venerdì 28 luglio 2017

Kano

Paul Tunge, norvegese con un lungo curriculum come assistente alla regia (lo è stato anche per Joachim Trier in Oslo, August 31st [2011], e infatti Kano [2011] potrebbe avere un tono assimilabile a quello del collega, si fa per dire, più conosciuto), ci racconta i tempi supplementari di una coppia in procinto di disgregarsi. Quello che interessa a Tunge non è tanto la sfera sentimentale in sé ma ciò che la intacca (in particolare i fattori sociali) e allora, partendo da un presupposto fondamentale per lo snodarsi della narrazione, ovvero il rifiuto nei confronti di Daniel da parte della scuola d’arte, osserviamo il protagonista girare a vuoto in una città marittima indolente e incapace di dare una svolta alla propria vita e a quella di Yvonn, tirando a campare con lavoretti alla giornata, vivendo non-vivendo in un locale vuoto e diroccato. Tutto ciò Tunge lo riversa sullo schermo con un fare para-autoriale che punta a sottrarre (pochi dialoghi, molta luce naturale) e ad astrarre (la condizione del duo che è quasi “a parte”, separata dal mondo) rifinendo qua e là il girato con brevi sequenze in stop motion dove dei disegni si creano come da soli sul set.

In suddetti termini Kano potrebbe anche avere qualche spunto di interesse, infatti la tematica della rottura, seppur inflazionata, sarebbe mitigata da un’accettabile cura formale, il punto è che il regista con l’avvicinarsi della fine indirizza il film verso un’area lontana da quella amorosa, Tunge vorrebbe mostrare la deriva mentale di Daniel che smarritosi nella sua esistenza priva di senso inizia ad assumere atteggiamenti voyeuristici sempre più gravi. Non so se nell’idea del regista vi fosse l’intenzione di suggerire qualche aggancio meta con il ragazzo dipendente dallo spy-video (e a proposito: l’amplesso con la sconosciuta è di una forzatura evidente), ma anche se fosse una tale riflessione sul vedere, su quella pulsione scopica, sulla necessità di guardare per sentirsi vivi, non innerva adeguatamente la discesa nella follia di Daniel, la quale, per di più, si propone un po’ incolore, un po’ boh, nonché sbilanciata nella costruzione dato che vediamo questa mania soltanto in un breve episodio iniziale per poi ricomparire prendendosi il palcoscenico a qualche passo dalla conclusione. Per tutta una serie di motivi Kano è un film che definirei sbrigativamente dimenticabile, al netto di un’estetica appetibile quanto resta è di un’inconsistenza preoccupante.

mercoledì 26 luglio 2017

Un re allo sbando

Mai piaciuto davvero il cinema di Peter Brosens e Jessica Woodworth, ed anche se in passato potevo apparire morbido su certi giudizi, non è la loro proposta quella che può soddisfare il mio palato spettatoriale, i motivi di tale idiosincrasia si riconducono all’apparato metaforico utilizzato dai due registi che non hanno mai mancato di rimpinzare i propri lavori con chili e chili di simboli, allegorie, rimandi e via dicendo, in più, sebbene siano descritti in Rete come autori dal passato documentaristico, da Khadak (2006) in avanti hanno sì giocato sul territorio del documentario ma intensificandolo indisturbatamente fino a giungere ad un prodotto, e quindi non ad un Film, bello laccato e patinato, l’esatto opposto di ciò che chi scrive ricerca. Adesso è giunto questo King of the Belgians (2016) e di sicuro ci si può discostare dalle premesse appena dette, anche solo in rapporto all’opera precedente, La quinta stagione (2012), siamo in presenza di un oggetto differente e ce ne accorgiamo subito sul piano estetico, tanto rigoroso e geometrico era il predecessore, quanto “libero” (le virgolette indicano che questa non è affatto una pellicola libera, è pur sempre un protocollo di metodi e accorgimenti datati, suvvia, il-film-nel-film!, per carità…) è Un re allo sbando, e accade così perché B&W decidono di affidarsi più alla realtà (si fa per dire, parliamo di un suo surrogato al massimo) che ad una raffigurazione impostata, ergo: abbiamo un immediato snellimento fruitivo condito da dosi non disprezzabili di ironia.

