mercoledì 30 agosto 2017

The Tribe

È dal 2010 con Deafness che Slaboshpytskiy sta cercando di portare avanti un preciso discorso sulle strade comunicative che caratterizzano il cinema odierno, non per niente anche il successivo corto Nuclear Waste (2012), sebbene privo del linguaggio dei segni, si focalizzava sulla scelta del totale mutismo, zero battute per gli attori in scena. Ovvio che tutto questo poteva e doveva trovare compimento in un lungometraggio, più precisamente nei centoventi minuti di Plemya (2014) la cui caratteristica fondamentale viene rimarcata all’inizio: attenti, qua non ci sono sottotitoli né spiegazioni atte alla comprensione dei gesti. A Slaboshpytskiy vanno riconosciuti dei meriti poiché attraverso The Tribe e ai due lavori brevi che lo anticipano ha dato dimostrazione che tra le varie potenzialità della settima arte ce n’è una spesso sottovalutata: il silenzio. D’altronde il cinema dopo il cinema muto non ha praticamente mai abbandonato la possibilità di raccontare per mezzo delle parole, e a ruota gli spettatori si sono cullati sull’ancoraggio fornito dagli scambi dialogici, una specie di sicurezza che garantisce didascalia e comprensione. Onore al regista ucraino quindi, e al “coraggio” messo in campo, Plemya utilizzando il canale del linguaggio dei segni, e perciò un metodo indecifrabile ai più, riesce a trasmettere le informazioni necessarie per leggere la storia tanto che in alcuni frangenti si è così inconsciamente sintonizzati sulle frequenze del film che non ci si interroga nemmeno più su che cosa si staranno dicendo i ragazzi dell’istituto. Ciò conferma un’idea che il sottoscritto si è fatto da tempo, ovvero che il cinema può fare a meno dell’attorialità e perfino dell’ostensione dei vocaboli, sono già sufficienti le immagini per costruire una narrazione.

Bene. Adesso le note stonate: appurata ed accettata una struttura teorica a cui è doveroso rivolgere attenzione, chi scrive non è rimasto particolarmente impressionato dal risultato che un tale impianto ha modellato. Ok il racconto per immagini, ma se andiamo ad analizzare il racconto in sé dobbiamo tirare fuori quella fastidiosa frasetta che risponde a “niente di che”, ed è un pelo grave che si risponda all’album di violenza, sottomissione e disumanità con tale noncuranza. Forse sarà una certa abitudine all’eccesso forgiata dalla massmedialità accerchiante, fatto sta che The Tribe, pur spingendo su una ferocia inaudita, non suscita uguale ammirazione se si paragona il cosa al come. Nel registro drammatico, contenente comunque momenti apicali (si riveda la scena dell’aborto o il finale davvero brutale), si affastellano episodi esplicitamente crudeli riguardanti bullismo, furti, prostituzione e via dicendo, una risultanza di azioni esecrabili che però non sconvolgono più di tanto, ad essere maligni parrebbe che Slaboshpytskiy, obbligato a tenere desta l’attenzione spettatoriale con modalità non verbali, abbia esagerato nella costante ricerca di un impatto emotivo ficcando ogni due minuti un qualche sopruso di vario genere. A mio avviso tale scelta riduce la forza dell’opera che così facendo, pur avendo qualità innegabili, si accoda al trenino del già visionato. Vedremo Slaboshpytskiy cosa combinerà in futuro, dubito continui a battere codesta via, non so se vi sia la necessità di un altro film come The Tribe.

lunedì 28 agosto 2017

Danse macabre

Ecco cosa è Danse macabre (2009): la versione aurea del momento di assenza, di quando il corpo si fa solo corpo, restauro del movimento post-vita, una salma che in qualche modo si illude, o ci illude, di fare ancora parte di quel Gran Ballo in cui siamo ogni santo giorno impegnati a ricordare i passi. Sicuramente il franco-canadese Pedro Pires è uno con un’idea estetica ben definita, ogni fotogramma è pensato e inquadrato in un preciso modo ed anche i mezzi impiegati per le riprese dimostrano una qualità altissima, di gran lunga superiore a buona parte dei prodotti cinematografici che arrivano nelle sale. Da qui si principia un apparato visivo che ha una confezione perfetta per abbacinare l’occhio spettatoriale, ma, come sostenevo per Hope (2011), il corto successivo di Pires, anche per quest’opera ci troviamo in un territorio estremamente artefatto, tutto improntato sull’esteriorità e incostituito da un nucleo francamente assente. Di nuovo dobbiamo confrontarci con un oggetto che non sfigurerebbe affatto se facesse da accompagnamento a qualche brano musicale, e infatti la presenza uditiva della Callas che occupa buona parte della proiezione assurge a protagonista lasciando alle immagini il ruolo di spalla.

