giovedì 29 dicembre 2016

Nell'orto

Ho otto o nove anni e mi trovo nell’orto, un posto che qui in paese chiamano così da sempre ma che non ha niente di un orto tradizionale. Per arrivarci bisogna passare sotto la vota, un archivolto la cui parte convessa altro non è che il pavimento in travi di una casa vecchissima e disabitata da almeno mezzo secolo di cui si possono scorgere attraverso le fessure degli assi marciti dal tempo bottiglioni impolverati ed altre cianfrusaglie stipate su precari ripiani di legno, dalla vota penzolano delle lanugini di ragnatela spessa e fibrosa come il cotone che se non stai attento ti si impigliano tra i capelli, ma io sono talmente piccolo che queste stelle filanti tessute da ragni panciuti non mi sfiorano nemmeno e così arrivo spensierato nell’aia che subito dopo mi si apre dinnanzi, qualcuno, come ogni anno, taglia l’erba infestante nonostante nelle tre abitazioni che vi si affacciano non ci sia più anima viva, poco oltre un mostro di rovi e spine ha già cominciato a sommergere il muro di una delle case, uno dei miei incubi più paurosi è svegliarmi d’improvviso in mezzo ad un groviglio di piante selvatiche nel cuore della notte montana punteggiata da bisbigli sinistri. Poco più avanti il suolo si fa leggera discesa e ai lati del declivio il signor Teo ha messo quattro gabbie con dentro dei grassi conigli che muovono freneticamente il nasino, ogni volta che vado nell’orto prendo uno stelo di fieno e stuzzico uno dei conigli fino a quando l’animaletto non soddisfa la mia stupidaggine di bambino mangiando l’erba secca con disprezzo verso quell’essere che ha appena disturbato la sua placida vita nel mondo-gabbia. Superati i conigli bisogna scendere degli scalini affianco ad un muro a secco tirato su da chissà chi e che il passare del tempo e la pioggia e la neve e il ghiaccio hanno bombato come se fosse gravido di un enorme neonato-pietra-muschio pronto ad essere sparato direttamente nell’orto. Perché quando vedo davanti a me il muretto significa che sono lì, in un fazzoletto di terreno che un mio bisnonno aveva adibito a pollaio e dove per un periodo incalcolabile la merda delle galline rimestata dalle loro stesse zampette si è amalgamata all’impiantito naturale rendendolo quello che è ora: un banco di terra umida, quasi bagnata, e di un nero che non potete immaginare, e fertilissima nonostante il sole, a causa di due alti peri posti agli angoli bassi del quadrato terricolo, non arrivi mai. E io gironzolo affondando i piedi nello spazio di humus, prendendo manciate di terra fredda che svelano vermi rosei impazziti alla vista mentale di un gigante come il bimbo che sono, e trovando strani oggetti sepolti, pezzetti di esistenze passate, cocci, vetri smussati, una piccola bottiglia con dentro una ciocca di capelli. Ho solo otto o nove anni e non penso al futuro.
Poi, allo stesso modo in cui i vermi che disturbo dai loro sogni colliquativi vedono me, io scorgo ai piedi del muro, proprio tra due grossi sassi, lo strisciare di una cosa tubolare e marrone, unta e gelida: non finisce più di scivolare questa biscia, questa vipera, questo serpente che me la fa fare sotto. Scappo! Su per gli scalini, via veloce dai conigli e dai loro occhi rossi, oltrepasso i fili-stalattiti di bava ragnesca che ondeggiano nell’aria al mio passaggio e trovo un approdo sicuro nel rumore che fanno le mie scarpe da ginnastica sull’asfalto amico della strada principale e col cuore a mille arrivo a casa e la mia giovane mamma pesca da un recipiente di plastica azzurro i panni che sta stendendo su una corda tesa fra una noce e un prugno.

Di recente sono tornato nell’orto, ho vent’anni di più e molte cose, inevitabilmente, sono cambiate. Mi illudevo che qui fosse rimasto tutto come prima ma dopo la vota non sono riuscito a proseguire, una diga di piante di ogni genere ha creato una barriera insuperabile: il mio incubo di un risveglio notturno in un posto simile non se n’è mai andato. Il signor Teo non abita più in paese perché ha divorziato e credo che abbia cercato di rifarsi una vita in un paese poco più lontano, i suoi conigli, invece, resteranno per sempre lì, invisibili ma belli cicciotti, sepolti sotto una coltre di foglie e spine che li conserverà per l’eternità. Immagino che il muro in gestazione sia esploso del tutto, magari in una notte di temporale, e nel momento in cui ha ceduto è possibile che il mio serpente abbia ripensato a quando si trovava nel guscio molle del suo uovo e all’attimo successivo della sua venuta al mondo, al primo contatto con le sostanze chimiche che costituiscono il pianeta.
Ho imboccato la via verso casa e una volta sulla strada ho sentito un rumore di passi rapidi e veloci, ma ero da solo. Mi sono seduto su una panchina di pietra che dà su un bel panorama collinare, i dolci rilievi parmensi baciati dal tepore di mezzogiorno erano le gobbe di un drago che dormiva da millenni. Un uccellino si è poi posato sulla ringhiera di fronte a me, la frequenza con cui muoveva la testa mi è parsa fuori dalla concezione del tempo umano. Non so, a volte sembra tutto così sbagliato, a volte questo scorrere delle cose, delle persone, dei ricordi, degli affetti, è l’unico modo per capire che cosa sia la vita (da qualche parte, in un altrove onnipresente, c’è anche la microscopica stazione ferroviaria di Framura in una afosa domenica di agosto e mio padre con la borsa frigo piena di cose da mangiare, e c’è anche negli infiniti algoritmi di Facebook il video di una canzone di Tracy Chapman).
Mi sono alzato lasciando su quella panchina un me stesso che rimarrà per sempre lì così come ci sarà sempre un bambino-me che razzola nell’orto, ma mia madre non c’era più a stendere i panni e i miei capelli si stanno facendo sempre più radi.

martedì 27 dicembre 2016

Journey to the West

Perché Tsai Ming-liang, uno degli sguardi che ha segnato il cinema degli ultimi vent’anni, ha deciso di avventurarsi in un progetto come quello del monaco camminatore? Questa domanda il sottoscritto se la poneva già all’uscita di Walker (2012) circoscrivendola al corto sotto esame, adesso che dalla suddetta visione di anni ne sono passati ben tre e con loro altri tasselli di questo strano quadro moviolistico (non visti da me medesimo), giunti a Xi you (2014) la domanda non solo è sempre la stessa ma è ancora più urgente: perché? Parlando di Stray Dogs (2013), ovvero quello che dovrebbe essere l’ultimo film “canonico” del taiwanese, mi ero sbilanciato dicendo che oramai Tsai era giunto ad un tale livello autoriale e autoritario che in sostanza poteva permettersi di fare ciò che più gli aggradava, anche non-film (che ovviamente SONO film) come la serie Walker. Molto interessante, molto chic, ma non davvero esaustivo, cioè: vogliamo di più, il senso è quello che ci colma e come condannati bramiamo di trovarlo per liberarci da un manufatto eterno quale Journey to the West è, lo scoviamo anche senza troppi arrovellamenti interpretativi, e non è solo uno. Benissimo. Non troppo: le suggestioni che maggiormente mi convincono sono due e sintetizzando si tratta di: uno di come il passo estenuante del monaco strida con il caos iperveloce della città (‘sta volta è Marsiglia), da qui un’illustrazione del contrasto fra un certo distacco religioso dalla concretezza dell’affollata urbanità, due di come l’alter ego Kang-sheng possa incarnare il cinema decelerato del suo mentore fautore di esemplari artistici disallineati dall’ordinario brulichio.

Orbene, le appena summenzionate vie esegetiche sono le medesime che estrapolai vedendo Walker, e credo sia inevitabile poiché Xi you altro non è che una sua prosecuzione dove non muta pressoché nulla. Probabilmente una volta che il disegno di Tsai sarà terminato e magari riunito in un fiotto unitario si avvertirà meno ciò che qui, con una pausa di tre anni tra una proiezione e l’altra, ho percepito, ovvero un senso di ripetizione, di quel già veduto impossibilitato a fertilizzare il discorso. Non bisogna avere timori riverenziali, mente sgombra!, cosa aggiunge Journey to the West? Domanda retorica, più che altro si accoda, si adagia, si sovrappone al suo predecessore (e presumo anche agli altri) svelandosi come una copia degli intenti deducibili dal primo episodio della serie. Tenuto conto che al di là dell’idea soggiacente il regista si diverte, e lo spettatore insieme a lui, in uno studio sulla visualità del corpo nella scena (perfetto il campo lunghissimo con Lee che prospetticamente deambula sul viso di Lavant), mi si potrà obiettare che qualcosa di divergente da Walker c’è e non è cosa da poco, la presenza di un attore come Denis Lavant a sua volta feticcio per un altro regista (Carax) potrebbe significare l’incontro concettuale tra due lontane culture cinematografiche (questione non nuova visto che Tsai ha più volte teso la mano verso il cinema francese: Che ora è laggiù? [2001] e Face [2009]), eppure non ritengo sia abbastanza uno sfiorarsi del genere, curioso sì, che si instrada nella globalità del progetto pure. È come se Lavant fosse un accessorio la cui figura dell’adepto al seguito del monaco non sia capace di concimare più di tanto la faccenda. Si vedrà con No No Sleep (2015) quello che succederà, plausibilmente niente di diverso da ciò che sostanzia Journey to the West.

sabato 24 dicembre 2016

Abbacinante. L'ala destra

Mircea Cărtărescu
2016
Voland; 637 p.
 
Quando muore un fiore, o una mosca, scompare un mondo che non ha nemmeno saputo, per un istante, di esistere. Quando muore un feto abortito e gettato tra rifiuti e spazzatura, si spegne un cosmo raggrinzito prima di avere avuto la possibilità di esistere. L’apocalisse è banale e quotidiana quanto la genesi, in questo mondo che le mescola a ogni istante, genesi-apocalisse o apocalissi-genesi snodata sopra una caule neuronale.