A ben vedere anche qui si ripropone una fondante base allegorica la cui lettura non è di sicuro complessa: c’è l’idea di un’Europa satellitare che cerca il congiungimento in un’Europa a sua volta divisa (la miccia narrativa è appunto una scissione tra valloni e fiamminghi), e nella confusione politico-geografico che regna si staglia comunque un afflato umano che Peter e Jessica centrano come forse non erano mai riusciti in carriera, con semplicità e senza inutili piroette. La materia “umana” riguarda anche il soggetto principale, ovvero il Re del Belgio, a sua volta simbolo (eh sì…) di un potere-marionetta che trova nel viaggio (come da manuale di ogni on the road che si rispetti) nient’altro che se stesso (ci sono parecchi indizi che lo sottolineano fino alla frase conclusiva), vi è, inoltre, un possibile duplice canale traslativo di storia + attualità all’interno della diegesi, da un lato vedendo la goffaggine del Re sembrano evidenti i richiami ad una situazione belga dove la classe amministrante ha avuto non pochi problemi negli ultimi anni (nel 2010 il Belgio è stato quasi un anno e mezzo senza governo ufficiale), mentre dall’altro, osservando il percorso dell’improbabile quartetto diplomatico partito dalla Turchia direzione Europa è pressoché immediato pensare alle tratte della migrazione contemporanea che tante persone ha portato in quei territori, ed il fatto che ‘sta volta ci siano i funzionari di un piccolo, ma ricco, Stato del Vecchio Continente è una trovata che sa andare anche un pelo oltre la superficiale simpatia.

Come si noterà pure in Un re allo sbando c’è dunque un substrato zeppo di metafore, non so se ciò sia una questione da inserire tra i pregi o meno ma se non altro, rispetto al passato, la cosa non urta troppo in virtù dei toni meno tronfi, di contro il film ha degli evidenti limiti, se si pensa al dispositivo mockumentary con il filmmaker inglese allora è meglio… non pensarci perché il rischio che ci cadano gli arti superiori è alto, e pure sullo stretto piano sceneggiaturiale si ha l’impressione che si proceda tra momenti ok ed altri maggiormente zoppicanti (in Serbia l’incontro casuale col tiratore scelto è proprio forzato). In conclusione, osservando lo spettro completo degli attributi negativi e positivi, si profila una senzainfiamiasenzalodistica sufficienza.

Chicche intrafilmiche: una volta in Bulgaria scorgiamo dietro il gruppo folk il monumento sovietico di Buzludzha visto in Homo Sapiens (2016), e poco dopo ecco comparire un gruppetto di tizi che indossano il buffo costume peloso di Vi presento Toni Erdmann (2016).

lunedì 24 luglio 2017

0cm4

Sommerso dalle travolgenti onde dell’oceano-Sono, 0cm4 (2001) è un piccolo corto di cui si potrebbe anche fare a meno, però, e ora mi rivolgo soltanto agli affezionati del regista giapponese, anche qui possiamo rintracciare alcuni segnali stilistici che sebbene non aumentano il gradimento della visione in un qualche modo fa piacere che ci siano. La storia del protagonista daltonico che vede il mondo in bianco e nero e che decide di tenere un videodiario durante i giorni che lo separano dall’operazione, diventa un’occasione per riversare nel breve tempo a disposizione una notevole quantità di tic personali: già la forma diaristica annessa all’attesa del verificarsi di un evento importante riporta a Keiko desu kedo (1997), inoltre abbiamo l’insistere su una scena dove il ragazzo, sdraiato sul pavimento di una stanza mentale tutta colorata, è ossessionato dal trillare di una sveglia, questo, oltre a suggerirci un possibile avvicinamento al ridestamento “ottico” vissuto con rabbia/preoccupazione, è una lampante citazione del primissimo oggetto non identificato di Sono, Love Song (1984), dove si ripresentava una situazione identica. Ma chiaramente la questione che salta più all’occhio è, ancora una volta, il tentativo di aprire una parentesi meta all’interno dell’opera, e pur trovandoci in una situazione ridotta ai minimi termini, 0cm4 offre comunque uno studio di film-nel-film in cui la presenza di dozzine di telecamere atte a fungere da protesi oculare per l’uomo diventano un meccanismo ludico che svela i dispositivi tecnici. Sull’argomento rivolgersi a Into a Dream (2005) e ovviamente a Why Don’t You Play in Hell? (2013).