Allora, in un estetismo così pronunciato e così spudorato, anche il possibile sottotesto si assottiglia fino a scomparire sotto la mole dell’aspetto. E a dirla tutta il discorso di Pires non sarebbe così scentrato, mettere in mostra questa danza villoniana muta, 2.0, intombata nel digitale, far carico al cinema di poteri straordinari, rendere vivo, anche se solo apparentemente, un cadavere, oppure ricordarci che anche la morte ha una specie di grazia, una propria leggiadria che in Danse macabre di certo non manca (d’altronde sembrerebbe quasi che in ogni situazione, anche una volta riposta nella bara, gli spostamenti della donna siano i passi di una ballerina), tutti intenti meritevoli d’attenzione che però al cospetto di cotanta costruzione si smaterializzano. Forse sto guardando le cose dal mio piccolo e inutile recinto ma pur cercando di aprirmi all’oggettività non riesco più a digerire la pesantezza della mano registica. Voglio natura, origine, verità, e non involucri spacciati per videoarte.

venerdì 25 agosto 2017

Blind

Il dramma sentimentale filtrato da un’atmosfera scandinava che ha perfetta impersonificazione nei lineamenti elfici di Ellen Dorrit Petersen, si coniuga all’inventiva del debuttante Eskil Vogt già stretto collaboratore di Joachim Trier per il quale ha firmato le sceneggiature di Reprise (2006) e di Oslo, August 31st (2011). Aria algida sì, ma anche tentativo di movimentare la faccenda, dunque: l’obiettivo di Vogt era quello per nulla semplice di farci vivere in prima persona i pensieri di una donna cieca, detto brutalmente ritengo che Vogt su questo piano non abbia soddisfatto in pieno le previsioni, Blind (2014) è un cinema che non prova nemmeno la strada del sensoriale, azione invece auspicabile visto l’argomento affrontato, per, al contrario, tentare di stimolare i sensi attraverso la scrittura e la correlata costruzione fittizia. Non si riesce ad accedere in una soggettività, non vestiamo i panni di Ingrid, ne rimaniamo fuori, lucidi testimoni di una storia che si intreccia al di là di noi, che è romanzo, che è teatro, ed è un peccato perché se Vogt fosse riuscito a dare un taglio maggiormente affrancato dalla penna che per mestiere stringe in mano, Blind avrebbe potuto svilupparsi in una direzione molto più destabilizzante.

Di sicuro è però un film che non annoia, una volta compreso il meccanismo e superato l’iniziale disordine narrativo, l’esibizione dell’insediamento nella mente della protagonista è costellata di apprezzabili trovate che mantengono in vita l’opera (quella del set cangiante che si ripresenta più volte merita un plauso e rappresenta l’intuizione migliore in rapporto alla manovra di penetrazione celebrale). L’offerta di Vogt in relazione alle elucubrazioni di una non vedente autoreclusasi nella propria abitazione innerva in modo originale le “solite” questioni annesse ai problemi relazionali; l’esposizione delle ossessioni nascoste nella mente umida della donna creano un registro che col passare dei minuti si fa sempre più ludico arrivando a sconfinare nella commedia (le donne al party immaginate insieme al marito), ne deriva che sebbene lo spettatore non è in grado di esperire davvero la visione, perlomeno viene continuamente gabbato, ed una tale tendenza all’inganno non può che essere vista benevolmente perché lo scambio mentale dei ruoli, l’avvicendarsi delle pedine da parte della burattinaia Ingrid, il dispiegamento delle sue turbe che alla fine rivelano lo stato di apatia in cui essa stessa versa, sono tutti elementi che trattengono, parlo di quella spinta che porta a chiedersi che cosa potrà accadere da una sequenza all’altra.

Impreziosito dall’occhio chirurgico di Thimios Bakatakis, il direttore di fotografia che sta dietro alla new wave greca, Blind è un film che afferma una nuova nicchia autoriale proveniente dalla Norvegia e che ha Joachim Trier come portabandiera, probabilmente di grandi capolavori non ne vedremo mai, resta la consapevolezza, almeno, che avvicinandoci a questo cinema potremo trovare una più che accettabile qualità di fondo.