375 + 571 + 637 = 1583. Tante sono le pagine che compongono l’edizione italiana della trilogia Abbacinante pubblicata dalla casa editrice Voland tra il 2008 ed il 2016 a firma del genio letterario Mircea Cărtărescu, scrittore incredibile che ha inciso il suo testo a mano con un inchiostro che mescola tutti i liquidi e gli umori contenuti nel corpo umano: sudore, urina, sperma, saliva, sangue, lacrime, e molto altro che ancora non ci è dato comprendere perché lo sforzo che sta dietro ad Abbacinante dà origine ad un’Opera che non sta dentro le unità di misura, dire che esonda è poco, che esorbita non è abbastanza, che universalizza non è esatto, davvero: non si può parlare di un libro che si aggiunge alla lista delle pietre miliari dell’umanità dall’Odissea ad Infinite Jest, non si può e non si dovrebbe perché il rischio è quello di trasformare il proprio pensiero larvale in una monca protesi del colossale organismo originario, ma è un rischio che va corso anche solo per far sapere al mondo che Orbitor esiste, che è sugli scaffali delle librerie italiche le quali per un miracolo incomprensibile riescono a sostenere il peso di una galassia di carta che non abbiamo mai vissuto, e che, al contempo, conosciamo come le nostre tasche perché come tutti i capolavori di qualunque settore artistico il dialogo che alla fine si instaura con l’annesso fruitore è figliale, ombelicale, leggere Abbacinante è come ripercorrere cent’anni dopo il canale vaginale della propria madre e acquattarsi nuovamente nel tepore ovattante del liquido amniotico.

Si è visto di quanto i postumi di una dittatura annichilente hanno contribuito in Romania al fiorire di un movimento cinematografico che dal 2000 in poi è salito in cattedra, i vari Puiu e Mungiu razzolano ancora oggi nei più importanti Festival internazionali e col tempo si sono costruiti una solida fama nel loro ambito professionale, ma il cinema rumeno degli ultimi anni, pur avendo una radice culturale inevitabilmente simile alle produzioni di Cărtărescu, è un manufatto che vuole aderire il più possibile al reale e che lo viviseziona con fare autoptico, il buon Mircea si colloca invece in una posizione opposta: parte sì da basi concrete, quotidiane e personali, ma innesta all’interno di esse un impianto che deflagra in ordigni di potente surrealtà. Come in fondo molti, se non tutti, i grandi (e non) scrittori fanno, Cărtărescu nel suo romanzo uno e trino racconta essenzialmente la sua storia, in particolare l’infanzia, che è quella di un ragazzino nato in Romania in una famiglia povera e che crescendo ha visto allungarsi sul suo Paese la minacciosa ombra di Ceaușescu fino ad un teso ed inevitabile punto di non ritorno. Quindi, all’interno della trilogia si alternano diversi piani narrativi che riguardano sia la biografia del suo autore che quella della nazione di cui fa parte, ma di certo non si può liquidare così la faccenda: la complessità e la varietà di punti di vista, di narratori interni, di digressioni rendono Abbacinante, e forse specificatamente L’ala destra, il testo massimalista che l’Europa non aveva ancora avuto.

Proprio in questa terza parte le due succitate componenti (storia & Storia) raggiungono apici altissimi in cui Cărtărescu dà l’impressione di poter proseguire oltre l’infinito. Attraverso un linguaggio che è colla e che stordisce tra riferimenti religiosi e voci da manuali di medicina (l’unico appunto lo faccio all’uso esageratamente frequente della parola “cranio”, non so se si tratta di un problema di traduzione ma è un lemma troppo diffuso nel racconto), L’ala destra è sia compendio e approfondimento dell’infanzia/adolescenza di Mircea segnata in modo indelebile dalle figure genitoriali così come è indelebile il ritratto che ci viene offerto dei due, in particolare quello della mamma, sia penetrazione nel tessuto politico della buia epoca di Ceaușescu (e questa è una novità rispetto ai due capitoli precedenti). In entrambi i casi l’ex poeta bucarestino strabilia per la capacità di compiere accelerazioni che folgorano e che divelgono letteralmente i paletti della logica, così piano piano, parola dopo parola, il confine che separa il possibile dall’impossibile si smaterializza e quello che si crea è un tutto che è Tutto, una visione dantesca che si avvicina al divino e, ovviamente, anche al luciferino. Non si contano i cortocircuiti spazio-temporali che crivellano la trilogia, come non si contano i salti in avanti bilanciati da ricordi ancestrali e da altre diramazioni sanguigne che sbocciano da una pagina all’altra, e questo smisurato quadro popolato da miriadi di personaggi che potrebbero essere usciti dal pennello di Bruegel e che invece sono figli dell’immaginazione dello sconosciuto Monsù Desiderio, artista d’apocalissi seicentesco, a sua volta cellula del mondo-abbacinante, arriva ad un suo completamento nella conclusione de L’ala destra, un imbuto dove quel tutto trova una collocazione nell’universo letterario che, alla fine, è l’universo tout court. Di quanto ci sarebbe da dire, mi preme sottolineare il compimento dell’ossessione rivolta al concetto di simmetria che attraversa l’intera struttura, e grazie ad un finale biblico viene sancito lo strepitoso incontro tra Mircea e Victor, tra un’ala e l’altra, tra un riflesso e l’altro, e quello che si scatena è una fine del mondo che si consuma tra l’amore fra due fratelli e l’ascensione di un popolo sottomesso al cielo, tra lo sfolgorio di un fiammifero ed il fragore immane del big-crunch tombale.

Io che non sono niente mi chiedo come abbia fatto Cărtărescu, una volta posto l’ultimo punto al suo monumento di carta, a rapportarsi con le bassezze dell’umano circostante, se scrivi un libro del genere, se dentro la tua scatola cranica gli impulsi elettrici del cervello trasmettono pensieri e idee di questo tipo, non sei una persona come le altre, sei una lanterna, una candela, una fiamma che arde e che irradia un bagliore, è il caso di dirlo, abbagliante. Abbandonate immediatamente qualunque romanzetto voi stiate leggendo e immergetevi subito nei tumulti di Abbacinante, perché ci sono tanti bei libri in giro, ma nessuno è come questo.

mercoledì 21 dicembre 2016

Les lignes ennemies

Coetaneo di Curling (2010), Les lignes ennemies è il primo film di Denis Côté che si allontana dal focus sull’umanità periferica incastonata in una geografia precisa (succederà [forse] anche con Bestiaire, 2012), in favore di un lavoro meno votato al confronto diadico uomo-ambiente, e ancor meno contornato da tratti certi. Non che il cinema di Côté abbia mai abbondato di didascalie (per fortuna! Un motivo per apprezzarlo è proprio questo), ma qui siamo al cospetto di una vera e propria sospensione descrittiva: molto bene: la totale inconoscibilità della situazione solleva il film da qualsivoglia aderenza narrativa e allora eccoci introdotti in una guerra che non ha nemici, o forse, senza sfociare nella retorica spicciola, è proprio la guerra in sé a non avere nemici visto che chi sta nella trincea opposta “ha comunque lo stesso identico umore”. Non essendoci nessuno contro cui combattere, la linea di Côté non è materialmente calpestabile, è una sensazione, un’atmosfera buzzatiana di continua ed inutile attesa. Va quindi detto che Les lignes ennemies è marcato da episodi squisitamente estemporanei che divaricano le serrature del reale contribuendo a spingere il film in territori di un altrove dove finestre oniriche invadono la diegesi sottoforma di pulsione muliebre (le donne sono vietate dal capo, il nemico è una donna. Ma nuda) e dove gli uomini possono svanire nel niente infilandosi in una catapecchia.

Le ipotetiche letture montano a fine visione, e crescono: Côté metaforizza. Questa è la guerra, dice. Un’ossessione da omini come il capetto che non ammettono ironia o svago, una caccia al fantasma con le armi e le mimetiche, ma non ho mai capito (come credo non l’abbia mai capito neanche questo regista canadese) come può l’Uomo confondersi nella Natura mettendosi addosso degli stracci verdemarroni. È il fallimento il sentimento che prevale, l’impotenza che nasce dalla non avvenuta prevaricazione sull’altro. Ma Côté, soprattutto, parodizza rendendoci consapevoli di un’altra sfumatura del suo tragitto autoriale, e la parodia si fa allora motivo portante: oltre l’inattendibile commando che compie sommosse da principianti, e oltre l’inaspettata parentesi comica col gruppo di podisti, è nel lungo finale che Côté si adopera in una sorta di smilitarizzazione dei soldati in scena, al posto di esibire platealmente uno scontro a fuoco che avrebbe vanificato tutto l’impianto teorico, continuiamo a brancolare in una stasi dove i combattenti smettono idealmente la divisa per ricongiungersi alla forma originaria di se stessi, che non è sicuramente quella bellicosa: un bruco viene delicatamente posato sul terreno, un commilitone fa uno scherzetto al compagno addormentato, il capo cede e chiede un massaggio alla dolente schiena.