Al di là della constatazione di un discorso poetico più o meno continuo nella carriera di Sono che mi rendo conto monopolizza gran parte dei pensieri che scrivo sul giapponese, 0cm4 accenna a tematizzare l’idea interrogante su chi, tra un daltonico e il resto delle persone “normali”, vede il mondo nella maniera corretta. Il dubbio, instillato da una rapida riflessione del protagonista, resta, come prevedibile, privo di un degno sviluppo, si preferisce optare per sequenze un po’ strambe arrangiate così così (così: non eccelse per estetica) costantemente accompagnate da un tappeto musicale davvero bruttino che confluiscono in un finale microscopicamente aperto e forse non privo di una punta d’amarezza.

venerdì 21 luglio 2017

Giro di lune tra terra e mare

Primo lavoro di finzione per Giuseppe Mario Gaudino, autore pressoché sconosciuto, almeno fino al secondo film che giungerà molti anni dopo (Per amor vostro, 2015), dove si mette in pratica un’idea di cinema che punta ad una sorta di massimalismo. È già la struttura a non presentarsi in modo singolo, unitario, Giro di lune tra terra e mare (1997) è infatti un’opera duplice che scorre su due parallele che non si incontrano all’infinito, ma a Pozzuoli, luogo di nascita del regista e teatro di un testacoda spazio-temporale. Il primo blocco della pellicola si occupa di quella che potrebbe essere definita *la realtà* col ritratto consanguineo di una famiglia patriarcale del sud, con gli scontri generazionali (la rabbia del figlio durante un’occasione prandiale tocca), e le vicissitudini tragicomiche (i continui traslochi che recidono di volta in volta le possibili radici), il secondo blocco invece mira più in alto astraendosi dalle spire della logicità, Gaudino ricrea un quadro para-storico che riguarda personaggi del passato avvolti dal mito connessi in qualche modo con Pozzuoli come Agrippina o la Sibilla. Il profilo del film è perciò bifronte ma ciò non è tutto perché in aggiunta abbiamo anche filmati d’archivio relativi a, presumo, un vecchio terremoto e se addizioniamo una variegata e spesso presente colonna sonora ecco che Giro di lune tra terra e mare diventa un perfetto manifesto anti minimalista, bisogna “solo” ragionare se così tanti elementi riescono a raggiungere una convincente stabilità.

Ad un tale quesito mi sento di rispondere no, Gaudino non riesce ad equilibrare la mole di roba che erutta dal suo film e questo perché al di là di essere un prodotto molto autobiografico è anche un manufatto autoctono legato linguisticamente (per i non napoletani sarà difficile comprendere la portata narrativa, anche perché buona parte del flusso verbale avviene fuori campo) e culturalmente (la storia del compositore Pergolesi e chissà quant’altri rimandi non colti) alla terra d’origine. Una chiusura del genere impedisce allo spettatore non puteolano un’appagante invasione reciproca, è strano perché molto spesso capita che è proprio in visioni ruvide e centrate sul micro che possono spalancarsi voragini macro, ma per chi scrive non è questo il caso, tuttavia il problema non è tanto il percepibile senso di appartenenza del film alla zona geografica, perché è un fattore ammirevole oltre che legittimo, quanto l’inconciliabilità pratica del doppio binario citato nel primo paragrafo, ché sulla carta andrebbe anche bene visto l’accento bizzarro che somministra, nei fatti però il continuo rimbalzare da un mondo all’altro porta la proiezione sui centoventi minuti e quando il soggetto principale non è la famiglia del pescatore ci si smarrisce in ciò che è il pallido tentativo di un autorialismo. È plausibile la non eccellenza dei mezzi a disposizione (però a produrre c’è la RAI e la potentissima ZDF e nelle vesti di direttore della fotografia Tarek Ben Abdallah, collaboratore di Davide Manuli), mentre ciò che a distanza di vent’anni rimane è l’ambizione di Gaudino, che poco poco non è.

mercoledì 19 luglio 2017

There Is No Sexual Rapport

C’è un nome accreditato come il regista di Il n’y a pas de rapport sexuel (2011), si tratta di Raphaël Siboni, videoartista francese (qui il suo sito ufficiale), ma è evidente che l’unica mente dietro tutto questo sia HPG, al secolo Hervé-Pierre Gustave, vulcanico attore/regista di intrattenimento per adulti con cammei anche in manifestazioni cinematografiche fuori, ma non completamente, dal circuito a luci rosse (si veda Baise-moi – Scopami [2000] e Le pornographe [2001]), il quale per la bellezza di dieci anni ha ripreso con una videocamera posta su un treppiedi i vari set hard delle sue scene cogliendo quello che riguardava le performance ed i correlati making of, il risultato condensato in ottanta minuti di girato si modella in un particolare trattato su ciò che lo spettatore intende come Reale. Grazie alla raffigurazione del dietro le quinte compiuta da HPG e alla messa in sequenza con una logica da parte di Siboni (il finale è proprio un finale, il signor Gustave, stremato come il suo attore, getta il film in uno scomodo silenzio), l’opera di smascheramento che contempla trucchetti e piccoli bluff ridetermina le dinamiche fruitive di colui che guarda poiché anche un territorio come questo, un territorio che si penserebbe incontaminato e dove ciò che accade è effettivamente ciò che è, si rivela invece ammantato di una finzionalità che giunge in taluni frangenti, esattamente come ci ricorda il titolo, a camuffare l’atto sessuale che nella concretezza non esiste.

