martedì 27 luglio 2010

Rughe

Cinzia Castello perse la verginità a quattordici anni poggiando le natiche su un covone di fieno appena trebbiato. Ricorderà più il frinire dei grilli e l’odore pungente d’erba falciata che il volto del suo partner. Quando scese dal mucchio di paglia, piccole e fluide stalattiti di sangue penzolavano alle estremità delle spighe. Vedendole, rise.
Mario Belmessieri Costanti inforcò un meraviglioso paio di occhiali da vista stile fondo di bottiglia a dodici anni e non li tolse mai più. Le lenti erano il suo schermo per vedere il mondo, senza di esse era perso, con loro addosso deriso. Diventando uomo il papà comprò gli occhiali più belli e sofisticati che c’erano su tutto il mercato, ma tanto per Mario sempre occhiali erano.
Oltre quei vetri spessi un giorno vide un angelo in mezzo a quell’inferno e se ne innamorò. In un briciolo di tempo perse tutta quella razionalità che gli era stata inculcata dai genitori, calpestò la sua dignità con appostamenti notturni e dichiarazioni al gas liquefatto, tentò le strade più impervie e le discese più ripide rischiando di farsi del male, ma mai di farsi amare.
Cinzia camminava col suo passo soffice sopra l’asfalto attirata più dalle vetrine che dalle voci, e quando da sola si trasferì in città, i covoni di fieno diventarono i sedili di un auto. Non più i soliti bifolchi svenivano al suo profumo, ma un giorno quello e il giorno dopo quell’altro, un po’ tutti insomma, tranne Mario. Lui era troppo magrolino, pallido, bassetto, e portava gli occhiali. Lei rise vedendolo per la prima volta, lui si innamorò. E continuò ad amarla per i mesi che seguirono, e poi negli anni che segnavano il loro andare con il ripetersi delle stagioni, come l’amore di Mario che era imperturbabile al sole cocente che secca la pelle e al vento che spianta i capelli lasciando il malinconico ricordo di quel che si era.
Cinzia era tutto per Mario, ma lei per se stessa era solo il suo riflesso sullo specchio. Quando non si riconobbe più in quell’immagine, e quando ormai troppe notti passavano solitarie nel letto, lo sposò. Non si può narrare la gioia di quell’omino e della festa imponente che organizzò per celebrare il matrimonio. Neanche le malelingue che serpeggiavano durante la funzione avrebbero scalfito l’armatura di Mario, se il veleno della gente sibilava che Cinzia lo sposava solo per i soldi, lui rispose che lo voleva dinanzi all’altare, nella salute e nella malattia, finché morte non li avesse separati.
Seguirono anni che sembravano camminare all’indietro. Più il tempo passava e più Cinzia ringiovaniva, fino a quando nel secondo di un andare a capo, Cinzia.
Era tornata la ragazzina dei covoni di fieno.
Ancora le serpi bisbigliavano che i soldi di Mario avevano guidato un bisturi sulla pelle di Cinzia, ma dietro i suoi occhiali spessi sapeva che tutto accadeva per amore, anche un’operazione chirurgica.
Ah l’amore! Che anni felici passarono, una seconda giovinezza per Cinzia, la prima per Mario. Nelle notti passate ad aspettarla, Mario, sentiva un odore di erba tagliata accompagnarla in casa. Lei disse che era una nuova fragranza francese, lui la adorava. Si riempiva le narici di quell’odore per sopperire la sua mancanza, e a nulla gli importavano le voci astrologiche sul suo conto. “Io sono vergine, mica toro o capricorno!” Ripeteva a tutti.
Per suggellare la loro splendida unione decise di regalare a Cinzia la borsa più bella che fosse mai stata cucita, almeno secondo lei. Per comprarla dovette portarsi dietro un’altra borsa: piena di soldi. Impachettata ed infiocchettata fu posata da Mario sul tavolo della cucina; quando lei rientrò ancora con i collant mezzi abbassati ed il reggiseno appallottolato nella tasca del cappotto, quasi svenne al cospetto di quella magnifica borsa: quanta perfezione nelle cuciture e nei risvolti di cuoio che impreziosivano l’accessorio, che sapienza nel ricamare le trame sulla superficie liscia, quale sagacia nel dotarla di un manico in tinta con il ninnolo appeso alla cerniera! Cinzia si arrese prostrandosi ai piedi della borsa in adorazione totale. Una lacrima carica di mascara andò a morire sulle labbra stinte di rossetto, labbra che quella notte avevano visto un gran via vai dalle loro parti, labbra pulsanti di silicone che in quell’istante si andarono a posare su quelle di Mario per la prima volta. E il sole si accese in quella cucina. Da dietro gli occhiali due cuoricini avevano fregato il posto ai soliti occhietti, e danzando un ballo silenzioso, Mario fu soffiato nel letto come una piuma che dondola nell’aria, e che posandosi rimane immobile. Ciò che accadde quella notte non si può qui raccontare, ma alcuni affermarono che nei giorni successivi Mario uscì di casa senza occhiali, e a nulla servivano le zuccate contro i pali, quei due cuoricini vedevano più di un falco, o forse credevano di vedere.
Cinzia decise che non avrebbe mai usato la borsa: ”È troppo bella e fuori ho paura che qualcuno la rovini, o peggio ancora che mi venga rubata.” Così la chiuse in un armadio.
Si sa che l’amore è eterno o perlomeno ci va vicino, soprattutto quando l’altra metà del cielo è una borsa di pelle. Non passava giorno che Cinzia andasse in camera per schiudere d’un poco l’anta e rasserenarsi alla visione della sua adorata. “Come mi piace – pensò – un giorno la porterò fuori, un giorno sì, lo farò.”