mercoledì 23 agosto 2017

Love & Peace

Dopo decine e decine di film sarebbe bello poter entrare nella testa di Sion Sono per capire quale sia la sua attuale idea di cinema perché dall’esterno si rimane parecchio confusi, o meglio, a fronte delle molteplici visioni racimolate negli anfratti più bui della Rete (soprattutto per quanto concerne gli esordi), nell’assistere alle ultime manifestazioni del regista la parola più corretta è: delusi. Già nell’unanimamente apprezzato Why Don’t You Play in Hell? (2013) avevo ravvisato degli elementi che potevano far arricciare il naso, poi con il film successivo, Tokyo Tribe (2014), le cose non erano migliorate affatto poiché ci trovavamo al cospetto di un’opera molto ma molto simile a quella precedente dove l’impianto autoriflessivo veniva sostituito con un apparato ludico-musicale privo di un qualsivoglia spessore. Adesso Rabu & Pîsu (2015) e… da dove iniziare se non dall’inizio? Che volendo potrebbe essere visto come una miccia narrativa in linea con molte altre situazioni nell’universo di Sono, infatti in tutti questi anni ne abbiamo visti parecchi di soggetti introversi e impacciati inadatti a stare il mondo, quello che Sono in Love & Peace muta è il fenomeno catartico che ribalta la situazione personale del protagonista, se in passato ci si poteva esaltare per clamorose mattanze in stile Cold Fish (2010), ora la scelta è al confronto morbidissima, quasi una carezza, fa specie dirlo ma il film di cui stiamo parlando è un film perfetto per una serata in famiglia davanti al caminetto mentre fuori nevica.

Va bene l’ecletticità di Sono che è straordinaria e che ognuno di noi conosce ampiamente, e vanno bene anche le obiezioni che mi si potranno fare le quali si appoggerebbero sul fatto che qua Sion non è poi così “leggero” come parrebbe (ma sì, l’alienazione sociale, l’oblio del passato e quello del presente: gli oggetti buttati, la cecità delle masse, la carta velina dello spettacolo), però voglio farvi una domanda cruciale: è questo il cinema che oggi volete vedere? Se la risposta è sì allora potete anche smettere di leggere, se no, al contrario, proseguite: perché onestamente ho delle difficoltà enormi a digerire una storiella dall’intento smaccatamente parabolico che vedrebbe l’essere umano così assetato di fama e di successo da dimenticare/snobbare chi davvero gli ha voluto bene. Tutto ciò che ha una morale di fondo sotto la patina narrativa è materiale da mandare in soffitta insieme alle favole della buonanotte, a cosa serve essere versatili se si propongono modelli inchiodati a schemi di manifesta conoscenza? Non vorrei che si venisse distratti dai balocchi impiegati da Sono poiché in tale ottica si potrebbe scivolare in facili esaltazioni, Love & Peace da suddetta angolazione rimane in teoria una mezza follia del regista nipponico (autore anche della sceneggiatura) che ‘sta volta estrae dal cilindro una sequela di bizzarrie oscillanti tra il divertimento e la tenerezza, e la trovata migliore del film risiede ben appunto nella creazione della comune di oggetti dimenticati e all’annessa realizzazione decisamente cheap (ma non per questo ridicola) che rappresenta in termini tecnici (si tratta di burattini o similari) un’assoluta novità. Peccato poi che la scelta di dare una direzione così “natalizia” al tutto sia alquanto condannabile…

Ma accantonate per un attimo il musetto dolce della tartarughina o la simpatia suscitata dagli altri coinquilini nelle fogne e procedete verso il centro, verso il cuore delle cose, aprite il nucleo come l’involucro in plastica gialla delle uova di cioccolata: dentro non c’è niente. Almeno così è per chi cerca delle visioni che sappiano infondere smottamenti irreversibili, viceversa gli altri potranno rintracciarvi una fola definibile come moderna solo per via della sua data di produzione, ahinoi in contesti del genere, ben mascherati da lustrini abbindolatori, non vi è il minimo sviluppo bensì regressione o al massimo stagnamento.

lunedì 21 agosto 2017

Belva Nera

Quattro anni dopo Catedral (2009) Alessio Rigo de Righi, giovane italo-americano globetrotter, gira nuovamente in coppia (questa volta con Matteo Zoppis) un altro lavoro breve che rivela già una maturazione importante. Belva Nera (2013), ambientato nelle campagne laziali vicino a Viterbo, non si limita alla cattura dei dati e alla correlata trasmissione, il film in esame punta più in alto poiché ha come obiettivo quello di mostrare l’invisibile, di suggerire allo spettatore un’idea, un concetto volatile che nel momento in cui si pensa acquista vita e presenza. La pantera, che sarebbe la temibile belva del titolo, è uno stato simbolico, è il Babau per questo gruppo di arzilli vecchietti, è qualcosa che non c’è, e non può esserci come giustamente rimarca il falconiere adducendo informazioni razionali a sostegno di tale tesi, ma che si vorrebbe ci sia, e qui entra in gioco la traiettoria artistica dei due registi: fare dell’impercettibile il percettibile, servirsi del ritratto agreste di queste persone “semplici” che si abbandonano a confessioni di vario genere (anche intime, come quelle di Ercole verso l’amata moglie), per legittimare la presenza di un possibile mostro che si aggira nelle loro terre. Tradotto: non è effettivamente importante se vi sia o meno un pericoloso felino che vive nella Tuscia, è più importante che gli abitanti del luogo lo pensino, perché pensandolo in qualche modo realificano una paura, una paura che semplicemente li tiene vivi.