Ciò che si profila al termine del film (e una ragnatela che copre un fucile lo fortifica) è un refolo pacifista che passa lieve, senza le ampollosità del caso, senza voler impartire lezioncine para-edificanti, restando, al massimo, un’eventualità perché Les lignes ennemies non è il cinema moraleggiante che ti hanno obbligato a subire, ma esemplare accogliente capace di alimentare con discrezione urgenti dibattiti esteriori (la guerra dell’uomo) e interiori (la guerra nell’uomo).

domenica 18 dicembre 2016

Nude Area

Sono molte, ma davvero molte, le perplessità generatesi dalla visione di Nude Area (2014), terzo lungometraggio per Urszula Antoniak nel giro di un lustro con ripresa della struttura in capitoletti di Nothing Personal (2009). Fin dall’inizio veniamo a conoscenza del fatto che non è la linearità temporale il dogma a cui la regista fa fede, infatti la disposizione dei frammenti è rimescolata in un andamento che anticipa e posticipa, nulla di così originale in effetti, al pari della mera storia: una storia d’inamore omosessuale: due ragazze che sono istanze di due culture, occidentale ed orientale. Come intuirete il substrato celato sotto la patina sentimentale è, o vorrebbe essere, politico, ma con le stesse modalità di Code Blue (2011), anche lì c’era una faccia più esterna come la solitudine ed una più interna come il discorso sulla morte assistita, la Antoniak non ha la forza di scendere o ascendere livellandosi in una zona che, detto in modo superficiale ed odioso per voi che leggete, “non mi ha trasmesso niente”. E la trasmissione in Nude Area dovrebbe sintonizzarsi su frequenze più alte rispetto ai soliti film dalla grana sentimentale, perché la regista opta per la radicale scelta del silenzio, le due ragazze, per tutta la durata dell’opera non si parleranno mai. A questo punto la Antoniak avrebbe dovuto cercare di renderci ricettivi nel campo delle sensazioni, di rendere il suo lavoro liquido, capace di tracimare placido, invece per chi scrive non è accaduto niente di questo, ciò che riempie lo schermo per ottanta minuti è un continuo immortalare gli sguardi reciprocamente languidi tra le due, tanto che alla fine la noia troneggia.

Lontano da un La vita di Adele (2013) qualunque poiché non vi sarà alcuna catarsi amorosa qui, nel gioco di occhiatine, carezze e risatine il punto di massima compenetrazione lo si ha col finale aperto a svariate interpretazioni, nessuna comunque di particolare esaltazione. Col suo fare polare Urszula Antoniak iberna qualsivoglia impennata emotiva restituendoci un quadro inerte che, tanto per usare un’altra frasetta fatta tipicamente recensionistica, “non arriva”. Ricapitolando abbiamo: un argomento usurato dove il correlato trattamento, pur mostrando una discreta audacia (l’assenza dialogica), non porta a risultati inebrianti, è come se la Antoniak fosse troppo presa dal vezzo di raccontare una storia senza parole da dimenticarsi di cosa effettivamente stesse narrando, e in più la tesi sociale della crasi tra una realtà europea e una araba non è resa in modo capiente, a parte il continuo sottrarsi della riccioluta (atteggiamento che farei ricondurre alla religione d’appartenenza senza però esserne troppo convinto), non ho rintracciato ulteriori elementi in grado di innervare l’incontro tra gli antipodi, quindi se al posto della ragazza di colore ci fosse stata una coetanea caucasica poco o niente sarebbe mutato. Da tali premesse è automatico trarre delle conclusioni: sconsiglio a gran voce Nude Area, esempio di un cinema involontariamente, o forse no, reazionario.

lunedì 12 dicembre 2016

In the Basement

Reduce da una trilogia che aveva nell’ultimo capitolo Paradise: Hope (2013) il punto più infelice di tutta la filmografia seidliana a causa di un incanalamento narrativo troppo convenzionale dotato di occhiolini gratuitamente provocatori, Ulrich Seidl ritorna ad una dimensione a lui più consona, quella che va a costituirsi nella sua tipica visione frontale: guardare dritto per dritto, come pergamene ammuffite srotolate sullo schermo, per guardare dietro la patina imbiancata della borghesia austriaca. È un atto che il regista viennese compie da tempo immemore e che negli anni ha ricalibrato verso tematiche riconducibili all’esistenza del quotidiano, come se l’ectoplasma di Josef Fritzl sempre aleggiasse tra un fotogramma e l’altro. Presa coscienza di un tale tragitto autoriale, continuo ad avere dubbi di non poco conto sul cinema di Seidl al giorno d’oggi. Prendiamo Im Keller (2014), certo la provocatorietà, l’oscenità, lo “stile”, eppure a chi scrive non è bastato. In fondo In the Basement non è altro che il seguito ideale di Animal Love (1996) in cui Seidl compiva un simile blitz domestico svelatore dei lati nascosti di persone cosiddette normali. Quindi assistere ad una sorta di rimasticatura di un film girato quasi vent’anni prima non può che spegnere qualunque fiamma euforica, non solo, a mano a mano che lo sviluppo di Im Keller si fa evidente, emerge un problema nodale che val la pena enucleare.

A priori c’è una contrapposizione troppo lapalissiana tra quello che l’umanità di Seidl è nella vita normale e quello che diventa (probabilmente è il contrario: diventare prima, essere dopo) nella cantina di casa. Ovvero: così strutturata l’opera non ha un’organicità degna, si trasforma pian piano in un giochetto dove si spinge il pedale della morbosità in modo sconsiderato tanto che non si è più di fronte ad una possibile esplorazione del dietro le quinte di talune esistenze, ma, agli antipodi, si è vittime anche un po’ tediate dell’aberrante panoramica proposta. L’assenza di un senso unificante, o della sua innegabile debolezza per chi riesce comunque a ravvisarlo, non fa che sminuire il realizzabile del film castrato da una politica fallace: mostrare il lato oscuro dell’uomo attraverso una catena sconnessa di depravazioni fa precipitare il tutto nelle mortali sabbie mobili della prevedibilità. Non è tanto che si può prevedere quale sarà la perversione di turno, quanto sapere con esattezza che ci verrà illustrata una perversione tout court. La regolarità del flusso para-narrativo uccide l’interesse di quanto raccontato che, per dirla tutta, vista l’epoca internettiana non è nemmeno così sconvolgente, rimane al massimo l’autoapprovazione di un regista che per il mio vedere e sentire è solo preoccupato a piazzare davanti alla mdp un po’ di scandalo che possa incrementare la sua fama ed il suo conto corrente.

venerdì 9 dicembre 2016

From One Second to the Next

Questo non ha niente a che fare con il consumismo né fa parte del mondo pubblicitario. Tutta questa campagna ha come obiettivo quello di dissuadere da un uso smodato di un prodotto. È una campagna. Non stiamo provando a vendere niente. Cerchiamo solo di sensibilizzare l’opinione pubblica.

(Herzog ipse dixit qui)

Werner Herzog per il sociale: From One Second to the Next (2013) è un breve documentario commissionato al regista tedesco dalla compagnia telefonica texana AT&T che rientra nel progetto It Can Wait, piano di coscientizzazione sul cosiddetto “texting while driving”. L’uso del pronome “it” sottende una sottigliezza sfuggevole ai più, con il soggetto così impersonale chi può aspettare non è tanto la persona che sta attendendo il messaggio dall’altra parte del filo invisibile, bensì Colei che porta con sé Il Messaggio definitivo ed incontrovertibile. Ok. Senza inutili voli pindarici: il lavoro in questione ha, come nella migliore tradizione del genere, uno spirito didattico e d’ammonimento che si esplicita attraverso le testimonianze dirette, lo stampo è televisivo ed in linea con le Pubblicità Progresso di tutto il pianeta Terra: mentre si guida non devi messaggiare! Rischi di uccidere la gente innocente! Proiezioni nelle scuole e visualizzazioni a milioni su Youtube.

Ovviamente qui non vi è traccia di Cinema, come d’altronde non ve ne è più da molti anni nell’usus scribendi del regista teutonico trapiantatosi stabilmente in America, e c’era da aspettarselo poiché From One Second to the Next contiene in sequenza tutto uno stuolo di attendibili sentimenti: rabbia dei parenti che hanno perso per sempre, sensi di colpa laceranti per gli ex-accaniti messaggiatori, lo strazio di chi è sopravvissuto e ora sottovive, la redenzione con l’abbraccio conclusivo. Non sminuisco niente, né addito Herzog per aver partecipato a tal proposito, sfido, però, a trovare un vero appassionato di Visioni soddisfatto… a fine visione. Disancorandoci dall’innegabile tragicità e dal suo condivisibile messaggio, non rimane granché di toccante del corto, ma forse non è colpa di Herzog, e forse non c’è nemmeno una “colpa”, è semplicemente il mondo di oggi che ruota ad una velocità inumana e che in questa stordente giravolta sputa dolore e dramma attraverso le sue fetide bocche, che sono Twitter, Facebook, i Tg e gli approfondimenti in seconda serata, e che hanno rivoltato la nostra sensibilità, ad oggi riusciamo ancora a rabbrividire per il cadavere di un bambino su una spiaggia turca o per un’assurda mattanza dentro ad un teatro parigino, ma per le vittime degli incidenti stradali? Troppo banali. Ecco: i media sono riusciti a banalizzare la morte e quando un medium utilizza i loro appiattenti codici non può che subire “la legge della pialla”. Ciò che spiace di più è che Herzog non lo abbia compreso, o che pur sapendolo non abbia fatto niente per smarcarsi dalle costrizioni metodologiche che imperano nella comunicazione moderna. Eppure, da qualche parte, ci sarà ancora la sapidità di Segni di vita (1968)…

lunedì 5 dicembre 2016

Noche

Chi ha visto Noche (2013) di Leonardo Brzezicki sa che si tratta di un Signor Film, un film che esorbita nel suo riuscire a dare forma ad uno spazio che non ha dimensione, che è quello del lutto, e quindi di un sentimento profondamente personale, unico, sito dentro il cuore di chi è ancora vivo. Girato pressoché esclusivamente in ambienti esterni (tranne l’apice del suicidio riascoltato che agghiaccia e immobilizza) senza l’ausilio di luci artificiali, l’opera prima di Brzezicki è un oggetto ferino che si inserisce con grandiosa personalità in quel clan naturalistico dove il cinema è un portale verso mondi squisitamente sensoriali, gli unici che possano far sussultare realmente la nostra percezione. Non vorrei apparire pedante avendo già ripetuto tali concetti parlando di altre due eccellenti visioni sudamericane (Leones [2012] e Las letras [2015]), ma è proprio con i metodi utilizzati da Brzezicki che si compie nella sua pienezza l’atto di Vedere e questo traspare non tanto dalla necessità di ricostruire il puzzle della storia, quanto dai presupposti, dalle possibilità, dagli abbrivi che il film fornisce e che non hanno alcun manuale di istruzioni con sé, e allora, a prescindere dall’alone di enigmaticità (comunque bellissimo e magnetico), si profila quella libertà ossigenante che dovrebbe essere propria di ogni pellicola, è un prodigio dell’arte poter lasciarsi andare in un flusso espositivo come quello di Noche dove niente è certo, fisso, nemmeno i campi di ripresa che si dissolvono a vicenda generando nuove sovrapposizioni e prospettive.