Passarono ancora degli anni, non troppi ma abbastanza da quietare l’esuberanza di Cinzia.
Adesso sono una coppia come molte altre, guardandoli passeggiare per il parco hanno una quasi ammirevole dignità (sorvolando sul fatto che lei porta ancora ritagli di gonna con tacchi vertiginosi e ama esporre la propria siliconata mercanzia). Anche Mario con l’età ha smesso di amarla tanto intensamente, certo resta la cosa più cara che ha al mondo, però è passata, le vuole bene senza volergliene troppo, con semplicità come fanno i bambini. L’altro giorno succede che Cinzia apre l’armadio come era d’abitudine da tanto tempo, e, con orrore indicibile, nota che la pelle della borsa una volta perfettamente conciata, adesso era segnata da vistose grinze. Santo Cielo! D’istinto la prende e se la rigira fra le mani, vede che tutta la superficie è ricoperta da sottili venature che la intarsiano maldestramente. Ossignore! I manici sono tutti rattrappiti insieme alle guarnizioni oramai sbiadite. Sant’iddio! Irrompe nella stanza dove Mario sta riposando: “Sveglia vecchio bacucco! La mia borsa, guarda!”. Mario si stropiccia gli occhi e con la mano destra cerca a tastoni i suoi spessi occhiali sul comodino. Li trova. Resta in contemplazione di quella che una volta era la più perfetta delle borse, guarda Cinzia, si schiarisce la voce: “Sembra come… sembra quasi che stia invecchiando.”
Una ventata improvvisa spalanca la finestra e tra i due si intrufola un profumo antico, di fieno secco, d’erba tagliata. È un attimo, poi sparisce.

domenica 25 luglio 2010

The Human Centipede (First Sequence)

Tom Six poteva fare peggio, e sarebbe stato meglio.
L’idea che sta dietro The Human Centipede è buona se non ottima per i palati horrorifici: tre esseri umani appiccicati l’uno all’altro tramite l’infelice connessione bocca-ano creando così un mostro quasi mitologico attraversato da un unico apparato digerente. Cioè, c’era del potenziale notevole fra le mani di questo ragazzotto olandese il cui rating su IMDb dei suoi film passati è parecchio imbarazzante.
Imbarazzante come il banalissimo inizio che vede le due canoniche ochette perdersi nella campagna circostante alle prese con problemi insormontabili, ovvero cambiare una gomma. Ma al di là dei cliché, ci può stare che due donne non sappiano montare una ruota, piuttosto sembra l’ennesima presa in giro il fatto che in quella precisa zona il telefonino non prenda e che sempre nella medesima zona l’unica casa nel raggio di tot chilometri sia abitata da un mad doctor con pericolose manie di grandezza.

Vabbè, dato che Six non sarà né il primo né l’ultimo a riproporre gli usurati topoi del genere, aspetto con impazienza il piatto forte del menù. Nell’attesa l’antipasto proposto è poco digeribile: il giapponese che sbraita, inutile presenza ma perlomeno divertente, e la fuga tentata da parte della ragazza sono i preparativi (prevedibili) a quella che spero essere una grande abbuffata di schifezze. Delusione. Perché il film non degenera come avrebbe potuto fare, restando nel limbo della mediocrità. Dell’operazione per congiungere il trio non si vede all’incirca nulla, sempre che la vostra sensibilità non venga urtata da un pezzetto di sedere tagliuzzato. Io sono il nemico giurato dell’ostentare gratuitamente, qualunque sia il genere interessato, però soffermarsi un pochino di più nella sala operatoria avrebbe dato senso alla categoria a cui la pellicola vorrebbe appartenere, invece vediamo al massimo il doc asciugarsi la fronte madida di sudore e nient’altro.

Vabbè, penso, allora il grosso arriverà con “i primi passi” del centipede. Altra delusione.
I collegamenti tra i vagoni sono celati da improbabili bendaggi, e l’ultima carrozza indossa perdipiù dei mutandoni decisamente poco agevoli per esportare l’ultimo carico giunto alla fine della catena. Ecco, anche qui poteva andarci più pesanti con il nutrimento, e relativo espletamento, della creatura, mentre nei fatti Six si limita ad un primo piano del cinese implorante per non essere riuscito a trattenersi. Una sola volta. Poco per provare un minimo di pietà nei confronti di quei poveracci.
Allora vi domanderete che cosa fa vedere The Human Centipede se è davvero così contenuto. Uff, beh, un sacco di cose di cui frega pochissimo. Ridicolaggini varie del tipo lo scienziato che si mette a frustare reiterate volte la sua creazione, il giapponese che sclera, il mugolio delle altre due, l’entrata in scena dei poliziotti rimbambiti buoni solo a morire per la causa di Six. Praticamente di tutto il popò di roba che avrebbe potuto essere, non si vede manco quello. Neanche un culo, oh.

Dieter Laser, il sosia spigoloso di Christopher Walken, nel suo ruolo di squilibrato ci sta in modo credibile. Legnoso come pochi, ma se quello richiedeva il personaggio lui lo ha fatto bene.
Quanto a Six se avesse fatto peggio sarebbe stato davvero meglio perché almeno rimestando nello schifo avrebbe potuto essere ricordato per qualcosa, mentre così verrà dimenticato in fretta per aver cucito un film col fondoschiena in cui è meglio non mettere naso.
Uomo avvisato eh, tanto pare che sarà una trilogia e quindi ci cadrete anche voi prima o poi.

venerdì 23 luglio 2010

Il fiume

Eeeeh (lungo e continuato sospiro di non-solliveo), quanto è ostico Tsai Ming-liang!
Seriamente, il regista di Taipei è creatore di un cinema dilatato al di là di ogni possibile immaginazione. Il suo universo così plasmato è autoreferenziale come pochi altri: nei modi, sempre piani sequenza che sfidano la pazienza, nei contenuti, sempre storie di solitudine ovattate da una cortina di monotona agonia, nell’estetica, embrioni di flash che ritorneranno in The Hole (1998) e in Che ora è laggiù? (2001). E poi l’ossessione per l’acqua che qui si concretizza già nel titolo, ma che, paradossalmente, ha un ruolo più di secondo piano (o forse no) rispetto allo Tsai futuro. Per dire poi del suo attore feticcio, Lee Kang-sheng, costante presenza come ombra, come spirito, essere vivente ai bordi del cosmo.

