Sulle tracce di Tsai
Ming-liang (la costante degli orologi fa pensare a Che ora è laggiù?, 2001), il magnifico esordio del cinese Bi Gan ci
trasporta nuovamente in quel territorio ipnotico che è, a
volte, il cinema orientale, un cimitero di vivi, un portale verso
mondi così vicini alla realtà eppure proveniente da
altre dimensioni spazio-temporali; la morte e la vita, lo spazio e il
tempo: il ricordo: dentro a Lu bian ye can (2015) si compone
lentamente un paesaggio e un passaggio che ha questi tratti, ma
all’inizio è come se tutto fosse sfuggente, il film elude i
nostri tentativi di comprensione, il dottore rimbalza dallo studio
medico alle diatribe col fratello, una poesia cadenza gli stacchi, le
immagini si susseguono, accadono cose, non accade niente: il
fantasma di un treno che passa ad alta velocità appare dal
nulla, poi, ma solo poi, capiremo… Però, nel nostro intimo
spettatoriale, che è una zona intonsa e piena di trasparenti
stalagmiti, qualcosa monta ed è un qualcosa tipico di quel
cinema che semina nell’umano e che fa aprire boccioli nel cervello,
orchidee, campanule, azalee, fiori di ciliegio, e ad un certo punto,
voltandoci improvvisamente, Kaili Blues è lì,
dietro la nostra spalla, poi davanti, intorno, e allora sì che
ci siamo compenetrati a vicenda, sì che a Dangmai Chen non era
affatto solo.
Perdonate il lirismo
d’accatto ma a volte il cinema mi emoziona ancora e visto che qua
non siamo in un luogo accademico né io ho la pretesa di poter
capire e soprattutto giudicare qualunque opera cinematografica,
faccio parlare le parole che mi vengono di getto, più sincere
e spontanee di vuote elucubrazioni: Kaili Blues è
potente proprio perché utilizza una grammatica visiva che si
situa all’opposto di un’eventuale forza investente; Bi Gan,
invece di delineare le forme filmiche di una possibile memoria, fa sì
che sia chi guarda a sgattaiolare all’interno di un’area
mnemonica, non vi è guida né indicazione, e per questo
si profila una libertà fruitiva commovente, una partecipazione
alle dinamiche esistenziali di Chen che stordisce, turba, disarma.
Ecco, visioni del genere disarmano, non è possibile innalzare
barriere verso l’onda silenziosa che si propaga, e non è
acqua, è musica (un blues?): questo intreccio gomitolare di
persone, di storie avvenute che stanno avvenendo adesso nell’attuale
futuro, di cortocircuiti che mozzano il fiato (qual è il tuo
nome? Mi chiamo Wei Wei), è una micro-sinfonia fatta di
umanità le cui note sono sentimenti come l’amore, la
malinconia, il rimpianto. Come gli orologi fermi e i vagoni
disabitati.
Non vorrei incensare il
piano sequenza che inizia al 55° minuto e che finisce al 96°
perché sarebbe troppo facile appiccicare lustrini alla giacca
di Bi Gan, ma cosa posso fare? Non capita così sovente di
vedere un tale sfoggio di tecnica da stropicciarsi gli occhi come
quello offerto dal regista, in tre parole: è una meraviglia.
Comunque sia vorrei fare un distinguo perché molto spesso il
piano sequenza viene associato ad un atto virtuosistico, quasi
masturbatorio, qui, al contrario, per quanto mi riguarda si tratta di
un accorgimento funzionale all’opera che non a caso viene
utilizzato nel momento in cui il protagonista giunge a Dangmai.
L’arrivo di Chen nella cittadina fluviale rappresenta il
superamento di una realtà geografica (il territorio urbano
fino a quel momento visto) e psicologica (l’uomo che si apre alla
parrucchiera) con susseguente approdo in un altrove di bruma onirica
dove molti elementi della storia cominciano a farsi parecchio
reiterativi finanche illuminanti per coloro che assistono, ne
consegue che un cambio di registro estetico era obbligatorio per
rimarcare la necessità di un guado così fondamentale, e
la scelta pianosequenziale risulta essere un’opzione appagante
poiché non c’è altro movimento nel cinema altrettanto
“risucchiante”.
Tante suggestioni e tanti
pensieri si rivolgono ancora a Kaili Blues perché il
Cinema non smette mai di interrogare, ma io, al solito codardo e
intimorito da siffatte grandezze, non vado oltre e rimango lì,
imbambolato come un bambino di fronte al treno-macchina del tempo che
sfreccia al di là del finestrino e che mi proietta lassù
in alto facendomi sentire così: fortunato. Arrivano i titoli
di coda e credo di poter chiudere l’orizzonte incandescente della
vita nel palmo della mano…
Caspita, basta vedere il trailer per restarne avvolti. proverò a cercarlo.
RispondiEliminaSi trova sul mulo in buonissima qualità
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