Che un tale processo si attui in Belva Nera è un punto a favore di Rigo de Righi & Zoppis, la puntualità del duo nell’essersi infiltrati in questa realtà e la susseguente capacità di coglierne la genuinità che la permea fanno del cortometraggio un valido oggetto nostrano che naviga sì nel documentaristico ma che sa sconfinare anche un po’ più in là, dove? Beh, difficile da dire esattamente, è quella porzione di spazio in cui il cinema si apre, e che lo faccia tramite il buco della serratura in Belva Nera poco importa, d’altronde come volere male ad un film che ripropone una figura mitologica come Tony Scarf, cacciatore di pantere certificato da immagini d’archivio finanche caratterista con Er Monnezza?

Durante una pausa dalle riprese i due registi sentirono da Ercole e soci la storia di un certo Mario, una specie di eremita del posto. Da questo spunto nascerà il loro lungometraggio d’esordio: Il solengo (2015).

martedì 15 agosto 2017

nessuno viene a scopare qui

Voglio essere un tuffatore
per rinascere ogni volta dall’acqua all’aria 
(Flavio Giurato – Il tuffatore)

Quando qualcuno si introduce nel quadrilatero brulicante di prostitute, quel qualcuno diventa Nessuno, quindi, forse, se stesso, un cacciatore, un segugio, un’altra persona che è la vera persona custodita sotto l’armatura della quotidianità, Nessuno non passa di lì per caso, il filo d’Arianna che lo muove nel dedalo umido è una libido che gli prende dentro, che lo incendia nell’immaginario erotico di potersi accoppiare con una sconosciuta nei fondi ammuffiti di una palazzina per qualche decina di euro, c’è solo una parola che serpeggia da un crocicchio all’altro, ed è: “quanto?”, ma è un sussurro flebile, un codice di intesa che connette individui incanutiti con paffute señorite dalla pelle caffelatte, nessuno, sempre lui, sempre Nessuno, viene qui per compiere l’azione più decisiva di tutto il cosmo maschile, scopare; lui, ora, sta invece pensando: “la prima cosa che le dirò sarà che non sono venuto per scopare”. Un topo spelacchiato attraversa la strada e si infila in un tombino a pochi passi da un paio di zeppe alte così i cui piedi all’interno presentano una fine smaltatura rossa, si avvicina cauto, come fanno tutti, e le chiede se sa dove sia Maria Soledad, la ragazza rumina un po’ con la gomma ed emette uno schiocco con la lingua che probabilmente significa “no”, alle loro spalle c’è però un’altra donna, con molti più anni e molti meno denti, che ridacchia di gusto ripetendo continuamente sottovoce il nome di Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, la litania diventa una sorta di mantra e gli occhi della vecchia si trasformano in due uova sode e dalla bocca, oltre ad una schiuma biancastra, fuoriescono queste parole: “la porta verde”, e poi inizia a piovere fortissimo e nell’aria rimpalla solo il rumore dei tacchi che picchiettano sui sampietrini dei vicoli, allora lui comincia a camminare, dove: non lo sa, un tuono sconquassa i secolari palazzi del quadrilatero, tutte le prostitute, le Sante Madonne e le piccole figlie, si sono già rintanate nelle alcove in subaffitto e sgranocchiando qualche patatina cercano di collegarsi via Skype con i parenti in Sud America, l’uomo trova riparo sotto la tettoia di quello che un tempo era un bar, per terra l’acqua forma dei rivoli che si portano dietro tutte le confezioni di preservativi aperte e buttate via, tutti gli schizzi di sperma e saliva necessari al compimento dei servizi, l’acqua ripulisce il filo d’Arianna, spazza gli sciami invisibili di feromoni, non c’è davvero più nessuno ora, a parte una persona disperata e sola da quindici anni. Dalla scomparsa di sua figlia.

Si lascia alle spalle la porta verde per scendere delle scale che conducono in un buio spaventoso, ma giunto a quel punto non ha più paura, non può averne! Le indagini per arrivare ad un barlume di verità gli hanno succhiato via ogni bene, sia fisico che economico, è diventato uno scheletro coi baffi, mangia insieme ai gatti randagi, ha passeggiato ore ed ore sotto il sole pensando a come poi le cose sarebbero andate una volta arrivato lì, ha dormito in un bosco atro per abituarsi alla possibile oscurità, è impazzito, no, non è impazzito, non gliene frega più niente del mondo e per questo, quando dopo un corridoio illuminato a intermittenza da alcune lampadine si ritrova di fronte ad un’altra porta verde, la apre come se fosse quella di casa sua.