Nel tentativo di non venire anestetizzati dalla calcificata regia di Tsai, siamo testimoni di una vicenda che si apre sull’ansa di uno sporco fiume dove una regista non è troppo convinta del manichino che utilizza per una sua scena. Da qui il casuale incontro con Kang-sheng che viene usato come controfigura al posto del manichino. Ma quest’incontro ne sottende un altro ben più distruttivo, quello fra il ragazzo e l’acqua. È indefinibile se la fonte dei dolori al collo di Kang sia dovuta all’immersione nel fiume, o all’incidente in motorino, sta di fatto che dopo la comparsata nel film-nel-film, i legami famigliari dei protagonisti accelerano un processo di sgretolamento che, probabilmente, era già in atto da parecchio tempo. Trattandosi di Tsai non è ovviamente una deriva nichilista rapida e immediata, è un accenno, un soffio, è l’inquadratura della mamma che riflessa nello specchio abbraccia un cuscino guardando un film porno, o è il gioco di sguardi tra il marito e il giovane amante in un fast-food. E poi silenzio che rimbomba, fino alla prossima scena appena suggerita.
La spannung si concreta nella dirompente immagine del padre che masturba inconsapevolmente il figlio nel buio della camera d’albergo, il dosaggio di luci è una meraviglia e lo svelamento dalle tenebre del viso baffuto raggela letteralmente il sangue.

È un cinema che ha però la colpa di arrivare dopo. Un ritardo incontrollabile che mina il livello di sopportazione per i motivi sottolineati in passato: privazioni dialogiche e musicali; occultamenti semantici e simbolici. Cosicché il lavoro d’estrazione da compiere è immane.
Eppure, potrà essere anche un abbaglio il mio, ma sento nella (non) poetica tsaiana un mood miseramente, riferito alle miserie che racconta, giusto, quasi necessario. E facendo un parallelo inutile, e allo stesso tempo utile per spiegarmi, fra lui e Bartas, altro fautore della cinematografia silenziosa, trovo che il lituano riesca a dire molto meno con il suo estenuante mutismo rispetto al collega taiwanese, il quale nonostante rifiuti la parola con ogni forza, riesce a incapsulare cristalli di pura realtà nei film che fa. Che sono pesanti, protratti, acquitrinosi come un fiume, ma non per questo inutili, anzi.

mercoledì 21 luglio 2010

Lourdes

Se pensate che Lourdes sia un film contro la religione, pensate male.
Perché Lourdes è in realtà il film più cristiano dell’era moderna, una lucida preghiera alle sorti divine che implora nella sua impeccabile geometria, che denuncia grazie alla fragile etica smascherata, che rattrista per l’irreversibilità delle cose.
A prescindere dalle varie confessioni, le tradizioni religiose a cui l’uomo sente di appartenere e la religiosità ineffabile da cui il suo animo è pervaso e predisposto, lo aiutano in una ricerca (che a sua volta è un cercarsi) del mistero dentro lui, del sacro. Ma i dogmi, o più semplicemente il “sentire” la fede sono ormai degenerati in una ricerca che si allontana dall’ humana conditio, preferendo l’orizzonte materialista della profanità. Perciò l’obbiettivo svelatore di Jessica Hausner, novella Bernardette a cui dobbiamo credere, non si prepone di smontare la credenza in Dio, tutt’altro.
Poiché l’architrave del film è il miracolo avvenuto, allora è la speranza, e la fede in essa, ad essere il filo aureo che eleva la riflessione della regista austriaca. Ciò che si accusa è dunque quella deriva terrena, odiosamente sfarzosa nella superficialità degli oggetti in vetrina (da acquistare), che ha trasformato un luogo anonimo tra i Pirenei in una miniera d’oro.
Dove è il sacro? Non nel premio come miglior pellegrino dell’anno.
Dove è il mistero? Non dentro della comunissima acqua che al massimo migliorerà la diuresi.
Dove è la speranza? Non nelle condotte delle volontarie.

Ma questi tre spiriti hanno un luogo. Ed è Christine.
Lei sì che vive in un’attesa fatta di fiducia, a un auspicio non illusorio per cui è decisamente meglio Roma perché più culturale che l’insipida Lourdes, ad un desiderio di speranza in grado di sorreggerla. Quando i personaggi si chiedono perché un miracolo del genere sia capitato proprio a lei, non tengono conto del fatto che Christine odia – gli altri per la loro condizione privilegiata –, e ama – il bel poliziotto francese –. In una parola: è debolmente umana. Ha trovato la sua religiosità senza partecipare a messe che sembrano la succursale di Woodstock e senza palpare la superficie di una semplice roccia, piuttosto con la semplicità della sua condizione lontanissima dagli ori le ricchezze le sete, e tutte le altre cose meschine che si trovano a Lourdes.
Eppure, proprio quando ci si aspetta una definitiva svolta antropologica in grado di dare la giusta dimensione al concetto di religione, la Hausner, con la scena del ballo, inchioda letteralmente la speranza ad una sedia a rotelle che con rassegnazione sfila via dallo schermo.
Dio, ma non quello appiccicato sui santini o che pende dalle umide labbra di un prete, ha perso, perché prima di tutto a perdersi è l’uomo. Anche se un’esile Christine, e una messianica Jessica, ci dimostrano con Lourdes che la verità, qualunque essa sia, risulti totalmente “oltre” e “altra”, sebbene sia del tutto umana.

Sylvie Testud dona al suo personaggio una dignità che la fa apparire bella, non agli occhi ma al cuore. Ed è splendido, secondo me, il campo lungo nel quale viene immortalato, si fa per dire, il suo bacio. Nonostante nel film vi siano momenti più importanti, questo fa capire la delicatezza con cui la Hausner ha raccontato questa storia. Un tocco lieve, una preghiera sussurrata.