Il film è rilevante sul rapporto esplorabile all’infinito tra reale e non reale, ed il fatto che venga affrontato per mezzo di un approccio pornografico non può far altro che impreziosire il substrato concettuale dell’opera. D’altronde è chiaro che la singola lettura porno-backstage è troppo deprezzante poiché di esempi del genere ne è piena la Rete, Siboni e quindi HPG fanno un passo ulteriore che è quello di interrogarci in merito alla componente mistificante del cinema e quindi della regia, della sceneggiatura, della recitazione, elementi che qui sono ridotti alla basicità ma che forse, proprio perché calati in un contesto talmente crudo da sfiorare l’essenziale, spiccano per la loro immediatezza. La metodologia di HPG è in miniatura la stessa di qualunque altro regista di fiction che dirige i suoi attori e che rigira una scena fino a quando non incontra il suo gradimento, la mano così pesante di un demiurgo che fa e disfa, la correlata Rappresentazione nemica della Realtà, la simulazione di atti e gesti (in questo caso di natura erotica) e l’apatia umana prima del ciak, sono tutte questioni aperte che seminano dubbi sul mio personale status di persona-che-guarda-film, e ben venga allora una riflessione proveniente da un campo che notoriamente non ha mai offerto nulla se non il meccanico riempimento degli orifizi del corpo umano.

lunedì 17 luglio 2017

Jacco's film

Più che un cortometraggio, un piccolo scrigno su cui il cinema narrativo dovrebbe buttare un occhio, anzi due, e comprendere che per fare dell’intrattenimento intelligente bisogna adoperarsi un minimo nel ravvivamento della scrittura, qui non si parla di alta settima arte, no, Jacco’s film (2009) potrebbe essere un onesto prodotto da sala qualunque, con la differenza che all’uscita della suddetta l’istinto di asfaltare il botteghino per riavere indietro i sudati denari sarebbe sopito da quanto si è potuto vedere: un prodotto “divertente” che non trascende niente, che fa leva sull’inezia che lo forma e che non si conforma troppo alle leggi soverchianti. Daan Bakker ha quel tanto di materia grigia che basta per far compiere un gesto semplice durante la fruizione, quello del sorriso che ogni tanto fa capolino sulla nostra faccia, e le motivazioni così semplici ed immediate da rintracciare fanno sorgere interrogativi che si riversano sugli ingranaggi del mainstream: troppe storie tutte uguali e soprattutto troppi modi di raccontarle identici. Si diceva delle motivazioni: l’olandese, praticamente un neofita della regia con nel curriculum personale un paio di sceneggiature scritte per altri, è molto bravo a dare un tono effervescente al film che, già col genitivo sassone del titolo, rivendica la chiara appartenenza dell’opera: Jacco è un bambino e come tale la percezione del mondo che lo circonda è filtrata dal proprio sentire, Bakker, in sostanza, non fa che assecondare un tale punto di vista adeguando il cinema alle necessità delle varie situazioni.

In quindici minuti di girato gli ornamenti estetici abbondano e rivelano una vitalità che non conosce momenti di vuoto, esattamente come la vulcanica mente di Jacco sempre pronta a diffondersi liquidamente in ogni direzione percorribile (dalla zoologia alla geografia passando per l’ingegneria), tanto che Bakker arriva perfino a consegnare al bimbo le chiavi per accedere al mezzo di trasmissione, per riavvolgerlo e risemantizzarlo a piacimento, ed ecco quindi che una furibonda lite tra i genitori si deforma, sotto la sua ingenua lente, in un buffissimo elogio verso il figlioletto che palpita in quel contrasto di cui abbiamo piena consapevolezza: tra la realtà dei fatti e la corrispettiva deformazione. La crisi genitoriale è il vero sottotesto poiché Jacco’s film parla anche di uno spaccato famigliare con padre disoccupato dipendente dalle macchinette e madre esasperata dalla triste quotidianità, ma grazie alla possibilità di farci entrare nell’ottica infantile (e quindi molto più leggera, incantata e colorata di quella adulta) il film non scade in qualche pericoloso –ismo, al contrario ci beffa!, nell’unico istante in cui pare che la vicenda si rabbui, Jakko, il vero regista della storia, con un azione! fa ricominciare tutto gioiosamente da capo.
Indubbiamente un film che piacerebbe a gente come Jaco Van Dormael o Wes Anderson.