I complimenti a Brzezicki vanno fatti oltre che per la gestione tecnica della sua creatura anche per l’idea che la costituisce poiché in un cinema autoriale che sembra costantemente rapportarsi col concetto di Fantasma (Alonso, Weerasethakul, qualcosa di Tsai), la proposta dell’argentino è un refolo d’aria stordente che mescola, come raramente è stato mai fatto, le coordinate spazio-temporali attraverso un impianto che fa principalmente leva sulla componente sonora. È una buia meraviglia. La ragnatela di registrazioni che punteggia il soggiorno evocativo del gruppo di ragazzi è un’enorme seduta spiritica che ha come medium l’energia elettrica o, in surrogato, le pile alcaline dei piccoli registratori. Da suddetta carica si genera la forza azzurra e scintillante delle parole, dei ricordi di un suicida che felpatamente si introducono nella staticità umida del bosco e che porta con sé un carico terremotante, e quindi ancora energia, accumulo, onde come cerchi nell’acqua che si espandono e richiamano a loro echi di un dolore che si materializza nel boato di uno sparo (“la caccia è iniziata”).

In generale, penso che grazie al suono viviamo emozioni impossibili da articolare altrimenti in modo razionale, e alla base del film c’è proprio la voglia di fare qualche esperimento con un elemento che funziona soprattutto a livello emotivo. Spezzare con il suono la linearità del tempo e dello spazio, lavorare con uno spazio trasformato dal suono stesso in una dimensione indipendente rispetto all’immagine, ritrarre sensazioni e stati mentali in modo sottile: ecco dove nasce Noche.

(Leonardo Brzezicki da qui)

venerdì 2 dicembre 2016

The Lobster

Sarò brevissimo.

Dopo la prima visione che avvenne in sala al tempo della sua distribuzione italica (ottobre ’15), una seconda visione di The Lobster (2015), questa volta casalinga e in versione originale, ha chiarito le idee sul film e sul cinema di Lanthimos in generale. Siamo tutti figli di Dogtooth (2009), un’opera che era arrivata come un meteorite e che ancora adesso penso possa essere considerata un punto fermo per la contemporaneità, non a caso da lì è fiorito un movimento tutto ellenico che per quasi un quinquennio ha attirato l’attenzione di tutti i cinefili del globo. Poi è giunto Alps (2011) e dopo ancora The Lobster: bene. Credo si possano tirare delle conclusioni che così sintetizzo: ognuno di noi ha piacere nel vedere i lavori dell’autore ateniese perché dotati di una scrittura forte e originale, oggetti che non si conformano con il resto e che mantengono alla base un deciso monito verso l’umanità al di là dello schermo, e qui arriviamo ad un punto interrogativo a cui non sfugge nemmeno l’ultima pellicola presentata a Cannes ’15. È vero che non si conformamo con buona parte della settima arte narrativa che c’è in giro, però, ad oggi, le sue opere si allineano tra di loro e ciò non è bene poiché Yorgos finisce per utilizzare un credo che addita talune istanze genuinamente umane divenute delle schematizzazioni sociali (la famiglia, il lutto, l’amore) attraverso... una schematizzazione, infatti il metodo di Lanthimos si sta dimostrando film dopo film una riproposizione di un preciso modello che fa esclusivamente leva sull’allegoria. È come se per mezzo dei suoi circuiti parossistici e delle sue accelerate paradossali avesse montato una gabbia dalla quale non vuole uscire, ogni cosa che racconta deve passare attraverso il filtro dell’assurdo trasformando così le storie narrate in una algoritmica fiaba caustica dotata di immancabile sottotesto. Con delle imposizioni del genere la visione scema di libertà “esperienziale”, non che The Lobster o gli altri fratellini soffrano di didascalia acuta, assolutamente no, ma latita una possibile e auspicabile apertura verso le vastità delle visioni autentiche. Su quanto appena detto ritengo si possa dibattere in modo da andare oltre agli elogi a senso unico.

martedì 29 novembre 2016

Ursus

La carta non scomparirà. Ma penso anche che non è così fondamentale il mezzo – che sia carta o qualcos’altro. Mi pare davvero che sia importante cosa si fa, non su cosa o con cosa. Nessuna delle mie illustrazioni viene consegnata sul classico supporto di carta. Io lavoro col digitale, e disegno su portatili e tablet.

(Reinis Petersons, il regista di Ursus [2011], da qui)

Nelle parole dell’animatore lettone Petersons c’è una piccola verità, ammesso che le verità possano essere piccole: un artista visivo del terzo millennio non può più prescindere dall’uso del digitale, questo vale per il live action (alla pellicola profetizzo un’aspettativa di vita intorno ai tre lustri, non di più, dopodiché con ogni probabilità subirà un normale processo di museificazione, ma di questo i bolsi spettatori non si accorgeranno nemmeno), e come ben si sa anche nel campo dell’animazione. Tuttavia un tale preambolo rischia di portare fuori strada perché Petersons ha disegnato il suo Ursus completamente a mano con carboncino e tante sfumature, tutte tendenti al nero. Certo è che se il corto in questione fosse nato dalla matita di un Aleksandr Petrov qualunque (mi si perdoni, ma è l’unico illustratore “classico” che conosco un po’ di più), il risultato penso che avrebbe avuto un grado inferiore di fascinazione. Ciò è dovuto al fatto che sebbene il processo creativo di base possa essere lo stesso del regista russo (neanche per sogno: Petrov usa una tecnica tutta particolare, voglio dire che ambedue non utilizzano CGI o diavolerie del genere), il registro estetico di Petersons vince per il proprio afflato moderno. Non c’è la tipica esplicazione del disegno né la pomposità scenica, al contrario troviamo sporcizia, imprecisione, continui sfarfallamenti e sbrodolii di tratto, il che capisco che non possa bastare per identificare come “moderno” un prodotto di animazione, ma i principi di un lavoro che si rivolge perlomeno al presente, dire al futuro è un’esagerazione, sono rilevabili, forse più a livello intuitivo che fisiologico.

Poi la storiella è quella che è e se l’opera non decolla lo si deve alla materia narrativa che porge il fianco alla derivazione. Più che altro sono i concetti ad essere già stati visti e uditi nel genere di riferimento, d’altronde un orso antropomorfo che non se la passa troppo bene tra il poco appagante lavoro al circo e l’utopia di una natura che possa riaccoglierlo sono stati parafrasati negli anni da all’incirca tutte le case di animazione del pianeta (non mi riferisco al caso specifico, piuttosto alla tendenza ad umanizzare l’animale, un giorno gradirei assistere ad un uomo animalizzato… meglio di no, la tv basta già di suo), e così pure il finale che si accoda al dogma della conciliazione col pubblico ubbidiente. Oh, però il tatto non manca e la partitura ha una flebile risonanza nostalgica. E l’orso, comunque, ispira tenerezza.

venerdì 25 novembre 2016

Materia oscura

È lo stesso meccanismo de Il castello (2011) a sorreggere Materia oscura (2013), altro film della coppia D’Anolfi-Parenti che ha come target quello di portare a conoscenza una certa questione ma senza esaltazione alcuna, tentando un aggancio a quella strana cosa che è la realtà in rapporto al mezzo cinema. La certa questione è: sperimentazioni belliche presso il Poligono di Salto di Quirra, Sardegna orientale, praticamente una santabarbara a cielo aperto dove dal ’56 in avanti sono state testate le peggio cose che l’uomo in millenni di storia è riuscito a partorire: le armi. Grosse armi: bombe, missili, e altre pericolose schifezze. Dunque è vero che come nel Castello si procede attraverso un metodo che appaia la narrazione all’immagine, ma qui, va detto subito, mi pare si possa parlare di uno step oltre, forse è l’abbandono alla ciclicità imposta nell’opera precedente che forniva ancora delle coordinate orientative, o forse è lo sguardo di D’Anolfi (è sempre lui ad occuparsi delle riprese) sul territorio sardo, ben diverso dall’asetticità di un aeroporto, che richiama quella componente atavica della natura, di sicuro Materia oscura è di più, è uno scenario dove purtroppo si prende atto dello scontro fratricida tra l’ambiente e l’uomo che lo abita, ma chiaramente è un conflitto impari: laddove gli abitanti reagiscono nel modo più nobile ed alto che può esserci contro un’immotivata dimostrazione di forza: la resistenza, gli animali si deformano, muoiono, così come le persone. Nel mentre, e il finale-pietra-tombale ce lo rammenta, il cielo è sconquassato da assordanti esplosioni. A Salto di Quirra il mondo esplode.

Il cinema antiletterale di D’Anolfi e Parenti veicola immagini di ieri e di oggi creando dei vertiginosi cortocircuiti temporali che fanno stare male: ai video archivistici, al sibilo dei fotogrammi che scorrono muti e ai totem dalla coda infuocata che si alzano sul cielo isolano per poi deflagrare, rispondono subito dopo, in un passaggio che solo il cinema può regalare, due allevatori impegnati nel tentativo di allattare un vitellino moribondo, e qui, in una sequenza con camera fissa, si è testimoni di una silenziosa detonazione, ben più devastante di qualunque ordigno militare: la morte. In questo cappio di cause ed effetti presentati per quello che fattivamente sono, lo spettatore non può che addentrarsi nella selva dell’amarezza guidato da un cinema virgiliano: non ci sono più stelle da vedere, solo i frammenti incandescenti della bestialità umana dopo lo scoppio.

giovedì 17 novembre 2016

Terminus radioso

Antoine Volodine
2016
66thand2nd; 544 p.