BREVE BIOGRAFIA DI LAKSHMINARAYAN KRISHNAMURTHY

Lakshminarayan Krishnamurthy nasce il 15 agosto del 2017 a Dharavi da una coppia di immigrati pakistani che vive in una delle baracche della zona. Terzo di quattro fratelli (tutti morti da piccoli a causa di svariate infezioni non curate) all’età di tre anni perde il padre rigattiere per via di un incidente stradale, di lui avrà solo un vaghissimo ricordo che si dissolverà completamente in età adulta. Fin da bambino dimostra una spiccata intelligenza e grazie ad una ONG locale che permette ai più giovani di frequentare gratuitamente lezioni di inglese e matematica, si appassiona all’astronomia e passa intere nottate con il naso all’insù a mangiare ciotole di ottimo kheer preparate dalla mamma mentre la stessa pulisce latte di pittura che poi rivenderà ad una fabbrica di vernici nei dintorni. Nel 2026 un evento lo cambia per sempre: durante un’afosa giornata estiva passata a giocherellare con altri amichetti fuori dalla casa, alcuni turisti occidentali passano proprio affianco l’abitazione, dal gruppo si stacca una ragazza bionda con una maglietta su cui si può leggere “University of Illinois”, la donna si avvicina a piccoli passi verso Lakshminarayan che, lercio e mezzo nudo, rimane immobile avvertendo però dentro di sé una sensazione mai provata prima, e quando i due sono uno di fronte all’altro una profonda forza interiore li spinge ad abbracciarsi, lei inizia a piangere, lui, racconterà poi a sua moglie, in quel momento ha capito per la prima volta che cosa sia la felicità. A diciotto anni perde la verginità con un’orribile prostituta di Mumbai, a diciannove si prende una cotta non ricambiata per una coetanea che frequenta la sua stessa scuola, deluso da una vita che non lo soddisfa nel 2037, grazie ad un’azione mondiale orientata allo sviluppo della mobilità giovanile, riesce ad ottenere una sovvenzione per iscriversi in un’università americana, la scelta ricade su quella dell’Illinois. Quell’anno saluta la madre che non rivedrà mai più e sbarca negli Stati Uniti per iniziare il corso di ingegneria aerospaziale. Nel 2042 si laurea a pieni voti e pochi giorni dopo la discussione della tesi un terremoto di proporzioni bibliche devasta l’India uccidendo centinaia di migliaia di persone, sente sua mamma l’ultima volta la sera prima del disastro promettendole che di lì a poco sarebbe tornato a trovarla. Tre anni dopo, mentre si trova in un bar di Springfield, nota una chioma bionda che gli dà le spalle, avverte l’eco lontana di un sentimento sopito ma mai cancellato, si alza dal tavolino perché ha la necessità di guardare questa persona in faccia, ma in quel momento qualcuno la chiama al cellulare e lei sgattaiola fuori dal locale. Il trentesimo compleanno sarà il migliore di sempre, secondo solo alla nascita dei suoi due figli gemelli: viene assunto in un’azienda informatica che produce software per la terraformazione di Marte, nel suo reparto, quello legato all’azione degli agenti atmosferici, conosce Paolina Tharstakis, una collega di origini greco-russe della quale si innamora perdutamente, l’amore è corrisposto e nel giro di poco i due vanno a vivere insieme. Sono anni belli ed irripetibili, pieni vita e libertà, Lakshminarayan e Paolina si sposano e viaggiano tantissimo, scoprono mondi nuovi e, contemporaneamente, scoprono se stessi, visitano Buenos Aires, Porto, Città del Capo, Bangkok, e in Italia, precisamente a Genova, in un piccolo hotel del centro storico, concepiscono i due figli che nasceranno nove mesi dopo, è il 2050 ed Ela e Yorgos vengono alla luce, quando Lakshminarayan stringe al petto i due frugoletti ripensa alle notti passate a fissare il cielo con sua mamma intenta a scrostare i barili e, semplicemente, piange di gioia. Il decennio successivo scorre placido e sereno, i bimbi crescono e la carriera lavorativa dei coniugi Krishnamurthy si consolida sempre di più. Intorno al 2060 l’Europa è oggetto di una brutale sommossa da parte degli stati mediorentali che attaccano il Vecchio Continente sia dall’esterno, attraverso poderosi blitz militari da parte degli eserciti turchi, iracheni, egiziani e sauditi, sia dall’interno per mezzo di cani sciolti che come ai tempi dell’ISIS propagano terrore tra i civili. È l’inizio delle terza guerra mondiale ed il governo americano decide di sospendere i finanziamenti per gli studi sulla vivibilità del suolo marziano. A quarantatre anni Lakshminarayan si trova disoccupato, così come sua moglie. Però non perde fiducia e in una notte d’agosto, mentre il respiro regolare della famiglia addormentata lo rincuora e gli dà forza, decide di aprire un ristorante indiano, all’inizio sembra una follia ma l’entusiasmo e la lungimiranza che lo contraddistinguono fanno sì che in poco tempo l’attività riesca a farsi un nome e grazie ad un tambureggiante passaparola nel 2065 diventa uno dei locali più apprezzati di Springfield, il posto migliore in tutti gli Stati Uniti dove poter gustare del kheer. Nel giorno del cinquantesimo compleanno, proprio durante la festa tenuta in suo onore, Laksy, così ormai veniva chiamato, sente una fitta atroce allo stomaco e si precipita in bagno a vomitare, tra i resti di torta nota dei filamenti rossastri, ma poco dopo torna in sala ostentando la solita pacata allegria. Inizialmente non viene dato peso all’episodio, ma Paolina nota in lui dei significativi cambiamenti, l’uomo mangia sempre meno e delega di sovente ad un amico le varie incombenze del ristorante. Nel 2068 il conflitto mondiale finisce, l’Europa ne esce distrutta ma in qualche modo viva, nello stesso anno a Lakshminarayan viene diagnosticato un tumore allo stomaco. Inizia un lungo calvario dove delusione e speranza sono gli stati emotivi che si alternano senza sosta, a volte sta bene, come se niente fosse, altre volte sta male e non riesce ad alzarsi da letto. Nei mesi precedenti al decesso vuole scrivere un diario per lasciare una traccia della vita che ha vissuto, ma le forze lo abbandonano presto e nelle ultime pagine ripete confusamente il misterioso nome di una certa Maria Soledad, di una non precisata porta verde e di una grossa pesca succulenta. Alle 10:14 del 25 marzo 2070 Lakshminarayan Krishnamurthy muore circondato dall’affetto di Paolina e dei figli Ela e Yorgos, l’ultimo suo pensiero andrà a quella ragazza bionda che lo abbracciò fuori dalla baracca di Dharavi.