giovedì 13 luglio 2017

Okja

La speranza era che le traiettorie registiche di Bong Joon-ho si orientassero più verso opere come Memorie di un assassino (2003) o Madre (2009) piuttosto che The Host (2006) e Snowpiercer (2013), ma l’impressione è che il regista sudcoreano, già in passato maggiormente vicino ad una certa mentalità mainstream rispetto ad altri colleghi connazionali (anche più di Kim Jee-woon a mio avviso), preferisca lavorare con budget stratosferici, attori famosi e troupe ingenti per partorire poi il classico topolino della montagna, perché Okja (2017), suvvia, è proprio questo, una massiccia ridda di situazioni e personaggi che poi si risolvono in una bagatella confezionata ad hoc. Libertà assoluta ora e sempre per chiunque ha scritto “regista” alla voce “professione” sulla carta di identità, ma a quale prezzo per noi spettatori? Il mero prezzo non è nemmeno quantificabile visto che il film sotto esame non dovrebbe venir distribuito nella sale (almeno quelle italiane) ma solo sulla piattaforma di Netflix, tuttavia il prezzo concettuale è invece a portata d’occhio e ci delinea un quadro che chi scrive trova un po’ scoraggiante, cioè: è una storia, il che potrebbe essere già un problema, ma proseguiamo: è una storia stereotipata, dicotomizzata e disneyana, quindi sì, i problemi sono grossi: stufa un film così perché stufa una strutturazione così elementare degli ingredienti in gioco, e alla schematizzazione si aggiunge a rimorchio la prevedibilità, quanto accade è precedentemente accaduto o sarà lì pronto per farlo, nella stessa pellicola o in un’altra, che poi è la stessa roba. Può andare qualunque cosa nel campo dell’intrattenimento, anche un eccesso di forzature sceneggiaturiali (tipo Mija che entra con disarmante facilità nel mattatoio) e risoluzioni narrative (come quella finale che salva il super-suino, da brividi, in negativo ovviamente), ma non un plateale adagiamento sui modelli precostituiti del bene vs. male e di un’annessa caratterizzazione convenzionale dei soggetti interessati.

Alla fine della favola (cosa che Okja è) se i vari comparti costituenti possiedono un nucleo banale anche la controparte sottotestuale si inaridisce, che a dirla tutta non è neanche tanto “sotto” qui, gli intenti di Bong sono chiari dall’incipit con la caricaturale (ed anche wesandersoniana) presentazione della multinazionale capitanata da una Swinton sopra le righe seguita a ruota da un bizzarro Gyllenhaal, il mantra che da lì si dispiega è un continuo strizzare l’occhiolino che non smette di rimarcare l’inefficienza di quelle politiche commerciali irrispettose degli animali, della natura e via dicendo. Non è un contenuto che si potrebbe definire illuminante. C’è poi un piccolo paradosso che attraverso una valutazione ex post viene a crearsi: Bong punta il dito contro la Mirando e i suoi metodi di produzione, però, se ragioniamo in modo più ampio, con il suo film non fa che seguire i medesimi canali della Società statunitense: Okja è il prodotto di uno sforzo multiculturale dato in pasto al pubblico una volta terminato e diretto da una persona con una squadra di collaboratori alle spalle, sicché ogni passaggio in streaming diviene un pezzetto di maiale che arriva sulle nostre tavole (/schermi), ne deriva che questo cinema pur bollando i cicli produttivi della globalizzazione se ne avvale a sua volta per esporsi al mondo intero. È un cortocircuito forzato da un’interpretazione troppo ostile? Lascio la risposta aperta per sottoporne subito un’altra: cosa poteva fare Bong per essere davvero incisivo? In un mondo ideale avrebbe potuto operare lontano dai riflettori sfornando un oggetto a suo agio nell’ipotetico sottobosco della denuncia, è pura utopia, lo so benissimo, in realtà non so cosa avrebbe dovuto e potuto fare, magari proprio un’altra tipologia di film, come una commedia pura ad esempio, d’altronde Joon-ho ha sempre saputo integrare bene le parentesi comiche all’interno di altri registri (la fusione con il crime l’abbiamo apprezzata tutti nei tempi che furono), ed ora, dopo le sortite a stelle e strisce, poteva riacquistare una dimensione più ammirevole con un lavoro in stile Cane che abbaia non morde (2000)... ancora un’utopia, lo so.