I suoi libri erano, almeno in linea di principio, delle opere distinte, cui lei, una volta terminate, assegnava un titolo, ma benché presentassero dei tratti specifici e non riproponessero i medesimi personaggi, avrebbero potuto essere tranquillamente accorpati in un unico e interminabile volume. Tratteggiavano in effetti la medesima sofferenza crepuscolare di tutti e di tutte, una quotidianità magica ma priva di speranza, il degrado organico e politico, la resistenza infinita ma non vagheggiata alla morte, la perpetua incertezza rispetto alla realtà, o anche un incidere carcerario del pensiero, carcerario, offeso e folle.

Sono arrivato ad Antoine Volodine grazie al blog di quella che ritengo essere, ad oggi, una delle migliori penne del nostro Paese: Giuseppe Genna, il quale tempo fa ha riportato sul proprio spazio virtuale un breve ma interessante intervento di Vanni Santoni sullo stato attuale di certa letteratura europea e di certe tendenze che pare stiano fiorendo in barba al predominio statunitense degli ultimi anni. L’articolo sta qui, mentre Terminus radioso, edito dall’elogiabile 66thand2nd in un’ottima veste grafica e tradotto, si immagina, non senza difficoltà da Anna D’Elia, sta ancora più qui, proprio affianco alla tastiera con cui batto queste quattro sciocchezze e più guardo il volume che occupa in questa porzione di mondo e più il suo contenuto evade i confini, diventa iridescente, è la radioattività, l’essenza sciamanica, è il nocciolo tossico di una prosa che forse forse non è nemmeno il meglio di ciò che offre il mondo letterario [1], come se la prosa fosse il fine ultimo di ogni giudizio critico, magari è così, io non lo so, io ho solo Terminus radioso che ancora folleggia nel mio cranio e in uno slancio stupido finanche immotivato sento me stesso come uno degli eteronomi di Volodine che avendo letto i suoi scritti ne è rimasto contagiato e ha fatto sì che tutti i miserevoli personaggi che popolano questa storia siano continuati nel mio inchiostro celebrale a non-morire anche dopo l’ultima pagina; eteronimia: perché lo scrittore in questione ha costruito un progetto inessenziale (su cui non mi dilungherò poiché è ben spiegato inogniddove) che si fa beffa delle etichettature accademiche e che trae linfa dalla diade sempre fertile fiction e non-fiction: il post-esotismo non esiste nella realtà! Il post-esotismo esiste eccome.

La gittata ludica di Terminus radioso arriva lontano perché come per ogni gioco dove il divertimento sta proprio nel giocare, è proprio bello leggere Volodine, è straordinario, e si potranno usare tutte le definizioni idriche che vi aggradano maggiormente (scegliete pure tra: alluvionale e/o fluviale) per condensare un testo che abilmente ci frega perché non fa altro che essere un testo moderno. E non intendo “testo” in quanto “libro” bensì un manufatto equiparabile ad un film, ad una canzone, ad un quadro o a qualunque altra espressione artistica che possiede i connotati di una contemporaneità che non ha più bisogno di paletti, semplicemente: questo non è un libro di fantascienza sebbene lo sia nel suo involucro. Non ho mai avuto il piacere di leggere McCarthy che immagino sia la prima pietra di paragone quando nell’area-romanzo si parla di post-atomico, però sono convinto che il discorso di Volodine possegga traiettorie diverse che se ne sbattono del genere di riferimento e che si direzionano verso “un futuro riposto nei lati oscuri della nostra coscienza” [2], e non solo, perché ciò, in fondo, è quello che accade in ogni opera post-apocalittica, la vera forza di Terminus radioso è quella di essere un oggetto selvatico fino al midollo che per chi scrive non ha nemmeno poi chissà quale monito che dovremmo ricordarci sempiternamente, l’idea di una resistenza al furoreggiare del capitalismo attraverso il proletariato marxista come può sposarsi con l’attualità? Credo in nessun modo, e va bene così poiché scartate le sovrastrutture narrative non rimane che l’illuminante essenza di un metodo che scrive soltanto per il meraviglioso gusto di farlo e che dal nulla ha creato un’epica indimenticabile.

Non credo sia un caso se nell’ultima bellissima parte del libro tutto si stinge e si avvicina al dolce lucore dell’oblio, Volodine, che per segnare un passaggio temporale se la cava così: “dopodiché, volenti o nolenti, un buco di sette secoli”, con l’approssimarsi della conclusione abbandona ogni personaggio a se stesso nella sconfinatezza di una taiga che è diventata l’unico mondo possibile, in sostanza non c’è più niente: né case, né idee, né politica, né umanità, il tendere ad un tale zero assoluto mette ancora più in risalto il talento del francese che ovviati gli attributi romanzeschi galoppa verso un’Omega indicibile dove la dissoluzione totale è l’unico e ultimo porto in cui poter approdare, e lo racconta magistralmente attraverso episodi che segnano una disgregazione verso cui, e non chiedetemi perché, si prova una forte nostalgia, anzi chiedetemelo: perché è il vento del tempo che spira dentro Terminus radioso, la malinconia delle cose andate la cui forza, giorno dopo giorno, millennio dopo millennio, sparisce come un filo di fumo senza poterci fare niente, e tutto finisce e di noi, di me e di te, non resterà più alcuna memoria. 
D’altronde... io o te, poco importa.
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[1] Il meglio, ora, è Mircea Cărtărescu.

[2] Così recita l’aletta di Angeli minori, raccolta di narrat (raccontini dell’universo volodiniano), pubblicata da L’orma.

martedì 1 novembre 2016

Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker

Non era necessario un film come Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker (2013) perché più che un documentario sulla realizzazione de Il cavallo di Torino (2011) è un’opera di spiccato voyeurismo dove Jean-Marc Lamoure (all’improvviso, uno sconosciuto) conscio dell’epicità del momento non può che limitarsi a spiare il procedere del processo filmico, come un guardone si fa piccolo piccolo mentre Tarr concerta insieme ai suoi collaboratori l’andamento di quello che sarà il proprio capolinea artistico. Guardando il lavoro di Lamoure mi è sobbalzato alla mente, per motivi inspiegabili, anche se credo che ci sia sempre una specie di ragnatela di fondo che unisce tutte le cose che apprezziamo le quali restano connesse attraverso fili lunghissimi, il divertente saggio di David Foster Wallace intitolato David Lynch non perde la testa [1] dove lo scrittore americano si infiltrava nel backstage di Strade perdute (1997) per cogliere col suo occhio chirurgico i tic del set cinematografico, la storia dice che Wallace, durante quei giorni, non riuscì mai ad incontrare Lynch, il punto di massimo contatto fu vederlo pisciare tra degli arbusti. Anche Lamoure non incontra mai Tarr, e non ci prova nemmeno: ad esclusione di alcuni inserti discutibili che sembrano girati in super 8 con annessi filosofeggiamenti dell’ungherese, non vi è il tentativo di affrontare e approfondire una poetica-mondo che ha segnato la storia del contemporaneo, ci si limita alla contemplazione del metodo professionale, alla comunque inevitabile presenza della finzione e alla manipolazione quasi comica (gli uomini coi sacchetti pieni di foglie secche e quegli ingombranti ventoloni). Niente di impensabile se si conoscono un minimo le prassi tecniche di un film, e non per niente i concetti più interessanti emergono quando ci si allontana dal set di A torinói ló, sicché nelle testimonianze della crew di Tarr si rintraccia un commovente senso di appartenenza (la storia di Erika Bók è la cosa più bella del film) e un’ammirabile condivisione di vedute.

Quanto detto non sta a significare che essere dei voyeur sia così sbagliato. Se si prova un “piacere” nel guardare il dietro le quinte del Cavallo di Torino è quella curiosità che si traduce nella pulsione scopica di vedere, di capire, di comprendere cosa c’è dietro e dentro un capolavoro del cinema odierno. Qualcosa si riesce a carpire, ma sono inezie che riguardano al massimo briciole del Tarr-essere-umano (la presenza della fedele moglie e un bacetto sulla guancia rubato da Lamoure) o del Tarr-regista (l’attenzione durante le scene, la convivialità che caratterizza il gruppo prima del ciak), ma in realtà, anche dopo la proiezione di Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker, restiamo inevitabilmente ciechi come nella scena della collina, semplicemente non possiamo vedere oltre, certe luci, e certi bui non sono catturabili da quelle biglie di acqua e tessuti che abbiamo sotto la fronte e che separano il vedibile dal sentibile. E a proposito della collina, che è un punto chiave e Lamoure sembra darmi ragione aprendo e chiudendo lì, è un onore avere l’opportunità di posizionarci, anche solo visivamente, su di essa, alla fine in quel paesaggio verdeggiante con la casa custodita da un uomo semplice mi è parso che questa storia eterna cominciata nel ’79 con Nido familiare possegga perfino un lieto fine.
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[1] Tennis, TV, trigonometria, tornado. E altre cose divertenti che non farò mai più; minimum fax 2011.

