domenica 18 settembre 2016

Kaili Blues

Sulle tracce di Tsai Ming-liang (la costante degli orologi fa pensare a Che ora è laggiù?, 2001), il magnifico esordio del cinese Bi Gan ci trasporta nuovamente in quel territorio ipnotico che è, a volte, il cinema orientale, un cimitero di vivi, un portale verso mondi così vicini alla realtà eppure proveniente da altre dimensioni spazio-temporali; la morte e la vita, lo spazio e il tempo: il ricordo: dentro a Lu bian ye can (2015) si compone lentamente un paesaggio e un passaggio che ha questi tratti, ma all’inizio è come se tutto fosse sfuggente, il film elude i nostri tentativi di comprensione, il dottore rimbalza dallo studio medico alle diatribe col fratello, una poesia cadenza gli stacchi, le immagini si susseguono, accadono cose, non accade niente: il fantasma di un treno che passa ad alta velocità appare dal nulla, poi, ma solo poi, capiremo… Però, nel nostro intimo spettatoriale, che è una zona intonsa e piena di trasparenti stalagmiti, qualcosa monta ed è un qualcosa tipico di quel cinema che semina nell’umano e che fa aprire boccioli nel cervello, orchidee, campanule, azalee, fiori di ciliegio, e ad un certo punto, voltandoci improvvisamente, Kaili Blues è lì, dietro la nostra spalla, poi davanti, intorno, e allora sì che ci siamo compenetrati a vicenda, sì che a Dangmai Chen non era affatto solo.

Perdonate il lirismo d’accatto ma a volte il cinema mi emoziona ancora e visto che qua non siamo in un luogo accademico né io ho la pretesa di poter capire e soprattutto giudicare qualunque opera cinematografica, faccio parlare le parole che mi vengono di getto, più sincere e spontanee di vuote elucubrazioni: Kaili Blues è potente proprio perché utilizza una grammatica visiva che si situa all’opposto di un’eventuale forza investente; Bi Gan, invece di delineare le forme filmiche di una possibile memoria, fa sì che sia chi guarda a sgattaiolare all’interno di un’area mnemonica, non vi è guida né indicazione, e per questo si profila una libertà fruitiva commovente, una partecipazione alle dinamiche esistenziali di Chen che stordisce, turba, disarma. Ecco, visioni del genere disarmano, non è possibile innalzare barriere verso l’onda silenziosa che si propaga, e non è acqua, è musica (un blues?): questo intreccio gomitolare di persone, di storie avvenute che stanno avvenendo adesso nell’attuale futuro, di cortocircuiti che mozzano il fiato (qual è il tuo nome? Mi chiamo Wei Wei), è una micro-sinfonia fatta di umanità le cui note sono sentimenti come l’amore, la malinconia, il rimpianto. Come gli orologi fermi e i vagoni disabitati.

Non vorrei incensare il piano sequenza che inizia al 55° minuto e che finisce al 96° perché sarebbe troppo facile appiccicare lustrini alla giacca di Bi Gan, ma cosa posso fare? Non capita così sovente di vedere un tale sfoggio di tecnica da stropicciarsi gli occhi come quello offerto dal regista, in tre parole: è una meraviglia. Comunque sia vorrei fare un distinguo perché molto spesso il piano sequenza viene associato ad un atto virtuosistico, quasi masturbatorio, qui, al contrario, per quanto mi riguarda si tratta di un accorgimento funzionale all’opera che non a caso viene utilizzato nel momento in cui il protagonista giunge a Dangmai. L’arrivo di Chen nella cittadina fluviale rappresenta il superamento di una realtà geografica (il territorio urbano fino a quel momento visto) e psicologica (l’uomo che si apre alla parrucchiera) con susseguente approdo in un altrove di bruma onirica dove molti elementi della storia cominciano a farsi parecchio reiterativi finanche illuminanti per coloro che assistono, ne consegue che un cambio di registro estetico era obbligatorio per rimarcare la necessità di un guado così fondamentale, e la scelta pianosequenziale risulta essere un’opzione appagante poiché non c’è altro movimento nel cinema altrettanto “risucchiante”.

Tante suggestioni e tanti pensieri si rivolgono ancora a Kaili Blues perché il Cinema non smette mai di interrogare, ma io, al solito codardo e intimorito da siffatte grandezze, non vado oltre e rimango lì, imbambolato come un bambino di fronte al treno-macchina del tempo che sfreccia al di là del finestrino e che mi proietta lassù in alto facendomi sentire così: fortunato. Arrivano i titoli di coda e credo di poter chiudere l’orizzonte incandescente della vita nel palmo della mano…

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