lunedì 10 luglio 2017

Pelle

Chi sono i veri mostri? La prospettiva che la stagionata e denudata entraineuse suggerisce nell’incipit è quella per cui bene o male siamo tutti dei mostri, la donna infatti dice: “l’essere umano è orribile ma non possiamo farci nulla perché l’orrore siamo noi stessi”, è un vecchio discorso, iniziato tanti anni fa dallo zio Tod (Browning) e proseguito tra ondate esploitative (John Waters) e punte autoriali più recenti (a Seidl è sempre piaciuto frontalizzare il marciume degli insospettabili), insomma chi è il mostro? Il normale o il diverso? Io oppure tu? Al dibattito si aggiunge la voce del madrileno Eduardo Casanova, uno di cui si sentirà probabilmente parlare in futuro, e non tanto per il suo fondamentale apporto al mondo del cinema che non è affatto tale, quanto per il tasso di provocazione che scalda un po’ tutta la sua carriera fatta di molti corti e dell’esordio qui sotto esame, c’è dunque un filo politicamente scorretto che lega le sue produzioni e che non poteva che approdare in Pieles (2017), un porto che si fa condensazione d’orientamento artistico: il tema del reietto ha sempre stimolato Casanova (prendete uno degli shorts precedenti e ne avrete la conferma) al pari di una messa in scena oculata nel dosaggio cromatico (idem come sopra), sembrerebbe di trovarci di fronte ad uno “stile”, ad un apparato estetico che desterà l’attenzione di molti. Ci sta, d’altronde il regista si prodiga alla grande nel rendere il canale formale più seducente possibile e quindi è plausibile che nell’osservare la fine distribuzione dei colori (il rosa confetto è quasi un’ossessione, era infatti già presente in Jamás me echarás de ti, 2016) o nell’annotare la sintassi visiva decisamente pop costellata da partentesi musicali, ci si lasci andare ad elogi forse anche meritati, si parla, però, di patina esterna, la parte maggiormente immediata e assorbibile di un film, sotto, nel catino dei significati, la zona cruciale per tutti i prodotti legati alla narrazione, che cosa bolle?

Bisogna ritornare alla domanda di partenza srotolata attraverso una coralità che lentamente rivela il proprio nucleo: non si salva nessuno, eppure in qualche modo si salvano tutti. Il depliant di mostruosità (fisiche e non) è già evidente dall’inizio: un neo-padre preferisce soddisfare le sue perversioni piuttosto che assistere alla nascita del figlio (ed il risultato di tale assenza si realizzerà tragicamente nel futuro), non è comunque un processo verso i non-freak in quanto anche la persona normale in Pelle subisce una sconfitta (il povero Ernesto piantato dalla fidanzata merrickiana) oppure sa redimersi e cerca di riparare alle azioni cattive commesse (la cameriera obesa ed il furto degli occhi-diamanti). È in sostanza il caos della vita e personalmente ho apprezzato che Casanova non si sia sbilanciato nell’apologia di una o dell’altra categoria, non sarebbe stato l’habitat adeguato del resto, Pieles essendo un impasto di registri che esacerbano la commedia fino a picchi di trash assoluto (dài, la fellatio... anale è praticamente una roba da Troma), possiede quella cifra del-non-prendersi-troppo-sul-serio-pur-dicendo-cose-sottosotto-serie che farà anche riflettere un minimo oltre l’intrattenimento sebbene quel minimo non sia sicuramente sufficiente da poter oltrepassare l’epidermide. La pelle, appunto. Ne consegue per il sottoscritto che un oggetto come questo, strutturato per infrangere le etichette della morale, divelga al massimo il piccolo recinto in cui è arginato, che è il cinema della mera rappresentazione, ci si diverte (anche se con alcuni squilibri: la vicenda della nana che dà il corpo ad un cartone animato è un po’ troppo estranea al resto) e si rispetta l’impegno di Casanova (foraggiato da de la Iglesia), divertimento e rispetto sono però due elementi che non bastano a rendere concretamente gravida una visione. Ah, si prevedono massicci accostamenti a Xavier Dolan.

