Non
c’è più acqua, il sangue però non manca.
Iniziata
(benino) nel 2005 (Contracuerpo) la trilogia A contraluz è
poi proseguita (calando) due anni dopo con Alumbramiento e si
è conclusa (maluccio) nel 2008 con The End, nomen
omen che non ha niente di così definitivo nei confronti
del trittico, infatti i tre corti presentano un’alta dose di
reciproca eterogeneità che li rende totalmente indipendenti
sia per argomenti che per stile di rappresentazione, per cui la
portata di quest’ultimo lavoro di Chapero-Jackson non ha granché
di ultimo se non per motivazioni intrinsiche a ciò che
narra o a questioni prettamente numerologiche. Insomma, al cospetto
della tripletta The End si pone alla conclusione solo perché
arriva dopo gli altri due, la cifra teorica che lo vorrebbe come
pietra tombale di un percorso di studio non si realizza porgendo altresì il
fianco ad una serie di inevitabili critiche.
Rispetto ai suoi colleghi
The End non centra il tema di riferimento, la fatica nel
tentativo di proporlo è sintetizzata da un andamento
prevedibilissimo che vaga tra i generi (dalla fantascienza al
western) perdendosi ben presto come la famigliola assaltata dai
farabutti. La faccenda dell’acqua diventa un pretesto di sfondo che
il regista utilizza per dettare in modo banale quanto e come possa
diventare bestiale l’essere umano in situazioni di difficoltà,
e ciò potrebbe andare bene se non fosse che nell’illustrare
tale ferocia (si fa per dire) il corto sfiora vertici di ridicolo
involontario prodigandosi in sparatorie con annesse uccisioni e
immediate vendette. Non si capisce davvero dove voglia andare a
parare Chapero-Jackson, la fermezza nell’inscenare e nell’ostentare
il dramma finisce, come di consueto, per sortire gli effetti
contrari, pertanto la conclusione trascinata all’esasperazione dei
toni fa auspicare al più presto l’entrata della scritta su
sfondo nero che costituisce il titolo.
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