“non sono venuto qui per scopare”, adesso si trova al centro di una piccola stanza rischiarata da un abat-jour che colora l’ambiente di toni caldi e accoglienti, alle pareti sono appesi piccoli quadri che ritraggono fiori e case di campagna, di fronte a lui un grosso specchio riflette la sua smilza figura, sul letto matrimoniale Maria Soledad è sdraiata come se fosse in posa davanti ad un artista, il pugno a sorreggerle la tempia, il corpo adagiato sul materasso coperto da un lenzuolo giallino, il seno, strabordante, contenuto a malapena da un corpetto di pizzo nero le cui spalline sono sfiorate dai boccoli rigonfi che le incorniciano il viso, ha sui cinquant’anni, molti dei quali, sicuramente, passati in quello scantinato, però il rossetto color lampone, il fard che le leviga la pelle e la matita nera intorno agli occhi le donano un aspetto in un qualche modo ancora attraente. Guarda l’uomo che è giunto fin lì, ne ha visti parecchi, tutti disperati, e a tutti ha sempre risposto: nessuno viene a scopare qui, Nessuno viene per scomparire. Lo fa sedere e gli offre un bicchiere d’acqua fresca, nell’aria si diffonde un profumo estasiante, di violetta, di bucato asciugato al sole, gli dice che sì, sua figlia, quindici anni prima, è passata di lì, e lui subito: “Dove si trova ora? Ti prego mandami da lei! So che puoi farlo!”, e lei con fare materno risponde che è passato molto tempo e che non ricorda bene, forse è finita in Ecuador, in una famiglia di delinquenti alla periferia di Quito, o forse negli Stati Uniti ed è diventata un medico in Illinois, ad ogni modo, anche se per puro caso si incontrassero di nuovo non si riconoscerebbero, io, aggiunge Maria Soledad, sono solo una grondaia che raccoglie le gocce di un diluvio universale, il mio potere è limitato e non so nemmeno perché sono in grado di fare questo, non so perché un dio sconosciuto me ne ha dato la possibilità, ma adesso sei qui, davanti a me, e devi decidere cosa fare. Il padre è sfinito, mentre ascolta in silenzio un film di immagini mute gli scorre nel cervello e in ogni fotogramma c’è la ragazzina che ha perso: “basta, me ne voglio andare, voglio cancellare tutto, ti prego: fammi rinascere”. Allora la donna, nonostante una corporatura non proprio esile, spalanca le gambe che tese a mezz’aria presentano degli adduttori ben torniti, in mezzo alle cosce è visibile una grossa pesca tagliata a metà senza il seme, lei lo invita a inginocchiarsi al bordo del letto e a mangiare quel succoso frutto, lui timidamente annusa la polpa gialla poi allunga la lingua tastandone il dolce sapore, dopodiché mordicchia la parte centrale fino a che i morsi si tramutano in addentate furiose, e più azzanna e più gli sembra che non abbia mai fine, che il canale vaginale, l’utero, la pancia e tutto il corpo di Maria Soledad siano diventati un’immensa pesca tonda e capiente come la Terra, e quando gli pare di essere finalmente giunto in fondo capisce che in realtà è solo all’inizio: la stanza e la sua proprietaria sono svanite, lui stesso, in quegli ultimi momenti di lucidità, sta svanendo come un filo di fumo, avverte appena appena la leggerezza dell’inconsistenza, forse il tepore di un grembo materno, i suoni sonici ovattati dell’esterno, il proprio cuore che decelera rintoccando flebile, fino al Nulla.