venerdì 7 luglio 2017

Diagnosis

Si annusano delle mancanze di fondo in Diagnoz (2009), questioni che in modo ben poco professionale non mi va nemmeno di sviscerare, in estrema sintesi si tratta di una serie di difetti rintracciabili in molte produzioni di esordienti o simil tali quale Myroslav Slaboshpytskiy era al tempo della sua partecipazione a Berlino ’09. In rapporto all’appena successivo Deafness (2010), ma anche a Nuclear Waste (2012) e al debutto nel lungometraggio The Tribe (2014), Diagnosis, al netto di comprensibili imperfezioni, si pone come adeguato predecessore dell’impianto drammatico che il regista ucraino sta tuttora perseguendo. Va ricordato però che in questo cortometraggio il ricorrere ad una normale dialogicità esercita l’allineamento ad un cinema che, detto proprio in modo risoluto, non sconvolge, reazione opposta di quanto Slaboshpytskiy aveva in mente. Si profila un esempio di come la letteralità insita nella prassi filmica qui sottoforma conversativa accresca la mole di informazioni che lo spettatore deve ricevere ed elaborare senza che questo si trasformi in un risultato completamente positivo. Ritorna sempre, dunque, il discorso per cui il sapere troppo, indottrinato dalla sceneggiatura, significa ridurre il livello emotivo/celebrale di chi assiste. Credo che un esempio solare possa essere supportato dalla tesi per cui Deafness, corto se vogliamo più asciutto ed essenziale, sappia tendere una sottile corda tensiogena proprio perché vi è l’espulsione di ogni forma comunicativa verbale: non sapendo i perché (cosa hanno fatto quei ragazzini?) gli esiti (il pestaggio) sono molto più investenti.

Ritornando a Diagnoz mi preme evidenziare ancora la prospettiva che diverge dal lavoro appena susseguente. La mole descrittiva dello scenario trasmesso oltre che non essere così inimmaginabile espone una massiccia quantità di dati necessari a colmare ogni minimo dubbio personale: il degrado, la tossicodipendenza, l’assenza di speranza, anche se solo in un quarto d’ora tutto è illustrato a puntino. Lo squadernamento della narrazione si rivela poi l’escamotage per far sfociare il film nel proprio tragico apice, sembra che quanto presentato fino a quel momento non sia che un piedistallo adibito a mettere in luce la brutalità dell’infanticidio. Oh, chiunque ha un cuore soffrirà umanamente nel vedere l’insensata azione dell’uomo, e ciò grazie anche a Slaboshpytskiy che hanekianamente riprende frontalmente (ma da dietro il vetro dell’ostetricia) l’assassinio, comunque sia non è abbastanza, la sensazione è che ci sia poco spazio attivo per noi nel desolato dipinto di Slabo, e al pari degli infimi prodotti che calibrano la propria gittata per sorprendere con il finale (prodotti di cui Diagnoz non fa parte), anche il secondo lavoro del regista di The tribe non crede più di tanto nelle potenzialità del cinema preferendo infilare la testa nelle sabbie mobili del racconto.

mercoledì 5 luglio 2017

Angel's Fall

Il film che precede la trilogia di Yusuf è un’opera obitoriale, uno specchio inchiostrato con un liquido che, alla fine, non può che essere il sangue. Melegin Düsüsü (2004) di Semih Kaplanoğlu si prende tempistiche e spazi consoni ad uno spettatore paziente, che sa riconoscere nell’attesa (spesso vana) il vero nucleo significativo, certo la pellicola sotto esame fa pur sempre parte di un cinema narrativo dipendente dai nessi, dalle cause-effetto, tuttavia Kaplanoğlu affidandosi ad uno stile che ricorda un poco talune correnti centroeuropee (sottrazione, glacialità, lontananza: Haneke), inietta nel rigor mortis del film delle piccole scosse rivitalizzanti a partire dall’incipit, probabile quadro metaforico in cui versa la povera Zeynep, per proseguire con un racconto in ellissi che scompagina l’andamento liturgico, sono dettagli quasi impalpabili, bisbigli appena oltre il silenzio diffuso, eppure il procedimento con cui veniamo a conoscenza delle vicissitudini di Selçuk obbliga ad una revisione poiché deviante inaspettatamente dall’ordinario, bisogna stare attenti però, il rischio di non cogliere si deposita in particolari come la valigia che scorre sul fiume o allo “strano” riflesso della protagonista una volta liberatesi dal suo macigno esistenziale. Quindi, un complimento a Kaplanoğlu è dovuto, la capacità di essere riuscito ad innervare una storia iper-concreta con alcuni risvolti astratti va annotata sotto il segno +.