giovedì 6 ottobre 2016

Le delusioni sono unite dalla ferrovia

Finalmente, dopo lunghi giorni fatti di trepidante attesa, il Detective lo chiamò: Signor Farfalli so tutto. Sapeva tutto. Dicadica Esimio. Allora: la sua ex moglie ha una relazione con un’Ombra. Veramente il divorzio non è ancora… un’Ombra… senta io, cioè, sì, ho bisogno di sapere di più. Fanno altri 300 €. Non li ho. Sfarfalli lei non ha mai niente! È un essere abietto che passa le giornate ad ispezionarsi l’ano con l’indice incappucciato nella carta igienica! Va bene… domani le farò il bonifico, però la prego: voglio nome, cognome, indirizzo, ogni cosa.
Ogni cosa.
Ombre.
Il passatempo preferito di Farfy era quello di aprire Google Maps e di paracadutare l’omino arancione che sta in basso a destra sullo schermo in un punto imprecisato del mondo, una volta, ad esempio, lanciato l’avatar dalle parti di Sapporo, gli capitò di trovarsi in una spiaggia ocra e ruotando l’immagine come se torcesse il collo vide un tizio in Montgomery blu che lasciava le proprie orme sulla sabbia. Dopo la telefonata con il Detective si affacciò alla finestra e impastò nel palato un blob di catarro che espulse nel vuoto sottostante, quel lungo filo giallo che terminava in un ovetto di densa saliva verdastra era l’omino di Google Maps, era l’avatar, era lui stesso proiettato sull’asfalto. Quella notte non chiuse occhio, eppure sognò di essere un gambero d’acqua dolce che viveva nella pozza oscura di una grotta millenaria, ogni tanto, quando il sole filtrava dalle fenditure in superficie e illuminava la parete del laghetto, poteva leggere queste antiche parole rupestri: E SE I GIORNI E LE NOTTI CHE TI LASCI DISTANTI TI RITORNANO ADDOSSO CON QUALCOSA DI NOSTRO.
Al mattino il gruppo di WhatsApp dei non-amici era già pieno di tette e culi, allora Farfallausen salì sul tetto della casa e tirò una forte bestemmia contro quell’Ombra che immaginava copulare selvaggiamente con l’ex moglie, sicché non gli rimase altra scelta che balzare nel cesto della sua mongolfiera e sollevarsi in volo come una lanterna cinese nel cielo adamantino. Mentre sorvolava un villaggio di centauri che al passaggio dell’arcobalenico aeromobile iniziavano a scalciare e a battersi il petto villoso con i pugni, il Detective chiamò: Fharhfallhen so tutto. Sapeva tutto. Dicadica Egregio. L’Ombra in questione… ha presente, no? Ecco, lavora alla stazione di Milano Centrale. Aaaah maledetto, ha pure il posto fisso il bastardo… voglio sapere dell’altro, voglio, voglio, voglio! Fanno altri 300. Occhei.
Si stava dirigendo al Lago Vomito perché comunque il Lago Vomito è un bel posto. Già in alta quota poteva avvertire quel tipico odore biliare che agguantava la gola e una volta ancorata la mongolfiera si incamminò sul lungolago, era una giornata meravigliosa e due piccoli fratelli siamesi attaccati per la testa costruivano dei fantastici castelli di muco, poco più in là la lenza di un anziano pescatore era tesa per via di un pesce fecaloide [1] che aveva abboccato all’amo. Farfallus de Farfallis pensò all’ex moglie come d’altronde faceva ogni istante della giornata e si convinse che anche Lei, in quel momento, stava pensando a lui, era logico, naturale, non c’era nessuna Ombra, sì c’era, ma non era importante, lui era importante, il più importante, non c’era spazio per altri, la verità era solo una: questa. Si gasò. Lanciò un urlo che spaventò i fratelli siamesi e che sconcentrò il pescatore, tolse i vestiti mostrando la patetica nudità del corpo umano antisportivo: la rincorsa fu goffa, il tuffo fece “blop” e sparì. Perché il Lago Vomito lo accolse come accoglie tutti gli scarti, e così scese a piombo nell’ammasso di bile e succhi gastrici, nelle pelli di pomodoro e di mais non digerite, nella pasta in bianco mangiucchiata e rimessa, negli ettolitri degli acidi alcolici rimestati dal fegato, nei rivoli ematici delle emorragie interne, nella melma biologica dell’umano, nel liquido di spurgo delle nevrosi, delle dipendenze, delle malattie, della rabbia, degli amori non più corrisposti. Farfallosos sprofondava piano, in estasi, e si fermò solo quando arrivò sul fondo dove secoli e secoli di conati ne avevano sedimentato il pavimento. Affianco a lui poteva scorgere la mezzaluna di un UFO incastrato sul fondale e dentro la cupoletta intravedeva la mummia di un alieno efebico. Proprio in quel momento drin drin Detective. Farfallovic! Ho una grossa novità. Grossa. Dicadica Illustrissimo. La sua ex moglie è incinta.
A quel punto, che non è un punto normale ma è un pozzo, una cosa nera, brutta e spaventosa, Farfallesky si sentì come quando gli umani prelevano un canarino da dentro una gabbietta: lo stringono nel pugno e quasi quasi sono tentati di stringere più forte per vedere fino a che punto il cuore dell’uccellino sarà in grado di resistere. Laggiù, nelle profondità vischiose del Lago Vomito, MacFarfall si arrese e iniziò ad aspirare. Che cosa? Tutto. Adesso voleva tutto dentro di sé perché per riempire certi vuoti non c’è altro modo che ingoiare il vomito planetario, e allora risucchiò l’inverosimile che è verosimile: era il peso limaccioso della sofferenza altrui che si depositava nel suo stomaco e che lo fece diventare una gigantesca palla di sostanze gastriche in ebollizione, e cominciò a sollevarsi da terra, e divenne una mongolfiera straripante di sbocco, un avatar rimpinzato di rigurgito, e vide l’UFO riattivarsi con intorno miriadi di pesci fecaloidi sbattere la codina escremenziale, e ritornò a casa sospinto dal vento lasciando dietro di sé refoli acidi e una pioggia di lacrime tristi, quelle che fanno nascere i fiori negli interstizi dei marciapiedi. Atterrato nuovamente sul tetto il globo-Farfalliño ebbro e dondolante si avvicinò al parapetto e ciò che doveva accadere, semplicemente, accadde. Con uno sforzo inumano ricacciò di nuovo quel tutto che aveva dentro nel campo di pneumatici abbandonati sotto il palazzo, e si creò un altro Lago Vomito perché le cose stanno così, e questi laghi sono nomadi in quanto si formano quando la gente sta male, e la gente sta male sempre, dappertutto.
Quella notte Von Farfall non dormì e non sognò niente perché non aveva più sogni, l’Ombra glieli aveva uccisi. Alle tre di notte inviò un SMS al Detective: domattina arriverò a Milano, mi porti dall’Ombra, farò una strage.
Partì all’alba, con il primo treno disponibile, insieme a lui tanti altri fantasmi con un peso sulle spalle e tanti chilometri da percorrere. Mentre il viaggio era un continuo tututump si assopì leggermente per ritrovarsi in una stanza scura illuminata da una lampada sopra un tavolino a cui era seduta la sua ex moglie. Lui le disse che era sempre molto bella e che non era affatto incinta, lei rispose che quello era solo un sogno e che nella realtà una piccola ombra di tre mesi stava crescendo nella sua pancia. Si ridestò per via di una brusca frenata del macchinista, per un attimo, sopra i binari, era fluttuata una donna enorme, sferica, ma giusto un attimo e poi era volata via oltre le colline.
Piacere io sono il Detective. Piacere io sono Far-Fal-lyn. Non si piacquero. Il Detective aveva una mano, un braccio finto e una profonda cicatrice dalla nuca fino a metà labbro, Farfalleïn, beh, era Farfallescu. Nel mare di persone vermicolari e lucertole in giacca e cravatta i due si diressero verso il bagno vicino al primo binario, sulla soglia il Detective sbarrò l’entrata con il braccio finto e tirò su quello buono sfregando il pollice con l’indice. 400 €. Ammazzerò quell’Ombra e riconquisterò mia moglie e voleremo con un aliante sopra le foreste e gli oceani. Sarà perfetto. Il Detective lo degnò appena di uno sguardo perché aveva solo un occhio vedente, poi fece strada tra i laidi cessi e accucciandosi per sbirciare sotto le porte fece un “ah” di autoapprovazione quando trovò quello che cercava. Era un bagno normale con le piastrelle impiastrate da numeri telefonici che poi erano gli stessi delle chat di gruppo di WhatsApp. Il Detective tirò la catena penzolante e una minuscola porta si aprì affianco alla coppa, poi prese un Montgomery blu sgualcito attaccato all’appendiabiti della porta e lo porse a Farfallanson. Se lo metta, addio. La ringrazio Detective, mi ricorderò di lei.
Il Signor Farfalli gattonò sul pavimento zuppo di urina ed entrò nella porticina che subito si richiuse alle sue spalle. All’inizio fu buio, dopo anche, in seguito non fu più né buio né luce, fu: Niente. E lui stesso non si percepiva nemmeno più come tale, non sapeva nulla, non pensava nulla, non c’erano ombre, era solo la Caduta Definitiva, lo spazio infinito che separa l’omino di Google Maps dalla partenza all’arrivo. Venne svegliato dal verso stridulo di un gabbiano appollaiato su uno scoglio, la spiaggia era deserta e lui iniziò a camminare, il telefono gli vibrò in tasca: APRI SMS: Detective: ma vede Signor F. lei adesso è davvero di fronte a tutto, è dove ognuno di noi giunge in un momento preciso della propria vita: sulla battigia di una spiaggia giapponese solo e smarrito.
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[1] I pesci fecaloidi appartengono alla famiglia dei pesci stronzei e i loro habitat naturali sono i laghi d’origine gastrointestinale. Il colore varia dal marrone scuro alla senape. Una volta ne ho visto uno.

mercoledì 5 ottobre 2016

Love Song

Fotogramma di una donna che sale delle scale su cui sono state poste delle candele accese. Cambio scena ed un uomo è disteso sul pavimento, affianco ha una sveglia che comincia ossessivamente a trillare, l’uomo si alza per gironzolare nervosamente nella stanza fatiscente, ad un certo punto scaglia una trave contro la finestra e con un coccio di vetro tenta di lavarsi i denti, poi si avvicina ad un lavandino fuori uso e con dell’acqua invisibile si deterge la faccia, infine mette su giacca e cravatta per inoltrarsi nei corridoi del palazzo mentre sullo schermo ritorna per alcuni istanti il viso della donna.