lunedì 19 luglio 2010

Ex Drummer

Dal Belgio arriva sparato come un proiettile un film del 2007 nero, nerissimo. Storie di distorsioni elettriche, di un’improbabile band punk rock alla ricerca di un batterista per poter partecipare al concerto definitivo in grado di catapultarli nella Hall of Fame del genere. Storie, anche e soprattutto, di miserie, violenze, sangue che cola dai muri sfidando la gravità.
Una storia, questa, diretta con cura maniacale da Koen Mortier al debutto (e ora al lavoro sulla trasposizione di Cavie by Palahniuk) che esibisce talento notevole per tutto ciò che riguarda il comparto tecnico, ma che allo stesso modo si auto-limita nell’eccedere a qualunque costo urlando ai quattro venti le torbide vicende che riprende; difetto accettabile, almeno in parte, se si pensa che questo fu per Mortier il primo passo concreto nel mondo del cinema.
Il che non è da sottovalutare, perché giusto per iniziare, si può dire di come i titoli di testa siano una fottuta genialata con la presentazione dei tre reietti in backward, che oltre ad essere meramente divertente nella sua proposizione, esprime bene a livello metaforico l’impossibilità dei componenti del gruppo di procedere in avanti, di migliorare se stessi e il mondo di merda che li circonda. Invece no, all’indietro fin dal principio, senza via d’uscita.
Altro trucchetto degno di nota è quello che vede l’inquadratura rovesciata nella casa del cantante Koen. Lì e solo lì la mdp si rovescia nell’inquadrare “il re dello stupro” che vediamo camminare coi piedi sul soffitto mentre interloquisce con lo scrittore Dries, ciò non è dovuto ad un particolare status del personaggio poiché Koen è un povero figlio di puttana come gli altri, è solo un escamotage ad effetto in cui non risiede nessun significato particolare, se non quello di stimolare il lato visivo dello spettatore. Riuscendoci, a mio parere.
E a proposito di figli e buone donne, direi che tutti i membri dei The Feminists siano ben lontani dall’essere anonime macchiette, piuttosto figure dal grottesco spessore, personalità rotolanti completamente allo sbando. Non so chi sia il più amaramente buffo del gruppo, di certo è una bella gara al ribasso. Il contorno poi è ancora più vivo: la mamma pelata, il mitico Big Dick e il padre schizzato sono più persone che personaggi, assolutamente fuori di canoni, anche irreali, ma paradossalmente più reali di Dries.
Ecco sì, Dries. L’ombra del film, cospiratore del dolore, lucra sul male altrui per i suoi scritti. A(nti)patico, decisamente e volutamente antipatico per la sua autostima, è per certi versi l’idealizzazione del regista sullo schermo: creatore coinvolto sì, in grado di staccarsi dal lerciume che lo attornia anche. Lo si evince dal bagno di sangue finale che mi ha fatto applaudire non poco dove contemporanemente Dries consuma un profumato amplesso fra coperte di seta e luci soffuse, mentre gli altri vengono ammazzati come cani esalando l’ultimo inutile ricordo (vanno sempre a ritroso) di fronte all’obiettivo.
Qualche passaggio a vuoto: più o meno tutti quelli che riguardano Big Dick, spassosi (e vorrei vedere visto che veniamo calati dal nulla nella vagina della sua donna) piuttosto anzichenò, ma si fermano lì: riempitivo adorabile. Un po’ meno la studentessa universitaria la cui presenza appare superflua e strumentalizzata al fine di sventolare alcuni frame sovrapposti di sesso nudo e crudo.

In conclusione mi sento di dire che Ex Drummer sia un film interessante perché propone soluzioni anticonvenzionali che fungono da linfa vitale per il mai troppo ammirato cinema che sta sotto, probabilmente però non è troppo interessato a voler formare e sensibilizzare coscienze sui problemi che affliggono i suoi interpreti. Scelta legittima da parte del regista, tuttavia così facendo la pellicola non si eleva, rimane arenata nella sporcizia nichilista narrata. Che è un nulla che si fa ascoltare benissimo, ma che come Koen de Geyter, Jan Verbeek e Ivan Van Dorpe non riuscirà ad avere un grande futuro, solo il ricordo di qualche infaticabile cinefilo.

venerdì 16 luglio 2010

The House

Invidio molto chi è riuscito a scrivere in generale qualcosa su Bartas. Non dico qualcosa di lungo o ben argomentato, semplicemente qualcos’altro che non sia stato già detto da Three Days (1991) in avanti. Visto che A casa (1997) è un film pressoché identico alle altre opere del regista lituano, per evitare una tediosa ripetizione nell’esporre le mie impressioni, non parlerò del film, ma come il film.

Fisarmonica.
Non si riesce a parlare, a comunicare. (fssssh, fssssh, fssssh).
Non c’è presente né futuro; uomini e donne fossilizzati (kaaast), chi sono? Rintocchi lontanissimi, solitudine, forse illusione. (di sfuggire alla morte dandosi una parvenza di vita) shiiiib. Finzione.
Mangiare fino a stare male, coltivare anche, spogliarsi in un salone desolato tutti insieme senza riuscire, senza, riuscire, a, parlarsi. Zzzzh zzzzh, sottofondo brusio. Primi pian(t)i eterei, è la casa (aqqq aqqq) degli ignavi, immobili, mammelle di cane. Limbo.
Pirotecnica gioia effimera nei fuochi, o riti come pagani, poco umani (shhhk shhhk); porte aperte alla morte dentro proiettili. Fisarmonica. (trrrrj trrrrj). (non)fine.

Fatica sprecata, comunque. Ogni tentativo di comprendere un film di Bartas si scontra violentemente con l’imperscrutabilità del suo anti-cinema. Ormai vedo i suoi film come un decadente monumento alla solitudine, all’abisso nell’animo, a qualunque altra cosa che sia in grado di atterrire il genere umano. E non mi va a genio. Perché non ci troviamo di fronte ad una riflessione sull’argomento, bensì ad un insistere oltremodo stucchevole sul niente. Che so non essere niente trattandosi di annullamento dell'uomo, che però nella proposta ultra dilatata di Sharunas ha un segnale di ritorno vicinissimo alla fase REM.
Sussulti, deboli, all’inizio e in particolar modo alla fine con la crocifissione del bambino che getta un barlume di significato sulla vicenda. Alcune opzioni visive hanno un discreto impatto sullo spettatore, prendere la sala piena di corpi nudi o il cane in controluce come esempi. E pure un paio di espedienti tecnici sono interessanti come la presentazione degli abitanti attorno al tavolo ben accompagnata dalla musica, o il sordo dialogo fra due sofferenti che esprime tutto il mutismo di The House.
Che immane fatica, però, cogliere queste sfumature sulla tela nera di Bartas…

