali. Quindi assistere ad una sorta di rimasticatura di un film girato quasi vent’anni prima non può che spegnere qualunque fiamma euforica, non solo, a mano a mano che lo sviluppo di Im Keller si fa evidente, emerge un problema nodale che val la pena enucleare.

A priori c’è una contrapposizione troppo lapalissiana tra quello che l’umanità di Seidl è nella vita normale e quello che diventa (probabilmente è il contrario: diventare prima, essere dopo) nella cantina di casa. Ovvero: così strutturata l’opera non ha un’organicità degna, si trasforma pian piano in un giochetto dove si spinge il pedale della morbosità in modo sconsiderato tanto che non si è più di fronte ad una possibile esplorazione del dietro le quinte di talune esistenze, ma, agli antipodi, si è vittime anche un po’ tediate dell’aberrante panoramica proposta. L’assenza di un senso unificante, o della sua innegabile debolezza per chi riesce comunque a ravvisarlo, non fa che sminuire il realizzabile del film castrato da una politica fallace: mostrare il lato oscuro dell’uomo attraverso una catena sconnessa di depravazioni fa precipitare il tutto nelle mortali sabbie mobili della prevedibilità. Non è tanto che si può prevedere quale sarà la perversione di turno, quanto sapere con esattezza che ci verrà illustrata una perversione tout court. La regolarità del flusso para-narrativo uccide l’interesse di quanto raccontato che, per dirla tutta, vista l’epoca internettiana non è nemmeno così sconvolgente, rimane al massimo l’autoapprovazione di un regista che per il mio vedere e sentire è solo preoccupato a piazzare davanti alla mdp un po’ di scandalo che possa incrementare la sua fama ed il suo conto corrente.

venerdì 9 dicembre 2016

From One Second to the Next

Questo non ha niente a che fare con il consumismo né fa parte del mondo pubblicitario. Tutta questa campagna ha come obiettivo quello di dissuadere da un uso smodato di un prodotto. È una campagna. Non stiamo provando a vendere niente. Cerchiamo solo di sensibilizzare l’opinione pubblica.

(Herzog ipse dixit qui)

Werner Herzog per il sociale: From One Second to the Next (2013) è un breve documentario commissionato al regista tedesco dalla compagnia telefonica texana AT&T che rientra nel progetto It Can Wait, piano di coscientizzazione sul cosiddetto “texting while driving”. L’uso del pronome “it” sottende una sottigliezza sfuggevole ai più, con il soggetto così impersonale chi può aspettare non è tanto la persona che sta attendendo il messaggio dall’altra parte del filo invisibile, bensì Colei che porta con sé Il Messaggio definitivo ed incontrovertibile. Ok. Senza inutili voli pindarici: il lavoro in questione ha, come nella migliore tradizione del genere, uno spirito didattico e d’ammonimento che si esplicita attraverso le testimonianze dirette, lo stampo è televisivo ed in linea con le Pubblicità Progresso di tutto il pianeta Terra: mentre si guida non devi messaggiare! Rischi di uccidere la gente innocente! Proiezioni nelle scuole e visualizzazioni a milioni su Youtube.

Ovviamente qui non vi è traccia di Cinema, come d’altronde non ve ne è più da molti anni nell’usus scribendi del regista teutonico trapiantatosi stabilmente in America, e c’era da aspettarselo poiché From One Second to the Next contiene in sequenza tutto uno stuolo di attendibili sentimenti: rabbia dei parenti che hanno perso per sempre, sensi di colpa laceranti per gli ex-accaniti messaggiatori, lo strazio di chi è sopravvissuto e ora sottovive, la redenzione con l’abbraccio conclusivo. Non sminuisco niente, né addito Herzog per aver partecipato a tal proposito, sfido, però, a trovare un vero appassionato di Visioni soddisfatto… a fine visione. Disancorandoci dall’innegabile tragicità e dal suo condivisibile messaggio, non rimane granché di toccante del corto, ma forse non è colpa di Herzog, e forse non c’è nemmeno una “colpa”, è semplicemente il mondo di oggi che ruota ad una velocità inumana e che in questa stordente giravolta sputa dolore e dramma attraverso le sue fetide bocche, che sono Twitter, Facebook, i Tg e gli approfondimenti in seconda serata, e che hanno rivoltato la nostra sensibilità, ad oggi riusciamo ancora a rabbrividire per il cadavere di un bambino su una spiaggia turca o per un’assurda mattanza dentro ad un teatro parigino, ma per le vittime degli incidenti stradali? Troppo banali. Ecco: i media sono riusciti a banalizzare la morte e quando un medium utilizza i loro appiattenti codici non può che subire “la legge della pialla”. Ciò che spiace di più è che Herzog non lo abbia compreso, o che pur sapendolo non abbia fatto niente per smarcarsi dalle costrizioni metodologiche che imperano nella comunicazione moderna. Eppure, da qualche parte, ci sarà ancora la sapidità di Segni di vita (1968)…