Quell’uomo è Sion Sono e Love Song (1984) è in assoluto il suo primo vagito nel mondo-cinema. Onestamente non riesco a trovare collegamenti significativi con il Sono che verrà, sì forse la figura femminile è un’antenata delle molteplici Mitsuko che popoleranno la filmografia del giapponese, ma è un laccio debolissimo nonché forzato da un’ostinata ricerca filologica da parte del sottoscritto. In realtà questo breve cortometraggio non ha nient’altro che non sia lo spirito amatoriale di un al tempo ventitreenne che inizia a cimentarsi nelle riprese con l’8mm, il che ci catapulta in avanti di ben ventinove anni sulle tracce dell’Hirata di Why Don’t You Play in Hell? (2013) e alla sua necessità di riprendere qualunque cosa gli girasse intorno. Pur non avendo punti intrinseci di memorabilità, Love Song resta una chicca per il suo essere miccia del dispositivo sononiano, la scintilla dove non c’era nulla (nemmeno Miike, il regista nipponico più vicino a Sono ha esordito negli anni ’90), il big bang che ha dato origine ad un universo in imperterrita espansione.

venerdì 30 settembre 2016

One on One

Mi chiedo come sia possibile che Kim Ki-duk non capisca di quanto il nuovo corso da lui intrapreso sia robetta alla stregua dei suoi film giovanili, ma almeno lì, sebbene si trattasse di oggetti più rudimentali, verdi, improvvisati, c’era un che di vitale, un qualcosa che aveva un’anima, adesso, da Arirang (2011) in poi, l’encefalogramma si è fatto piatto, anzi: è in perenne picchiata, tanto da poter affermare che ad ogni sua uscita artistica l’idea, poi prontamente smentita dal titolo successivo, è che non si possa far peggio di così. Non so e non voglio nemmeno pensare troppo se One on One (2014), altro lavoro spinto a Venezia dove evidentemente Kim è bene ammanigliato, sia meglio oppure no di Moebius (2013), è comunque una sfida al ribasso e solo che stare a rimuginarci sopra appare un’inutile perdita di tempo. Personalmente, tenendo a mente la discutibilità dei gusti personali, il mio sentire è ormai lontano ere ed ere dalla proposta del sudcoreano, direi che in sintesi non condivido nessuna delle sue scelte a partire dall’uso del digitale che se viene impiegato come l’analogico allora perde di senso e ci restituisce un’immagine dozzinale, chiaro che dietro una tale estetica ci siano motivazioni economiche (e si vede che non ci sono soldi, la tizia della banda ha sulla spalla uno scorpione fatto con un trasferello!) ma noi cosa ne possiamo? Se l’alcova della gang sembra il set di un b-movie o di un porno se ne prende atto consci che la prossima volta ci si penserà due volte ad avventurarsi in un film di Kim Ki-duk.

Tralasciando la resa formale anche la componente argomentativa non brilla per eccezionalità, ma proprio per niente: tutto questo pasticciato discorso su chi impartisce e su chi esegue gli ordini, sul potere, e sulla violenza da esso derivante è di una sterilità che bisogna vederlo per crederci. Se vi erano dei richiami politici, questioni che il Kim di un tempo sapeva trattare dignitosamente: The Coast Guard (2002), si sfaldano progressivamente denudando il vero nucleo di One on One che è, per la milionesima volta nel cinema orientale, una storia di vendetta personale, il che ci riporta forzatamente al recente Pietà (2012), altro film che aveva nei binari vendicativi la propria capacità deambulatoria. Nell’insieme l’impressione che ha colpito chi scrive è che manchi una componente fondamentale per fare cinema: la professionalità, ed è strano perché parliamo di un autore con una ventina di pellicole alle spalle, ma se non sapessi niente di faccende extrafilmiche e venissi sottoposto alla visione di One on One azzarderei la possibilità di avere a che fare con un regista proveniente dalla tv o con un semi-esordiente. Probabilmente il periodo di afasia creativa che colpì Kim dopo Dream (2008) si sta ripercuotendo adesso con un tentativo che quasi fa tenerezza di tornare ai bei tempi andati girando a ritmi vertiginosi (ad esempio IMDb ci informa che questo film è stato fatto in soli dieci giorni e che la sceneggiatura è stata scritta in itinere), i tempi però cambiano e con loro le persone, non so neanche se ora, nel 2016, apprezzerei tutto quel simbolismo che permeava il suo momento d’oro, ma di un fatto sono sicuro: l’approssimazione generale condita da un’aridità tematica non le avrei accettate nemmeno dieci anni fa.

martedì 27 settembre 2016

The Human Surge

Si era potuto intendere guardando Pude ver un puma (2011) che Eduardo Williams fosse uno di talento, e adesso che dopo una manciata di corti è finalmente arrivato il lungometraggio di debutto la supposizione è diventata piena conferma perché El auge del humano (2016) è un film che si configura come unico, e non tanto nel metodo perché si tratta di un cinema del reale con annessi pedinamenti/stalkeraggi nei confronti degli esseri umani in scena che all’incirca abbiamo già visto (basta rimanere in Argentina: Leones, 2012), quanto nella concertazione complessiva che, come puntualmente sanno fare i grandi film, continua a macerare anche dopo l’alienante sequenza di “ok”, e attraverso uno sguardo di insieme il più oggettivo possibile quella che si apre dinnanzi a noi è una grandezza che stona, un jet lag da cui non è così facile riprendersi poiché qui, semplicemente, si viaggia, e non per farla semplice, davvero: Williams ha creato un’opera errabonda che rimpalla in tre continenti diversi, che si immerge a mo’ di sub in tre culture diverse, che le spia, le assorbe e le espelle, ma la cosa quasi clamorosa è che la triplice divergente veduta alla fine risulta più convergente di quanto appaia in superficie, questa credo sia la possibile chiave per comprendere il film, o almeno provare a farlo: in El auge del humano si racconta di un tragitto vorticoso che ha una latenza di immobilità e sollevato il coperchio dentro vi ritroviamo null’altro che il nostro mondo.

È sempre bello, e in un certo modo confortante, sapere che esistono giovani cineasti capaci di tratteggiare un cinema inevitabilmente “piccolo” ma dalla gittata potenzialmente universale, e Williams non può certo nascondersi, la sua opera prima mira in alto, mira alla comprensione della modernità come fenomeno di iper-connesione: d’ovunque (dalle strade polverose del Mozambico alle giungle filippine) si è connessi, allacciati ad altre persone profondamente uguali tra loro. El auge del humano racconta perciò dell’unica globalizzazione che si è realmente compiuta negli ultimi vent’anni, quella informatica, mostrandone però le sue pericolose derive perché, va sottolineato, il film propaga tossine rattristanti e deprimenti, tanto che nelle prime due porzioni aleggia un processo di disumanizzazione a cui è scomodo assistere, e non si tratta solo del vendere sesso in una videochat gay, quanto nella bravura del regista nel carpire lo status disorientato di una gioventù apolide che ozia e va a zonzo e che sembra riporre ogni speranza verso la tecnologia e quegli oggetti che ci tengono “al sicuro”, che ci tengono on line. Non è un caso che il film si chiuda in modo freddo e distaccato su una catena di montaggio che produce dispositivi hi-tech, l’illusorio apice dell’umano sta lì, nella finta sicurezza di poter racchiudere il mondo dentro una scatoletta di plastica e circuiti.

Il Link è la sostanza che accomuna tutto ciò che si vede ne El auge del humano ed anche di ciò che lo costituisce, illuminante a tal proposito il passaggio dal Sud America all’Africa che avviene attraverso la trasformazione di una web-cam in videocamera al quale si subordina l’effettiva mutazione dal 16 mm al digitale, da applausi scroscianti, invece, il collegamento tra l’Africa e l’Asia dove la penetrazione di un formicaio, riduzione in scala di una realtà tutta cunicoli e budelli, si avvale del superamento del razionale per certificare la gigantesca dimensione ipertestuale che segna la contemporaneità, ed il film infatti è al di là di ogni interpretazione la scentrata trasposizione dell’ipertesto ante litteram: la realtà.

Grazie mille a Dries senza il quale non avrei visto nulla di quanto appena descritto.

domenica 25 settembre 2016

A Fábrica

In un Paese come il Brasile dove l’asfaltante progressismo di Lula ha completamente eliminato il ceto medio, ci sarebbe bisogno di molto più cinema rispetto a quello che, almeno il sottoscritto, ha potuto visionare negli anni (i suggerimenti sono ben accetti). In attesa di portate più sostanziose, per colmare la latitanza si può anche sbocconcellare con A Fábrica (2011) di Aly Muritiba, cortometraggio che fa leva su un effetto automatico della povertà: la prigione. La tematizzazione del carcere, e dell’uomo obbligato a vivere in tale ambiente, sfocia in un taglio che nella settima arte odierna è la routine, la ricerca ostinata di un realismo comporta la pedissequa marcatura degli attori in scena, una soffocante stretta sui corpi che qui, vista l’ambientazione, non risulta stonata (Muritiba è così interessato al mondo-galera che nel 2013 partorirà un altro film girato in un penitenziario: Pátio). Fiorisce, allora, un frutto piccolo finanche acerbo ma con una veste formale che si guadagna comunque la dignità minima per farsi seguire fino al suo quindicesimo minuto.