giovedì 15 luglio 2010

Bambola

Come fosse una bambola, Valeria Marini al debutto, è la protagonista di una salmastra storia d’amore tra anguille e caprette, contesa da un bruto chiamato Furio (la garanzia nel nome), il quale farà ammattire il fratello gaio e il fidanzato Settimio.
Come fosse una bambola gonfiabile, Bigas Luna – di cui non ho visto nient’altro – sottopone la Valeriona nazionale alle imboscate sessuali del pocodibuono di turno, l’unico galeotto che indossa l’accappatoio anche in galera, disinteressandosi di quello che fa di un film la sua ragione d’essere. L’atrocità più irreale si consuma all’inizio quando nel parco acquatico Settimio uccide per sbaglio l’amico di Bambola e nella scena successiva vediamo la Marini disperarsi nel parlatoio della prigione per il suo Settimio. Ma quale accidenti di contatto hanno avuto i due? Noi non vediamo nulla che possa far intendere una qualche relazione post-morte dell’amico. Dobbiamo starcene che si sono fidanzati, probabilmente tra una dissolvenza e l’altra, ma questo è quanto (c’è di brutto da rimarcare).

La progressiva entrata in scena di Furio tocca ampiamente la soglia del ridicolo.
Giunto nella pizzeria i suoi infervoramenti sono quanto di più comico possiate immaginare (nono, molto di più di quello che state pensando), e una volta fermatosi in pianta stabile la vicenda precipita nell’inutilità con l’improbabile relazione tra i due. Ciò che dovrebbe essere torbido non lo è, né sordido o pruriginoso. La componente sessuale è scarica, tanto che le “scene di sesso” sono roba per bambini dell’asilo. Ma non tanto perché non si vede nulla di scabroso, piuttosto per una palese incapacità di Luna nell’esprimere eros attraverso la mdp, operazione comunque difficilissima a mio parere, che presumevo a ragione di non trovare in codesto film.
Bambola è semplicemente una manovra commerciale similare a Il macellaio (1998) in cui viene usato un personaggio dello spettacolo come specchietto per le allodole. La Marini uguale alla Parietti; credo che fondamentalmente alla gente poco gliene importi in una pellicola del genere della storia raccontata, viceversa delle poppe o delle chiappe delle showgirl interessa eccome. Alla fine la delusione si duplica: perché da una parte la pudicizia regna abbastanza incontrastata, e dall’altra, nell’attesa di vedere un lembo di tetta, bisogna sorbirsi un film che resta irrimediabilmente brutto.

Il cameo di Anita Ekberg, insieme all’ambientazione lagunare, risulta essere la sola nota positiva di Bambola.

mercoledì 14 luglio 2010

Farfugliamenti notturni

Fa caldo.
Decisamente e fottutissimamente caldo. È una delle tante notti inutili e il mondiale è appena finito, cosa guarderò adesso? Il sonno non sembra voler prendermi, sento le gambe appiccicate dal sudore, anche la schiena non se la passa molto bene. Ronzio sfuggente di una zanzara, almeno lei può volare. Sono sveglio, sì, e ho voglia di scrivere.
Potrei pa(r)tire da te che sei la genesi di questo blog, chissà… ma no, è passato troppo tempo e il ricordo si fa vivo solo quando per strada incrocio qualcuno col tuo profumo che probabilmente adesso non porterai più.
Dalla strada, ma quanto è lontana la strada da casa mia!, arriva un rumore sordo, sono macchine che vanno, sarebbe bello sapere dove, ognuna con una direzione e dentro le note di una canzone. Cerco un po’ di musica nei miei documenti, concilia il sonno dicono, dicono. Niente, le ho già sentite tutte queste canzoni, le so a memoria.
Adesso mi affaccerò un attimo per vedere se c’è qualcosa di diverso, mi basterebbe anche un particolare, chessò: il vaso del mio vicino di sotto rovesciato, una persona che cammina nel viale. Tutto immobile, incollato da questo caldo. Ho visto un gatto però. Gli ho fatto tss tss e di scatto ha rivolto la testa verso di me. Ci siamo fissati per un po’. Che sguardo triste hanno i gatti (che sguardo triste hanno gli uomini, penserà lui), sono sicuro che se fra 5 minuti io tornassi alla finestra lui sarà ancora lì col muso all’insù. Lo faccio: dove c’era il felino non resta che il vuoto gradino di marmo grigio. Se ne è andato come le macchine nella strada. La zanzara invece sembra volermi bene, lei non se ne andrà. Mi sono sempre chiesto come sia possibile che un essere così piccolo riesca a vivere. Anche lei sentirà questo cazzo di caldo? Anche lei sentirà?
Sono in vena stasera. Forza! Fatevi sotto fantasmi del presente, non ho paura di te Laurea! E tu, tu Lavoro maledetto che te ne stai nell’angolino credi di spaventarmi? Tsk. Non ho paura della crisi e nemmeno del riscaldamento globale, la legge sulle intercettazioni mi fa una pippa e del petrolio in America me ne strabatto l’anima! Eccheccazzo.
Mmm, vabbè. Tenterò di dormire, intanto le macchine, i gatti e le zanzare ritorneranno anche domani. Insieme ai fantasmi, purtroppo.

lunedì 12 luglio 2010

Synecdoche, New York

Tutto è ogni cosa.

Sulle rive di un fiume cristallino ripiegavano su se stessi alberi antichissimi che avevano visto guerre atroci, che avevano vissuto il dolore e la sofferenza, restandone segnati. Ma erano banalmente sopravvissuti senza rendersene conto, e tutto il tempo che era passato adesso si confondeva negli anfratti dei ricordi. Quanto ne era passato di tempo? Alcuni dicevano un anno, altri due, chi cento, chi un giorno. Nessuno lo ricordava, c’era solo il fiume che continuava a scorrere, e quel fiume era Dio.