Riapre gli occhi in un altro tempo e in un altro spazio per ritrovarsi minuscolo, insanguinato e urlante nella più grande baraccopoli dell’India.

venerdì 11 agosto 2017

Sudoeste

Sudoeste (2011) è stato un progetto lungo e laborioso che ha visto il brasiliano Eduardo Nunes seguirne la gestazione per più di dieci anni, periodo nel quale si è dedicato alla realizzazione di cortometraggi e all’editing di film diretti da altri connazionali, genesi prolungata, dunque, oltre che complicata poiché ad un certo punto Nunes, trovandosi impossibilitato a proseguire sulla strada prescelta, fu costretto ad interpellare tal Guilherme Sarmento con il quale riscrisse la sceneggiatura da capo, il risultato, che rappresenta il debutto nel lungo, è un film che punta ad un’autorialità a cui si può venire incontro, già è interessante la ratio estetica che si segnala tra le più inusuali mai viste poiché con un rapporto di 3.66 : 1 Sudoeste è capace di annientare la verticalità per vivere (e morire) nell’ampiezza, la scelta si lega inevitabilmente al fatto che il set naturale non presenta rilievi di alcun tipo per cui una dimensione apicalmente orizzontale si ben coniuga con un quadro così sottile e allungato. Trattandosi di un esordio poi fa piacere trovare un’immagine tersa e mercuriale come quella proposta, alla granulosità della pellicola controbatte un nitore argenteo, abbacinante, al punto che in molte delle recensioni in lingua inglese presenti in Rete viene accostato il nome di Béla Tarr, in realtà non basta girare in bianco e nero e utilizzare qualche carrello per poter fare il cinema di Tarr, ma Nunes sarà comunque lieto del paragone e conscio del fatto che tecnicamente il suo è un lavoro d’alta manifattura che potrebbe perfino essere un punto d’arrivo piuttosto che uno di inizio.

In riguardo alle tematiche affrontate, Sudoeste (che in realtà è il nome di un vento del Brasile, e infatti per tutta la proiezione il vento è un flagello/carezza costante) attraverso un taglio che sa molto di realismo magico sudamericano (l’ambientazione rurale e storicamente non collocabile; il velo di magia; il surreale che sgomita per emergere) punta in alto appoggiandosi su una traccia che è un continuo cortocircuito temporale dove è meglio abbandonare ogni tipo di logica. Probabilmente qui Nunes esce un po’ troppo dai binari, forse una dilatazione più contenuta avrebbe giovato alla totalità del film, ma in realtà va bene anche affidarsi ad un andamento contemplativo, non è di sicuro il protrarsi dello stacco a far deprezzare un film al sottoscritto, il vero forse è dato da un equilibrio non ancora ottimale tra tempi di ripresa e tempi narrativi, più che altro è una sensazione personale per cui rifugiandomi nella soggettività comprendo l’assenza di un valido substrato alla mia tesi, ciò non toglie che Nunes regali spiragli visivi più che interessanti come l’arrivo quasi dantesco di Clarisse sulla terraferma o il passaggio della banda nel villaggio che grazie ad una cantilena sa raggiungere una tangibile intensità. Si accennava ai temi: Sudoeste è costituito da un piccolo caos che lo impreziosisce, il respiro è ampio e corto come la vita infinita di un giorno, molto si mescola e non si spiega, dell’altro torna e ritorna, tra epifanie e flashback mai vissuti un concreto smarrimento è (per fortuna) il sentimento che pervaderà lo spettatore, le visite guidate, d’altronde, non fanno per noi. Io alla N del mio taccuino Nunes me lo appunto, poi si vedrà.

mercoledì 9 agosto 2017

Boris Without Béatrice

Purtroppo siamo qui a scrivere dell’ultima fatica di Denis Côté ma vorremmo essere altrove, magari in uno dei suoi lavori migliori (Curling, 2010) o giù di lì (Les lignes ennemies, 2010), il motivo? Semplice: Boris sans Béatrice (2016) è un film brutto, ma così brutto che quasi ci si ricrede su quanto fino ad oggi il canadese ci aveva mostrato, d’altronde delle avvisaglie erano già state date col precedente Vic + Flo Saw a Bear (2013) dove si evinceva una preoccupante piattezza nel campo narrativo mitigata, almeno un poco, da una certa coerenza registica che Côté si portava dietro dagli esordi riassumibile nella raffigurazione di un’umanità marginale impegnata a sopravvivere nel Québec più profondo e dimenticato, i due aspetti, geografico e antropologico, funzionavano bene, anzi benissimo se li rapportiamo all’opera del 2016 in cui al contrario non vi è un focus specifico sul luogo (in fondo l’ambiente benestante qui immortalato risulta amorfo, impersonale, applicabile a qualunque altro posto del mondo) né sulle Persone (cioè, il film è spiccatamente centrato sulle persone, ma di chi stiamo parlando? Di un borghese imbottito di denaro la cui vita soapoperistica dovrebbe portarci ad una qualche riflessione? Ad una qualche morale parabolica? Davvero: no grazie), e se dovessi pensare ad un termine che possa sintetizzare Boris Without Béatrice il primo sarebbe “addomesticato” ed il secondo “scarico”, in tutto: nella forma nella sostanza nei possibili significati.