Scorrendo il ricco palmarès di A Fábrica salta all’occhio il quasi accesso alla magica cinquina per la vittoria dell’Oscar, non si tratta di una bazzecola perché tutti sappiamo che se un prodotto cinematografico giunge alle porte di Hollywood non ci sarà pressoché nulla di interessante per degli infaticabili cinefili, così la chiusura da family-drama potrà risultare commovente per i multisala-friendly e, viceversa, urticante per coloro i quali rifuggono ogni eccessiva intensificazione sentimentale. Accogliendo l’ammissibilità di ambedue le posizioni, cerco di trovare un approdo sicuro nel summenzionato contegno generale; già il fatto che non si sbandieri la condizione del prigioniero fa acquistare dei punti, inoltre la compostezza diffusa si riverbera (o si genera) anche dall’umanità in scena con l’anziana mamma, esempio principe di quanto vado dicendo, che con uno stratagemma è capace di sterrare almeno una valida lettura (la maternità della vecchiaia: partorire un cellulare dentro un lurido cesso per aiutare il proprio figlio), anzi due (la paternità di un detenuto: la menzogna appesantisce più della clausura). Il quadro è questo e al netto della piaga sentimentalistica, un’afflizione che riguarda la maggior parte degli oggetti narrativi (con qualunque chiave di volta: il colpo significante è un obbligo, ma quanto vale invece un’indefinibile apertura?), A Fábrica si rivolge a voi con umiltà e un rispetto accettabile per la vostra intelligenza, bistrattarlo troppo no, dài.

venerdì 23 settembre 2016

Rubus ulmifolius

Mio figlio, un giorno, si ricorderà…
della chiesa abbandonata nel piccolo paese dove io nacqui molti anni prima, del suo gioioso vagare per le strade di campagna e dello strisciare sotto il muro di rovi spinati (ahi!) davanti all’entrata della chiesina, dell’aria sacra e perduta che i confessionali sventrati e le panchette impolverate emanavano, dell’altare disadorno ridotto ad un blocco di marmo sporcato dagli escrementi dei ghiri, della sagoma del crocefisso tatuata sul muro, del silenzio che lo circondava e della sua preghiera infantile in cui chiedeva dove io fossi finito.
Io che ero lì, un naufrago che cerca in tutti i modi di sbracciarsi per farsi notare dalla nave: per riuscire ad abbracciarlo. Ma quanto sono lontani questi mondi? Allora dall’abside diroccato planò San Francesco insieme a tre colombe bianche ed Egli posò la sua mano di luce su quello che nell’altra vita era il mio cuore. Quando il bambino uscì vide che nell’intrico di rovi si era aperto un sentiero e che sui rami spogli erano cresciute delle panciute more nero-violacee e che tutto era diventato verde come smeraldo. Un giorno lontano lui ricorderà tutto ciò, ma adesso fate attenzione: sta nascendo! Lasciatemi essere felice ancora per un po’.

Eluvium - False Readings On

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mercoledì 21 settembre 2016

Free Fall

Non il tributo nostalgico di Final Cut (2012) e nemmeno la ricerca sul realismo di I Am Not Your Friend (2009), dobbiamo tornare più indietro per trovare un Pálfi assimilabile a quello di Szabadesés (2014), precisamente al film-porta che lo fece conoscere al mondo: Taxidermia (2006), forse nemmeno: Free Fall è un’altra cosa ancora, decisamente inferiore. Coadiuvato dall’inseparabile penna di Zsófia Ruttkay, il film dell’ungherese è, come potrete leggere in ogni recensione disseminata nel Web, un collage di ritratti bislacchi dove il nonsense tiranneggia, il punto è che ciò a cui assistiamo una volta al cospetto di Szabadesés è esattamente questo: una carrellata a compartimenti stagni di assurdità. Sì, potrà esserci il fil rouge dell’anziana condannata alla vita che nel suo dantesco precipitare-risalire-precipitare è testimone involontaria dell’illogicità che fonda il palazzo (d’altronde è lei stessa la protagonista di una faccenda alquanto curiosa…), ma è sufficiente? Voglio dire, è potenzialmente interessante una struttura narrativa che prospera nei frammenti, a patto però che il demiurgo di turno sia in grado di fornire un collante sotterraneo al proposito. E, per quanto mi riguarda, ritengo che Pálfi qui non ci sia riuscito.

Che il magiaro sappia fare il suo mestiere è fatto noto, e che abbia avuto fin dagli albori una tendenza a mettere in campo idee fuori dal comune anche (il lontano Hukkle [2002] ce lo ricorda), con Szabadesés l’impressione è che abbia dato più che altro sfogo ad una serie di situazioni che covava da tempo ma che non era riuscito ad inserire nei suoi film precedenti. Indubbio che almeno due circostanze accendano la nostra attenzione, e ovviamente mi riferisco alla scenetta con la coppia rupofobica o a quella folle, ma davvero folle, del parto all’inverso, e c’è da dire che presi di per sé i due segmenti appena citati possiedono anche una discreta cavità argomentativa, tuttavia il problema è ubicato proprio nella loro estrema indipendenza reciproca, funzionano di più, anzi, funzionano solo così, perché se posti uno di fianco all’altro finiscono per divenire una fastidiosa sequenza onanistica di insensatezze. Per di più Pálfi oltre a mancare sul piano del raccordo complessivo, ad esclusione delle parentesi summenzionate non convince affatto nelle restanti porzioni squadernando una diffusa debolezza: non c’è forza, appeal, studio, nel rimbalzo tra un guru che insegna (non sufficientemente bene) ai suoi discenti ad attraversare i muri, e una festa di musicisti con la donna nuda (forse) metafora, per non parlare dell’intermezzo in salsa sit-com che probabilmente vorrebbe stigmatizzare il genere ma che fatica come una bestia nell’intento. Un film fatto di continue sconnessioni dunque, quasi fastidioso nel non volersi curare di fornire un abbraccio saldante, incapace di nascondere la probabile miccia che ha acceso i suoi autori: infilare una sfilza di stramberie a costo di fare un film.

domenica 18 settembre 2016

Kaili Blues

Sulle tracce di Tsai Ming-liang (la costante degli orologi fa pensare a Che ora è laggiù?, 2001), il magnifico esordio del cinese Bi Gan ci trasporta nuovamente in quel territorio ipnotico che è, a volte, il cinema orientale, un cimitero di vivi, un portale verso mondi così vicini alla realtà eppure proveniente da altre dimensioni spazio-temporali; la morte e la vita, lo spazio e il tempo: il ricordo: dentro a Lu bian ye can (2015) si compone lentamente un paesaggio e un passaggio che ha questi tratti, ma all’inizio è come se tutto fosse sfuggente, il film elude i nostri tentativi di comprensione, il dottore rimbalza dallo studio medico alle diatribe col fratello, una poesia cadenza gli stacchi, le immagini si susseguono, accadono cose, non accade niente: il fantasma di un treno che passa ad alta velocità appare dal nulla, poi, ma solo poi, capiremo… Però, nel nostro intimo spettatoriale, che è una zona intonsa e piena di trasparenti stalagmiti, qualcosa monta ed è un qualcosa tipico di quel cinema che semina nell’umano e che fa aprire boccioli nel cervello, orchidee, campanule, azalee, fiori di ciliegio, e ad un certo punto, voltandoci improvvisamente, Kaili Blues è lì, dietro la nostra spalla, poi davanti, intorno, e allora sì che ci siamo compenetrati a vicenda, sì che a Dangmai Chen non era affatto solo.

Perdonate il lirismo d’accatto ma a volte il cinema mi emoziona ancora e visto che qua non siamo in un luogo accademico né io ho la pretesa di poter capire e soprattutto giudicare qualunque opera cinematografica, faccio parlare le parole che mi vengono di getto, più sincere e spontanee di vuote elucubrazioni: Kaili Blues è potente proprio perché utilizza una grammatica visiva che si situa all’opposto di un’eventuale forza investente; Bi Gan, invece di delineare le forme filmiche di una possibile memoria, fa sì che sia chi guarda a sgattaiolare all’interno di un’area mnemonica, non vi è guida né indicazione, e per questo si profila una libertà fruitiva commovente, una partecipazione alle dinamiche esistenziali di Chen che stordisce, turba, disarma. Ecco, visioni del genere disarmano, non è possibile innalzare barriere verso l’onda silenziosa che si propaga, e non è acqua, è musica (un blues?): questo intreccio gomitolare di persone, di storie avvenute che stanno avvenendo adesso nell’attuale futuro, di cortocircuiti che mozzano il fiato (qual è il tuo nome? Mi chiamo Wei Wei), è una micro-sinfonia fatta di umanità le cui note sono sentimenti come l’amore, la malinconia, il rimpianto. Come gli orologi fermi e i vagoni disabitati.

Non vorrei incensare il piano sequenza che inizia al 55° minuto e che finisce al 96° perché sarebbe troppo facile appiccicare lustrini alla giacca di Bi Gan, ma cosa posso fare? Non capita così sovente di vedere un tale sfoggio di tecnica da stropicciarsi gli occhi come quello offerto dal regista, in tre parole: è una meraviglia. Comunque sia vorrei fare un distinguo perché molto spesso il piano sequenza viene associato ad un atto virtuosistico, quasi masturbatorio, qui, al contrario, per quanto mi riguarda si tratta di un accorgimento funzionale all’opera che non a caso viene utilizzato nel momento in cui il protagonista giunge a Dangmai. L’arrivo di Chen nella cittadina fluviale rappresenta il superamento di una realtà geografica (il territorio urbano fino a quel momento visto) e psicologica (l’uomo che si apre alla parrucchiera) con susseguente approdo in un altrove di bruma onirica dove molti elementi della storia cominciano a farsi parecchio reiterativi finanche illuminanti per coloro che assistono, ne consegue che un cambio di registro estetico era obbligatorio per rimarcare la necessità di un guado così fondamentale, e la scelta pianosequenziale risulta essere un’opzione appagante poiché non c’è altro movimento nel cinema altrettanto “risucchiante”.

Tante suggestioni e tanti pensieri si rivolgono ancora a Kaili Blues perché il Cinema non smette mai di interrogare, ma io, al solito codardo e intimorito da siffatte grandezze, non vado oltre e rimango lì, imbambolato come un bambino di fronte al treno-macchina del tempo che sfreccia al di là del finestrino e che mi proietta lassù in alto facendomi sentire così: fortunato. Arrivano i titoli di coda e credo di poter chiudere l’orizzonte incandescente della vita nel palmo della mano…