Charlie Kaufman, per la prima volta dietro la mdp, edifica il film più grande degli ultimi anni.
No, forse non lo sarà per un milione di validi motivi, ma Synecdoche, New York (2008) grande lo è davvero. Checché ne pensiate quest’opera livellata verso l’alto desume come un imbuto l’esperienza di esistere, quell’ostinata mediocrità che pesa sulle spalle di un universale Philip Seymour Hoffman, quell’ostinata mediocrità che appesantisce il cuore prima di dormire. La prospettiva su cui il film si muove non è di certo salda né lineare, come Kaufman ha dimostrato nelle sue sceneggiature passate gli aspetti filmici tendono a venir fusi nella realtà (se diegetica o veramente vera non lo so) fino a non poter distinguere cosa sia reale e cosa no. Qui il discorso si ingigantisce perché non sono solo luoghi immaginifici a sovvertire la percezione della realtà (Essere John Malkovic e Se mi lasci ti cancello), bensì le persone, gli esseri umani che venendo moltiplicati amplificano grottescamente (e squisitamente) la condizione crasica dell’incontro per cui ogni uomo è un mondo. Ed ogni mondo è un uomo.

Adele, Sammy, Claire, Hazel, Olive, Maria. Il loro mondo si incontra con quello di Caden, ed è un impatto a volte dolce, a volte distruttivo. Per lui, per loro. Il geniale incedere della pellicola (di)mostra l’ovvietà, sottolineata dal sermone del prete, con cui si consuma il vivere umano. E lo fa sminuendo il valore dei suoi protagonisti sdoppiandoli in quelle che paiono delle misere caricature di loro stessi. La mente (Dio?) che progetta, rimugina, biascica la mastodontica impresa è il regista, Caden, colui che per liberarsi, forse, di un ipocondria cronica, sceglie di gettare tutto il suo male nell’opera teatrale definitiva, quella che sia in grado di ripercorrere la sua vita frammentata sempre alla ricerca di qualcosa che ovviamente non troverà mai. Ma il procedimento per cui la finzione riproduce la realtà innesca delle dinamiche che non per caso si rifanno a ciò che è già successo; accadono così gli stessi innamoramenti sebbene si tratti di personaggi (mondi) differenti, si ripetono le stesse tragedie (tutte le donne del film muoiono) soffocando la storia in un surreale harakiri, mentre il perno, l’architrave di tutto, e quindi di ogni cosa, Caden, continua a perdere, a vivere di mestizia.
Il grande paradosso – forse LA figura retorica del film – sta nel personaggio interpretato da Hoffman, il quale sebbene sia il creatore, il regista che sta dietro il palcoscenico, e quindi colui che dovrebbe dirigere, vede nel finale il passaggio da deus ex machina a piccolo attore guidato da un auricolare collegato ad una donna che lo ha sostituito. Lei è Caden, e Caden è lei.

Ma Caden è anche New York. Col materializzarsi dei suoi fantasmi, della finalmente morte arrivata, anche la città costruita da lui sfracella su se stessa, perché era stata essa ad aver donato la vita al tormentato regista. Perché il mondo di Caden sebbene fosse quello più illuminato, non era meno banale di quello degli altri, che una volta scomparsi non avevano dato più senso alla sua vita.

Anche l’acqua del fiume azzurro non ricordava quanto tempo fosse passato. Si sforzava chiedendo aiuto ai pesci che liberi vi sguazzavano dentro, poi lo chiese all’erba infinita che le faceva compagnia, lo domandò anche al soffice vento che li accarezzava tutti. Ma nessuno rispose. Poi un giorno arrivò una formica che timidamente si affacciò all’ansa del fiume, tirò un lungo sospiro e disse a tutti del tempo, e di quanto ne fosse andato. La formica restò immobile, anche lei era Dio.

sabato 10 luglio 2010

Nightmare Detective

Cupissimo (non è una novità) lungometraggio di uno Tsukamoto pessimista allo stato cosmico (non è nuovamente una novità) che vede più forte che mai l’allontanamento dell’uomo metropolitano dalle qualità che dovrebbero renderlo, appunto, un uomo.
L’incubo, pane che Shinya mastica abilmente fin dai metallici esordi, diventa la realtà - o è la realtà ad essere un incubo per gli aspiranti suicidi? - attraverso cui il regista, in una sofferta autoriflessione, trascina lo spettatore. È un limbo, non-luogo, territorio di confine e anche oltre. È il suo cinema. Tsukamoto se ne sta laggiù, immerso nell’ombra attaccato a quel futile strumento che in A Snake of June (2002) salvava una vita dalla morte, mentre qua mortifica il senso della vita: un cellulare. I suoi film sono i miei incubi peggiori, e guardarli è provare paura. Ma lui, sì lui, non posso pensare che abbia la stessa paura, invece ce l’ha, ce l’ha sempre, ed è solo con il suo coltello.

Stop!

Ora è fermo di fronte a me, c’è del fumo intorno a noi, sembra un sogno (forse è un film), la punta di metallo luccica in modo sinistro, prova a colpirmi: ci riesce. Lo ha già fatto altre volte, mi ha sempre fatto male. Anche lui soffre però; rigagnoli di sangue gli uniscono la bocca agli occhi. Io sono l’uomo che entra negli incubi, nei suoi, per questo mi odia. Io credo di voler la morte, confusione, mi piace sentire quello che lui dice su di essa. Poi tutto si rallenta, e si espande nell’indeterminatezza dell’incognita. Vedo sangue e carne viva, eppure sento brandelli di vita che scorrono, ricordi d’infanzia: l’acqua, le nuvole, il vento, sono pezzetti di esistenza, mia sua o di entrambi non ha importanza, o forse ce l’ha, ma sono io che non riesco a capire. Anzi sì! Capisco che io devo salvarmi perché lo vuole una donna, un essere umano come me, lo vogliamo entrambi perché forse nelle persone non ci sono solo cose orribili, sì ecco, potrebbe esserci qualcosa di buono, lo sento! E vale la pena cercarlo questo qualcosa. Shinya salta nell’abisso, torna all’origine, al nulla, allo Zero. Sono sicuro che ricomparirà, però. Perché gli incubi non ci abbandonano mai.

Azione!

Tsukamotianamente parlando non si staglia di fronte, e dietro e sopra e sotto a noi l’ossessione totale che questo cineasta ha trasmesso per buona parte della sua carriera. Sarà un po’ l’impostazione crime che imbolsisce la vicenda appiattendola con i suoi cliché investigativi, o magari la lingua italiana che messa sulla bocca di questi giapponesi ha un riverbero decisamente imbecille. Sta di fatto che Nightmare Detective, alla luce sinistra dei suoi predecessori, non ne ha la stessa possanza.
Comunque, guai a pensarne male. Tsukamoto è l’unico autore che conosco in grado di sposare con maestria l’orrore della vita, e della morte, nel cinema dell’orrore.