E dire che anni fa Côté con Nos vies privées (2007) aveva saputo declinare il melodramma in modo originale e accattivante, certo c’erano pochi soldi ma, di contro, parecchia più inventiva, ingrediente che adesso è invece seppellito da un cinema orientato a fare incetta di luoghi comuni e che trova nella figura di Boris una deludente commistione dei suddetti; la scrittura del suo personaggio è robetta manualistica e stupisce, ovviamente in negativo, di quanto orizzontale e banale sia lo sviluppo ruolistico studiato appositamente da Côté, dalle premesse che imbarazzano per l’ovvietà che le sostanzia (alè: un uomo ricco che può avere ogni cosa, alla fine non ha niente: yawn) alla redenzione conclusiva che matura per mezzo di un escamotage faticosissimo da ingoiare, mi riferisco alla scelta di introdurre in un impianto che riproduce la realtà senza particolari pretese (né troppo reali, né surreali) un elemento esterno, una specie di mystery man di lynchiana memoria, interpretato da Denis Lavant il quale fungerebbe da coscienza interrogante per Boris, ma le cose non girano affatto, anzi queste parentesi che dovrebbero costituire il quid pluris della pellicola sfiorano il kitsch apparendo, almeno agli occhi del sottoscritto, una bassa scappatoia sceneggiaturiale per indirizzare la narrazione verso gli esiti sperati, esiti per nulla pervenuti ad un’effettiva quanto insoddisfacente visione. Non si sa cosa pensare di un autore che, al pari di parecchi esimi colleghi, smarrisce la propria arte per strada, ed anche se non sono nessuno, ed anche se Côté continuerà ad essere accettato alla Berlinale, io mi arrogo comunque la facoltà di dirglielo chiaro e tondo: Denis, Boris sans Béatrice non può essere nient’altro che un film inguardabile.

venerdì 4 agosto 2017

Nuclear Waste

Più maturo rispetto ai cortometraggi precedenti nonché “classico” antipasto al lungometraggio di debutto (in questo caso The Tribe, 2014), Yaderni wydhody (2012) ha quella piccola, si fa per dire, qualità di non raccontare esplicitamente nulla, col suo fare documentaristico Slaboshpytskiy è più che altro un intruso nella vita di un camionista ucraino che vive e lavora, probabilmente senza che vi sia una distinzione tra le due azioni, a Chernobyl. Eppure nonostante il totale minimalismo accade che un qualcosa di molto simile a una storia si rivolga verso lo spettatore, è una fusione di elementi: prima di tutto l’ambiente, il quale sebbene non ci venga detto che è quel-posto-lì suggerisce comunque un gelo profondo e un senso di solitudine primordiale, poi la banalità di una giornata lavorativa e la sua routine, successivamente l’intimità che diviene procedura meccanica, e poi, ma solo poi, il duplice ma connesso ritratto umano di un lui e una lei che plausibilmente non smaltiranno mai le scorie radioattive che tentano di debellare con le rispettive professioni.

Il tragitto di Slaboshpytskiy ha per quanto mi riguarda una certa coerenza e Nuclear Waste rappresenta una dignitosa soglia autoriale, il frutto di un percorso che ha visto nel giro di due corti la potatura di quegli apparati che indeboliscono il cinema, se ripensiamo a Diagnosis (2009) viene subito a galla una didascalia che alla fine giocava a sfavore delle fosche tinte drammatiche inscenate, il successore Deafness (2010) si disintossicava dalla letteralità preferendo l’annullamento dialogico, buona scelta un po’ limitata per forza di cose sia dal contenitore che dal contenuto, tutto ciò trova ossigenazione in Nuclear Waste che si fa opera d’equilibrio e, per ricollegarsi al trafiletto sopra, un nulla apparente che cela un racconto che così come deve essere trova compimento nelle riflessioni post-visione. Pur ignorando completamente tutto il pianeta esistenziale che riguarda la coppia è come se in quel glaciale rapporto sessuale si possa leggere molto di loro, è la tenacia di un cinema che non impartisce ma che diffonde, e nello scenario ibernato c’è anche lo spazio per un desiderio, quello di essere madre.