venerdì 27 maggio 2016

The Loneliest Planet

Vacanza pre-matrimoniale in Georgia, le cose non andranno granché bene.

Pur non essendo un film convenzionale, The Loneliest Planet (2011) di Julia Loktev si presta ad una lettura dei propri intenti troppo ma troppo semplice. È qui che giace il problema più urgente di quest’opera presentata a Locarno, perché di difetti, più o meno grevi, ce ne sono anche altri e possono essere così elencati: la scrittura dei personaggi rivela una friabilità preoccupante, nessuno dei tre attori in scena (la guida non è un professionista) ha un guizzo che va oltre il preconfezionamento, la suddivisione ruolistica e l’impianto relazionale (lui, lei, l’altro) sono lapalissiani e di un’esiguità che non permette ispezioni spettatoriali; c’è poi una vera e propria pochezza narrativa che la regista non riesce a gestire a dovere, o ti chiami Dumont (alla lontanissima può ricordare Twentynine Palms, 2003) oppure il rischio di inabissarsi sotto i colpi di un incombente vuoto pneumatico diventa una concreta possibilità. Ma la ferita che mostra tutta la sua immedicabilità risiede nell’assetto compositivo del film, la bipartizione, con ciò che accade nella seconda porzione in relazione alla prima, è un escamotage non particolarmente felice poiché investito automaticamente di una certa prevedibilità, è infatti chiaro che dopo sessanta minuti in cui rose e fiori ornano il legame della coppia (che peraltro risulta un po’ antipatica), i successivi sessanta non potranno che fare da contraltare alla faccenda. Tralasciando la posticcia apertura della guida verso il finale e le brusche avances della suddetta, è praticamente immediata la dimensione concettuale della pellicola: non si tratta di una normale vacanza a contatto con la natura, o almeno non solo, bensì il tipico viaggio interiore che punta all’esplorazione sentimentale, una congettura, questa, intuibile dalla visione del trailer.

Non è però tutto da buttare a mio avviso. La Loktev tenta comunque la strada di un cinema che pur avendo molte pretese sa esporre una dignità artistica che allontana la débâcle totale. Condivido quanto scritto da Giovanni Ottone (link) sulla somiglianza formale con i lavori di Kelly Reichardt vista l’uguale tendenza a considerare il Tragitto come zona di transitorietà fisica e soprattutto psicologica, che poi Julia Loktev si smarrisca durante il cammino perdendo l’efficacia della collega è un discorso che sono il primo a sottoscrivere. Detto questo, se il film non sarà digerito nemmeno sotto il piano dell’intraprendenza, a restare c’è l’incontestabile bellezza dei luoghi ripresi che tra prati smeraldo, cascate fluenti e rocce millenarie, mitiga un goccio l’insoddisfazione generatasi dalla proiezione.

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