Il che dà un senso di pulsazione, di stretta, di crampo, come quando nelle digestioni difficili qualcosa si ingorga nello stomaco e duole, per poi sciogliersi nel giusto andamento viscerale.

(Dino Buzzati, Sessanta racconti; Mondatori 1958)

giovedì 8 luglio 2010

Import/Export

Nemmeno troppo tempo fa vi stavo dicendo di come le zone baltiche siano un territorio di anime perdute, poveri diavoli in balia di un destino che non riserverà loro nessun’altra chance. E così questi uomini ridono, o piangono, fino a soffocarsi col fumo di sigaretta nel freddo del gelo che li circonda.
C’è un altro luogo che recentemente il cinema ha fatto conoscere a noi tutti per il suo desolante squallore: è l’Austria. Diversa la situazione rispetto all’Europa dell’est, senza dubbio, eppure un signore distinto come Haneke ci ha mostrato il lato peggiore dei suoi connazionali, una vera ombra che si nasconde dietro la limpida facciata della cultura austriaca, e lo stesso hanno fatto Jessica Hausner, Ulrich Seidl, e chissà quant’altri che nemmeno conosco. I nostri vicini di sopra sembrano avere parecchi scheletri nell’armadio – noi non siamo certo dei santi, ma ultimamente nessuna mdp è stata abbastanza brava nel ricordarcelo –, e il contrasto che si crea con la loro vita pulita e precisa è netto, quasi sconvolge. Alzi la mano chi non è rimasto scioccato dalla storia di Joseph Fritzl, il demone di Amstetten, dalla casetta col giardino e tanti piccoli bambini a zampettarci sopra, non curandosi di esserne padre e nonno allo stesso tempo. L’orrore raccontato da Seidl non è così abominevole (o forse sì?), piuttosto scivola nella quotidianità delle cose riprendendo, con stile e gusto personalissimo, l’inarrestabile deriva umanistica. Ma ciò che Seidl dice è un sussurro, eco lontana, non c’è esaltazione alcuna nel mostrare delle ragazze che lavorano in un peep-show telematico o un vecchio leone tatuato che cerca di sfogare le sue fantasie su una giovane zoccoletta, non c’è irruenza nel voler far capire che il futuro dei due protagonisti è nero come la schermata finale, no cazzo, il regista ci butta lì tutta l’ignobile disumanità che li circonda come se niente fosse, lo aveva fatto anche con Animal Love (1996) e Canicola (2001), risultando forse un po’ indigesto, e lo rifà qui, ma qui, affina ulteriormente la tragica ironia che percuote ogni suo film, satira pungente, all’arsenico, che fa sembrare buffe le situazioni più strambe, le quali però spogliate della propria veste comica sono un discreto pugno nello stomaco.

È l’ineluttabilità delle figure umane che fanno da contorno a stravincere in Import/Export.
Non ci si può opporre all’umiliazione delle botte che Pauli subisce nel garage e che gli faranno perdere il lavoro, e parimenti non si può fare niente contro il bimbo tiranno che fa cacciare Olga come domestica. Proseguendo nel film si incontreranno molti altri figli di buona donna che attraverso la loro bassezza risucchieranno i due giovani nel loro fango, sono lo specchio di una realtà, la nostra, e del marciume che la permea. Questo deterioramento si esplica soprattutto in due set distinti, resi ottimamente dall’obiettivo di Seidl. Il primo è l’ospedale, ultimo avamposto della vita dove anziani decrepiti in preda ai propri fantasmi contano gli ultimi respiri, qui il cuore si fa piccolo piccolo nel vedere l’impotenza della vecchiaia di fronte alla malignità della frustrata infermiera; il secondo è la profonda periferia Ucraina (ancora l’est, che vi avevo detto) con i suoi palazzi fatiscenti, fuochi dentro bidoni arrugginiti, sciami di bambini imbacuccati. Ivi non accade nulla di particolare, tuttavia l’atmosfera degradante che si respira è annichilente.

Import/Export è un film sulle macerie che si nascondono dietro i sepolcri imbiancati della modernità, su Joseph Fritzl, sulle maschere che la società austriaca, ma anche ucraina e perché no di tutto il resto del mondo, indossa per non vedere l’inciviltà che la circonda.
È una gelida testimonianza che viene trasmessa con rassegnazione, e pietà, per quegli esseri umani di un teatrino noioso in cui trascinano la propria vita: dal principio alla fine. Difatti il film si apre con un neonato piangente, e finisce nella corsia di un reparto dove prima che cali il buio eterno una vecchia donna pronuncia nel silenzio assordante una semplice parola: “tod”. Morte.

martedì 6 luglio 2010

Vive l'amour

Meglio non farsi ingannare dal titolo celebrativo. Per il suo secondo lungometraggio Tsai Ming-liang lascia da parte qualsiasi enfatizzazione del sentimento, costruendo, come sarà nelle opere che seguiranno, un film assolutamente sobrio, che preferisce il silenzio all’urlo, che sdegna la fastosità dell’occidente in favore di un principio realistico totale, fino a sfiorare l’antinarrazione.

Il cinema di Tsai si conferma, già dagli esordi, esperienza stratificata, di complessa assimilazione; ancora una volta sembra essere la solitudine il centro dell’attenzione, e di riflesso tutte le sofferenti derive che questa condizione comporta: aspirazioni suicide, sessualità repressa, incapacità di amare. L’essere soli è il triste attributo che i tre protagonisti condividono nella loro precaria esistenza. Ma invece di sbandierare queste situazioni, Tsai le insabbia, come se le nascondesse nella banalità della vita che si consuma passo dopo passo, ora dopo ora, e allora il lavoro di estrazione che lo spettatore deve compiere è notevole, sfiancante per il livello di attenzione richiesto.
Il tragic(omic)o triangolo amoroso che vede per protagonisti una sensuale agente immobiliare, un furbastro venditore ambulante ed un timido commerciante di loculi ruota intorno ad un oggetto inanimato: il materasso. Tsai riprenderà in Che ora è laggiù? (2001) la centralità di un oggetto come fulcro narrativo, qui il letto spoglio, senza coperte, diviene nel giro di poco tempo il luogo per eccellenza dove riappacificarsi con se stessi. A turno ognuno dei tre personaggi si sdraierà sopra di esso accarezzandone la ruvida superficie. Questo per ricordare l’amplesso muto, carnale, ansimante, vissuto in prima persona dalla donna e lo spaccone, spiati dall’introverso venditore di tombe. Ma il pessimismo di Tsai si manifesta – sempre e comunque in maniera indiretta poco percettibile – quando la coppia fa l’amore per la seconda volta, e sotto il materasso, divenuto ora barriera invalicabile, il ragazzo inizia a masturbarsi.

