Vacanza pre-matrimoniale
in Georgia, le cose non andranno granché bene.
Pur non essendo un film
convenzionale, The Loneliest Planet (2011) di Julia Loktev si
presta ad una lettura dei propri intenti troppo ma troppo semplice. È
qui che giace il problema più urgente di quest’opera
presentata a Locarno, perché di difetti, più o meno
grevi, ce ne sono anche altri e possono essere così elencati:
la scrittura dei personaggi rivela una friabilità
preoccupante, nessuno dei tre attori in scena (la guida non è
un professionista) ha un guizzo che va oltre il preconfezionamento,
la suddivisione ruolistica e l’impianto relazionale (lui, lei,
l’altro) sono lapalissiani e di un’esiguità che non
permette ispezioni spettatoriali; c’è poi una vera e propria
pochezza narrativa che la regista non riesce a gestire a dovere, o ti
chiami Dumont (alla lontanissima può ricordare Twentynine Palms, 2003) oppure il rischio di inabissarsi sotto i colpi di un
incombente vuoto pneumatico diventa una concreta possibilità.
Ma la ferita che mostra tutta la sua immedicabilità risiede
nell’assetto compositivo del film, la bipartizione, con ciò
che accade nella seconda porzione in relazione alla prima, è
un escamotage non particolarmente felice poiché investito
automaticamente di una certa prevedibilità, è infatti
chiaro che dopo sessanta minuti in cui rose e fiori ornano il legame
della coppia (che peraltro risulta un po’ antipatica), i successivi
sessanta non potranno che fare da contraltare alla faccenda.
Tralasciando la posticcia apertura della guida verso il finale e le
brusche avances della suddetta, è praticamente immediata la
dimensione concettuale della pellicola: non si tratta di una normale
vacanza a contatto con la natura, o almeno non solo, bensì il
tipico viaggio interiore che punta all’esplorazione sentimentale,
una congettura, questa, intuibile dalla visione del trailer.
Non è però
tutto da buttare a mio avviso. La Loktev tenta comunque la strada di
un cinema che pur avendo molte pretese sa esporre una dignità
artistica che allontana la débâcle totale. Condivido
quanto scritto da Giovanni Ottone (link) sulla somiglianza formale
con i lavori di Kelly Reichardt vista l’uguale tendenza a
considerare il Tragitto come zona di transitorietà fisica e
soprattutto psicologica, che poi Julia Loktev si smarrisca durante
il cammino perdendo l’efficacia della collega è un discorso
che sono il primo a sottoscrivere. Detto questo, se il film non sarà
digerito nemmeno sotto il piano dell’intraprendenza, a restare c’è
l’incontestabile bellezza dei luoghi ripresi che tra prati
smeraldo, cascate fluenti e rocce millenarie, mitiga un goccio
l’insoddisfazione generatasi dalla proiezione.
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