venerdì 9 dicembre 2016

From One Second to the Next

Questo non ha niente a che fare con il consumismo né fa parte del mondo pubblicitario. Tutta questa campagna ha come obiettivo quello di dissuadere da un uso smodato di un prodotto. È una campagna. Non stiamo provando a vendere niente. Cerchiamo solo di sensibilizzare l’opinione pubblica.

(Herzog ipse dixit qui)

Werner Herzog per il sociale: From One Second to the Next (2013) è un breve documentario commissionato al regista tedesco dalla compagnia telefonica texana AT&T che rientra nel progetto It Can Wait, piano di coscientizzazione sul cosiddetto “texting while driving”. L’uso del pronome “it” sottende una sottigliezza sfuggevole ai più, con il soggetto così impersonale chi può aspettare non è tanto la persona che sta attendendo il messaggio dall’altra parte del filo invisibile, bensì Colei che porta con sé Il Messaggio definitivo ed incontrovertibile. Ok. Senza inutili voli pindarici: il lavoro in questione ha, come nella migliore tradizione del genere, uno spirito didattico e d’ammonimento che si esplicita attraverso le testimonianze dirette, lo stampo è televisivo ed in linea con le Pubblicità Progresso di tutto il pianeta Terra: mentre si guida non devi messaggiare! Rischi di uccidere la gente innocente! Proiezioni nelle scuole e visualizzazioni a milioni su Youtube.

Ovviamente qui non vi è traccia di Cinema, come d’altronde non ve ne è più da molti anni nell’usus scribendi del regista teutonico trapiantatosi stabilmente in America, e c’era da aspettarselo poiché From One Second to the Next contiene in sequenza tutto uno stuolo di attendibili sentimenti: rabbia dei parenti che hanno perso per sempre, sensi di colpa laceranti per gli ex-accaniti messaggiatori, lo strazio di chi è sopravvissuto e ora sottovive, la redenzione con l’abbraccio conclusivo. Non sminuisco niente, né addito Herzog per aver partecipato a tal proposito, sfido, però, a trovare un vero appassionato di Visioni soddisfatto… a fine visione. Disancorandoci dall’innegabile tragicità e dal suo condivisibile messaggio, non rimane granché di toccante del corto, ma forse non è colpa di Herzog, e forse non c’è nemmeno una “colpa”, è semplicemente il mondo di oggi che ruota ad una velocità inumana e che in questa stordente giravolta sputa dolore e dramma attraverso le sue fetide bocche, che sono Twitter, Facebook, i Tg e gli approfondimenti in seconda serata, e che hanno rivoltato la nostra sensibilità, ad oggi riusciamo ancora a rabbrividire per il cadavere di un bambino su una spiaggia turca o per un’assurda mattanza dentro ad un teatro parigino, ma per le vittime degli incidenti stradali? Troppo banali. Ecco: i media sono riusciti a banalizzare la morte e quando un medium utilizza i loro appiattenti codici non può che subire “la legge della pialla”. Ciò che spiace di più è che Herzog non lo abbia compreso, o che pur sapendolo non abbia fatto niente per smarcarsi dalle costrizioni metodologiche che imperano nella comunicazione moderna. Eppure, da qualche parte, ci sarà ancora la sapidità di Segni di vita (1968)…

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