Se il braccio teso di The Hole (1998) lasciava un barlume di speranza nell’alienata location condominiale, in Vive l’amour non c’è il benché minimo appiglio di salvezza. Perché sebbene il ragazzo riesca a sdraiarsi affianco al venditore ambulante sul materasso, e quindi a ridurre la distanza con il genere umano, il suo bacio sembrerebbe un gesto disperato, nervoso, più vicino al recidersi le vene dei polsi che ad un atto d’amore, e difatti i fotogrammi successivi mostrano di come il venditore non si accorga di niente continuando a dormire e il giovane esca lentamente dall’inquadratura per scomparire definitivamente.
Ma la visione di Tsai si fa impietosa nel finale. Il dramma che fino a quel momento era stato trattenuto in una camera da letto, esplode nella realtà metropolitana tramite la catarsi di un pianto che dura più di cinque interminabili minuti. Acqua (marchio di fabbrica del regista di Taiwan) che scorre sulle guance della donna, tra i singhiozzi del suo vivere che non cambierà dopo un rapporto occasionale con uno sconosciuto, né cambierà qualcosa per quest’ultimo, menchemeno per chi li ha spiati, desiderati, bramati, per tutto il tempo. Resteranno tutti e tre comunque soli.

Leone d’Oro a Venezia ’94, con Vive l’Amour Ming-liang comincia il suo viaggio negli interrogativi dell’uomo moderno. Nonostante sia noioso, criptico, immobile e lento, vive Tsai!
Abbiamo bisogno anche di lui.

giovedì 1 luglio 2010

L'uomo, la donna e la bestia - Spell, dolce mattatoio

Parecchio tempo dopo, precisamente da La montagna del dio cannibale (1978), ritorno a navigare nelle agitate acque del cinema di genere italiano, e subito m’imbatto in un Cavallone, che di nome fa(ceva) Alberto, che nell’onda della rivalutazione internettiana moderna ha trovato un posto d’onore tra le file dei registi maledetti; definito come spina nel fianco della morale italiana, prima di Spell (1977), opera dai molteplici ed enigmatici titoli, gira un paio di film non proprio memorabili a leggere in giro dove il filo conduttore è sempre il sesso, il corpo, l’eros sporco. Dopo Spell, invece, partorirà l’allucinato Blue Movie (1978), poi praticamente il silenzio. Nel mezzo un film fantasma, Maldoror, che nessuno ha mai visto, ma di cui tutti gli appassionati parlano.

Mi ero disabituato – e mi sa pure disamorato – a questo cinema così grezzo, raffazzonato nel modo in cui esprime ciò che vuole dire, che quasi intenerisce per l’ingenuità dei dialoghi e la goffaggine degli attori sul set.
L’esile storia della pellicola racconterebbe di un paesello di provincia popolato da anime inquiete: moglie pazza che beve l’acqua del water, macellaio frustrato, poliziotto fedifrago, padre incestuoso. In una cornice da film corale ante litteram, Cavallone rimbalza freneticamente da un personaggio all’altro mettendone in gran mostra le doti meno nobili che stridono con il ruolo sociale che ricoprono. L’intento di mettere a nudo la brava gente di un grumo di case è operazione lungimirante et innovativa per l’epoca visto che i tempi della comunicazione globale in cui per sapere le ultime dall’inferno basta accendere il tg ancora avevano da venire e parlare così, di queste cose, doveva esser come girare nudi in piazza San Pietro la domenica mattina. Temo, però, che non molti abbiano dato adito a Cavallone, e ora, come per molti altri suoi fratelli, è troppo tardi.
Sì perché Spell è un film che sa di vecchio. Non so se avete presente, ma i vecchi hanno un odore strano, d’armadio chiuso, saliva secca, respiro di tomba. Saranno gli ultimi sbuffi di vita o i primi avvisi della morte, boh, sta di fatto che questa puzza lieve ha un che di meschino, di laidi segreti dimenticati. Ma allo stesso tempo, vedendo il povero vecchietto con quella pelle sottile e le ossa deformate dagli anni che quasi vogliono uscirgli dal corpo, si prova indulgenza, forse pietà nei confronti del suo odore malevolo.
Dolce mattatoio mi ha detto questo. Certo certo, le turpi immagini di (s)exploitation arricchite da citazioni intellettuali quali De Sade e Bataille, ci sono e resistono. Cosiccome tiene duro alla severità del tempo la cupola di perversione che mette sottovetro il paese. Sebbene vi sia più d’una caduta di stile (un phon usato per tramortire è poco credibile), trasuda del male da questa storia; che siano vermi brulicanti in una fetta di carne o l’ottima scena – la migliore – della moglie che nelle sue fantasie si abbandona al prete mentre il piede del marito impiccato penzola dallo schermo, si avverte un gusto sordido, lo stesso afrore dei vegliardi.

Ma quello che gli anni a mio parere hanno divorato è il senso, il messaggio e i suoi destinatari. Quale vuoto potrebbe mai riempire Spell? Quali risposte dare? Beh, ovviamente starete pensando che già alle origini non era un film dai grandi principi formativi visto il suo procedere per pennellate surreali, ad oggi però mi sembra arrivare fuori tempo massimo, e allora, nonostante il finale coprofago stile Pink Flamingos (1972), mi vien da sorridere e provo un pochetto di compassione. Come per le persone anziane, così buffe nei loro movimenti, così buffe nel raccontare le storie del passato che, purtroppo, nessuno a quei tempi ha ascoltato, e che ora suonano tanto inattuali.