Quanto appena detto deve comunque fare i conti con la natura stessa di Angel’s Fall. Perché attraverso uno sguardo globale e collocando il film in un settore dove ad ogni modo è la linearità a sostanziarne l’ontologia, si palesa l’impossibilità di sorprendere poiché è proprio un’opera del genere che affidandosi agli ancorati meccanismi affabulatori fornisce delle premesse a cui seguiranno prevedibili accadimenti. Nello specifico è la situazione di Zeynep, discretamente resa, per carità!, ad attirarsi delle mire di predizione, l’evidente impraticabilità per la ragazza di proseguire una tale sottovita comporta delle costrizioni sceneggiaturiali dove ad un evento inatteso corrisponde il cambiamento auspicato, che poi Kaplanoğlu concerti il tutto con sicurezza è cosa buona, d’altronde la triste litania che unisce indirettamente due forme diverse di solitudine segue un arabesco tanto semplice (la valigia) quanto intelligente (la culla che ha portato libertà diventa tomba… galleggiante), il fatto è che già ex ante, ancor prima di registrare il dipanarsi della faccenda, era pronosticabile la narrazione così strutturata. Ad una impostazione che segue binari riconoscibili a distanza io mi oppongo educatamente, non è affatto un “brutto” film Melegin Düsüsü ha solo la colpa di essere concettualmente uguale a migliaia di altri che sono venuti e ad altrettanti migliaia che verranno.

lunedì 3 luglio 2017

Palácios de Pena

Prima di qualunque addentramento interpretativo mi preme sottolineare quello che secondo il mio superfluo parere conta di più, ovvero la capacità insita in Palácios de Pena (2011) di rimandare, leggi: trasportare, in altri “stati” percettivi arrivando, in taluni frangenti, ad una sospensione dell’oggetto filmico che staccatosi dal suolo dell’ordinario ha le potenzialità per espandersi in qualunque direzione concepibile. Forse questa dilatazione non arriva a compiersi del tutto, certo è che il mediometraggio di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt, due che collaborano da tempo e che qui sono presenti nelle vesti di antichi cavalieri, si distingue per il suo farsi recipiente pressoché inesauribile di suggestioni, e nel fondersi con i registri più disparati (il teen movie ingravidato dal film in costume) manifesta un cinema che banalmente definirei vivo perché non soffocato da politiche ammaestranti, perché generatore di molti dubbi e zero risposte, perché oggetto tendente alla ricerca visiva con susseguente appagamento ottico. Se non bastasse, Abrantes e Schmidt che ben incarnano il sempre interessante movimento portoghese, probabilmente uno dei migliori a livello artistico, sanno fare propri degli accenti appartenenti ad altri autori più conosciuti di loro, si badi che ci si riferisce sempre a stimolazioni sensoriali prive di tracce empiriche, eppure la lampadina che si è accesa nella prima parte ha evocato la figura di Reygadas e in seconda battuta quella di Aguilera (Naufragio, 2010), anche se nel prosieguo il riferimento che mi sembra emerga con più vigore è quello di Miguel Gomes che comunque nel 2011 non era ancora salito alla ribalta cinefila ma che tuttavia aveva già fatto intravedere scampoli di uno studio stralunato.

Citazioni, nessi, somiglianze ma anche un’indipendenza forte, un’estetica mai scontata e una noncuranza nei confronti dello spettatore: Palácios de Pena possiede tutte le caratteristiche per essere un film che oggi, nel 2017, voglio vedere. E sottolineo il verbo vedere perché sulla correlata comprensione ci si può anche impegnare ma senza che sussista una qualsivoglia obbligatorietà, la libertà del cinema deve stare anche (e soprattutto!) nella possibilità di un apprezzamento che non significhi per forza “capire-tutto”. Ad ogni modo: è possibile intender il film di Abrantes & Schmidt come un film sul Portogallo d’oggi, e al di là dell’ovvia constatazione ci sono elementi tangenti la metafora che pur disorientandoci riescono a comunicare uno scenario che parrebbe in transizione, e lo palesa già la Nonna, probabile incarnazione della Nazione, così anziana e dai modi a tratti sciamanici eppure con in mano un iPad; il passaggio temporale, che si avvale di una parentesi onirico-medievale scollata solo in apparenza dove viene tracciato un fulminante quadretto storico di omofobia e persecuzione, trova catarsi nell’annesso passaggio di consegne dalla nonna verso le due cugine protagoniste di una bislacca faida personale. La nuova generazione è segnata da opposizioni interne e da scorie del passato non del tutto eliminate (il monologo della ragazzina nel quale si afferma che lei [a chi si riferisce?] è una super razzista e che odia gli asiatici), e allora mentre le fiamme si alzano minacciose l’ultima inquadratura è lì a chiederci chi salverà il Portogallo dal fuoco.

E se così non fosse amen, l’importante è Vedere.