lunedì 5 dicembre 2016

Noche

Chi ha visto Noche (2013) di Leonardo Brzezicki sa che si tratta di un Signor Film, un film che esorbita nel suo riuscire a dare forma ad uno spazio che non ha dimensione, che è quello del lutto, e quindi di un sentimento profondamente personale, unico, sito dentro il cuore di chi è ancora vivo. Girato pressoché esclusivamente in ambienti esterni (tranne l’apice del suicidio riascoltato che agghiaccia e immobilizza) senza l’ausilio di luci artificiali, l’opera prima di Brzezicki è un oggetto ferino che si inserisce con grandiosa personalità in quel clan naturalistico dove il cinema è un portale verso mondi squisitamente sensoriali, gli unici che possano far sussultare realmente la nostra percezione. Non vorrei apparire pedante avendo già ripetuto tali concetti parlando di altre due eccellenti visioni sudamericane (Leones [2012] e Las letras [2015]), ma è proprio con i metodi utilizzati da Brzezicki che si compie nella sua pienezza l’atto di Vedere e questo traspare non tanto dalla necessità di ricostruire il puzzle della storia, quanto dai presupposti, dalle possibilità, dagli abbrivi che il film fornisce e che non hanno alcun manuale di istruzioni con sé, e allora, a prescindere dall’alone di enigmaticità (comunque bellissimo e magnetico), si profila quella libertà ossigenante che dovrebbe essere propria di ogni pellicola, è un prodigio dell’arte poter lasciarsi andare in un flusso espositivo come quello di Noche dove niente è certo, fisso, nemmeno i campi di ripresa che si dissolvono a vicenda generando nuove sovrapposizioni e prospettive.

I complimenti a Brzezicki vanno fatti oltre che per la gestione tecnica della sua creatura anche per l’idea che la costituisce poiché in un cinema autoriale che sembra costantemente rapportarsi col concetto di Fantasma (Alonso, Weerasethakul, qualcosa di Tsai), la proposta dell’argentino è un refolo d’aria stordente che mescola, come raramente è stato mai fatto, le coordinate spazio-temporali attraverso un impianto che fa principalmente leva sulla componente sonora. È una buia meraviglia. La ragnatela di registrazioni che punteggia il soggiorno evocativo del gruppo di ragazzi è un’enorme seduta spiritica che ha come medium l’energia elettrica o, in surrogato, le pile alcaline dei piccoli registratori. Da suddetta carica si genera la forza azzurra e scintillante delle parole, dei ricordi di un suicida che felpatamente si introducono nella staticità umida del bosco e che porta con sé un carico terremotante, e quindi ancora energia, accumulo, onde come cerchi nell’acqua che si espandono e richiamano a loro echi di un dolore che si materializza nel boato di uno sparo (“la caccia è iniziata”).

In generale, penso che grazie al suono viviamo emozioni impossibili da articolare altrimenti in modo razionale, e alla base del film c’è proprio la voglia di fare qualche esperimento con un elemento che funziona soprattutto a livello emotivo. Spezzare con il suono la linearità del tempo e dello spazio, lavorare con uno spazio trasformato dal suono stesso in una dimensione indipendente rispetto all’immagine, ritrarre sensazioni e stati mentali in modo sottile: ecco dove nasce Noche.

(Leonardo Brzezicki da qui)

venerdì 2 dicembre 2016

The Lobster

Sarò brevissimo.

Dopo la prima visione che avvenne in sala al tempo della sua distribuzione italica (ottobre ’15), una seconda visione di The Lobster (2015), questa volta casalinga e in versione originale, ha chiarito le idee sul film e sul cinema di Lanthimos in generale. Siamo tutti figli di Dogtooth (2009), un’opera che era arrivata come un meteorite e che ancora adesso penso possa essere considerata un punto fermo per la contemporaneità, non a caso da lì è fiorito un movimento tutto ellenico che per quasi un quinquennio ha attirato l’attenzione di tutti i cinefili del globo. Poi è giunto Alps (2011) e dopo ancora The Lobster: bene. Credo si possano tirare delle conclusioni che così sintetizzo: ognuno di noi ha piacere nel vedere i lavori dell’autore ateniese perché dotati di una scrittura forte e originale, oggetti che non si conformano con il resto e che mantengono alla base un deciso monito verso l’umanità al di là dello schermo, e qui arriviamo ad un punto interrogativo a cui non sfugge nemmeno l’ultima pellicola presentata a Cannes ’15. È vero che non si conformamo con buona parte della settima arte narrativa che c’è in giro, però, ad oggi, le sue opere si allineano tra di loro e ciò non è bene poiché Yorgos finisce per utilizzare un credo che addita talune istanze genuinamente umane divenute delle schematizzazioni sociali (la famiglia, il lutto, l’amore) attraverso... una schematizzazione, infatti il metodo di Lanthimos si sta dimostrando film dopo film una riproposizione di un preciso modello che fa esclusivamente leva sull’allegoria. È come se per mezzo dei suoi circuiti parossistici e delle sue accelerate paradossali avesse montato una gabbia dalla quale non vuole uscire, ogni cosa che racconta deve passare attraverso il filtro dell’assurdo trasformando così le storie narrate in una algoritmica fiaba caustica dotata di immancabile sottotesto. Con delle imposizioni del genere la visione scema di libertà “esperienziale”, non che The Lobster o gli altri fratellini soffrano di didascalia acuta, assolutamente no, ma latita una possibile e auspicabile apertura verso le vastità delle visioni autentiche. Su quanto appena detto ritengo si possa dibattere in modo da andare oltre agli elogi a senso unico.