Peter Brosens e Jessica Woodworth al loro debutto: il primo, nato nelle Fiandre ma globetrotter nell’animo, dopo un documentario girato in Ecuador nel ’92 si è recato in Mongolia dove ha diretto altri tre documentari; la seconda, nata negli Stati Uniti, in seguito a dei lavori per la tv ad Hong Kong e Pechino si è trasferita per un progetto personale ad Ulan Bator. Anche se non ho trovato riscontri, è probabilmente qui che i due si conobbero e decisero di ordinare le proprie visioni/esperienze per indirizzarle in un lavoro come Khadak (2006), contenitore di molteplici suggestioni, equilibrista sfrontato, diga tremolante. Indubbia è la qualità estetica dell’opera che sotto l’egida di tal Rimvydas Leipus (uno che in passato ha prestato servizio alla corte di Sharunas Bartas) esalta gli scorci paesaggistici conferendo un’aria che si tinge di favola, una specie di Tarsem meno mainstream, dove la steppa mongola acquista sfumature di intensa bellezza. E la bellezza, quella che colma l’occhio, è più che presente in Khadak manifestandosi in modo proteiforme, dal movimento della mdp che avvolge la ragazza sul tetto, ai segmenti slegati con la vecchia sciamana, passando per piccole pepite disseminate lungo il percorso, e ultimo in ordine di apparizione è quel rivoletto d’acqua che magicamente inizia a scorrere dall’albero.
All’apparato visivo risponde però un respingente vuoto narrativo. Magari Brosens & Woodworth avevano nella loro testa un’idea di come sarebbe dovuto essere il loro film, su quali temi avrebbe dovuto vertere, che cosa avrebbe dovuto raccontare, ma nell’atto di esposizione si registrano delle falle che compromettono quanto di accattivante c’è da vedere. Fondamentalmente non si capisce quale sia la direzione che il film dovrebbe prendere, la polpa è talmente tanta che alla fine sembra essere niente: storytelling popolare con tinte epiche/eroiche? Denuncia eco-animalista? Ritratto di una rivoluzione inusuale? Raffigurazione decentrata di una malattia (l’epilessia)? Storia d’amore non convenzionale? Il fatto che Khadak sosti in questi interrogativi senza riuscire a soddisfarli indica una notevole dispersione di potenziale, il mix argomentativo non è concertato a dovere e sembra più in preda ad una rapsodia vaneggiante che ad un minimo di razionalità che ci faccia raccapezzare almeno un minimo, gli ultimi venti minuti, ad esempio, sono un crescendo prossimo al delirio. Il sottoscritto non è di certo uno che si indigna di fronte ad un’assenza di concetti, anzi in molti casi si è professato un adulatore dell’Immagine come Senso, ma non questa volta: semplicemente, l’estetica non regge il peso della visione, ciò che eccede è solo confusione, insofferenza e un po’ di tedio.
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