venerdì 30 ottobre 2020

Isabelle

Isabelle è un’astrofisica francese che vive e lavora a Trieste. È una donna forte e carismatica ma, insieme al figlio Jérôme, nasconde un terribile segreto.

Isabelle (2018) funziona nel metodo che usa per indagare un senso di colpa proprio perché si tratta di un “anti-metodo”, mi spiego: Mirko Locatelli, giunto al terzo lungometraggio, non si abbandona alla facile tragicità, al voler mostrare i tormenti di una donna/madre/scienziata, Isabelle non è mai durante il film un libro aperto, tutt’altro, la maschera cucita dal regista sul suo volto è difficilmente penetrabile, gli unici rintocchi di coscienza vengono sputati fuori dalla paura del figlio, per il resto di Isabelle non riusciamo a cogliere granché, la vediamo sempre decisa, ferma, pronta ad impartire ordini (ad Anna, a Jérôme), il suo ventaglio di sentimenti è un vero mistero, non capiamo se provi preoccupazione o meno, non capiamo se in generale provi qualcosa oltre la perfetta facciata che esibisce con gli altri. Per questo motivo il film regge anche quando si inoltra sull’ambiguo sentiero del rapporto con Davide, è arduo inquadrare la faccenda perché gli elementi in gioco potrebbero far pensare che ci sia un’effettiva tensione sessuale tra i due così come si può pensare che il ragazzo abbia intuito del coinvolgimento di Isabelle nell’incidente, in realtà è plausibile che, osservando il verificarsi degli eventi, entrambe le supposizioni siano accettabili, ma comunque permane un velo di incertezza che poi è una caratteristica del cinema di Locatelli che cerca di sfuggire dall’ammorbante didascalia, se i confini non sono netti (ad esempio c’è l’accenno sulla bisessualità di Jérôme che non avrà seguito) la storia raccontata si fa liquida, elude i paletti dell’interpretazione razionale per sollevare più domande che risposte, il che è sempre un’ottima cosa.

Isabelle funziona meno se si guarda l’apparato formale che lo costituisce. È un peccato perché mi è parso un passo indietro rispetto a I corpi estranei (2013) dove la componente finzionale veniva, per quanto possibile, asciugata delle rigidità che spesso tale canale di trasmissione comporta, soprattutto in ambito italico dove la nostra percezione è inevitabilmente più sensibile ad una certa legnosità. Purtroppo il sottoscritto di ingessature in Isabelle ne ha ravvisate parecchie, tutte le scene di raccordo vocate ad un’idea di realismo, quelle inessenziali che in un film “normale” non ci sarebbero per tempistiche e modalità, producono un involontario effetto opposto, c’è molto di impostato, nulla di strano perché nel cinema niente è vero, però a volte c’è chi riesce a farci credere del contrario, non ’sta volta però, la maggior parte delle situazioni ricreate davanti alla mdp, anche le più banali, non si scrollano di dosso un retrogusto soapoperistico, una plastificazione che cozza con l’intento estetico pensato da Locatelli. Una spinta in suddetta direzione è data anche dalla scelta di affiancare attori dal diverso grado di professionalità, se Ariana Ascaride è convincente nella sua inaccessibilità e Robinson Stévenin risulta in fin dei conti una buona spalla (i confronti tra loro sono i migliori momenti della pellicola), Lavinia Anselmi non appare ancora al livello dei colleghi mentre Samuele Vessio è decisamente lontano dall’attorialità che ci si aspetta (la risata forzata nella trattoria è alquanto... finta), il che crea una netta stonatura, forse voluta, chissà!, sullo schermo.

Comunque sia Locatelli non dispiace affatto per la selezione e la profondità delle tematiche che affronta, per lo sguardo semplice, e quindi, ovviamente, complesso che getta sul mondo e sulle persone che lo abitano. Continuo a considerare I corpi estranei un lavoro maggiormente compiuto rispetto a Isabelle, ciò non toglie il fatto che Mirko sia uno dei più francesi tra i nostri registi, e tenendo conto che la Francia è, insieme al Portogallo, la migliore scuola d’autore in Europa, l’augurio è di vederlo migliorare ancora nei progetti futuri.

mercoledì 28 ottobre 2020

Leçons de ténèbres

La composizione di Leçons de ténèbres (1999) non si discosta troppo da Rome désolée (1995 – debutto che qui riappare sullo schermo di una sala cortocircuitando ancora di più il discorso generale) e, presumo, da un’intera filmografia provvista di una coerenza autoriale da primissima fascia, e la cosa, perlomeno al sottoscritto, non pesa affatto perché comunque non si tratta di sterile ripetizione, Vincent Dieutre possiede un’idea di cinema a cui non si può non prestare considerazione perché ogni volta ci rammenta quanta ricchezza può nascondersi dietro a delle banali riprese cittadine, e per merito di un sapiente ricamo succede, ad esempio, che un giro in automobile attorno a Piazza del Popolo si trasformi in un immaginifico circolo che mescola temporalmente gli amori, o presunti tali, di una vita. L’autore, per quello che ad oggi ho potuto vedere, è sempre orientato ad esporre una propria versione dei fatti nel campo sentimentale, la sua bravura sta in primis nel non scadere nell’ovvietà e in seconda battuta nell’esprimere una matassa così interna e personale dislocando la direzione delle immagini. Qui, però, c’è un piccolo (ma nemmeno troppo) distacco rispetto al film precedente o al successivo Jaurès (2012), Dieutre infatti decide di entrare nella diegesi autorappresentandosi nonostante la narrazione esterna in terza persona. I risvolti meta fioriscono (basta osservare l’incipit con il regista tramortito da una sorta di sindrome di Stendhal) senza intaccare la nostra pazienza, il che mi ricorda, decisamente a sproposito, che il progetto di Dieutre ha un suo gemello letterario, sono anni che Walter Siti scrive di sé pur non scrivendo di sé.

Leçons de ténèbres è dunque un tragitto emotivo, suddiviso in tre città (Utrecht, Napoli e Roma) e tra due sfuggenti partner (Tadeux e Werner), ma è anche un percorso culturale (e perciò nuovamente emotivo laddove però è l’amore verso l’arte a svettare) che si plasma attraverso gli stupendi dipinti del Caravaggio. Attenzione, ora la faccenda si fa ancora più stimolante: è la visita in un museo, un museo-persona, l’uomo Vincent o qualunque altro uomo o donna che calpesta il pianeta, in tre atti, anonimi tasselli nel mosaico speciale dell’esistenza, in tre padiglioni noi visitatori esploriamo i lembi di un pensiero, le delusioni e le passioni, gli umori e i rimpianti. Gli sfondi nei quadri di Michelangelo Merisi, bituminosi e impeciati, tracimano nella realtà della pellicola dentro all’esteso mood maliconico così come le disarmanti prospettive luminose del pittore attizzano il fuoco della speranza in un nuovo incontro. Personalmente ho solo qualche dubbio quando si sceglie di inserire dei segmenti estranei che ricreano la, per così dire, atmosfera di Caravaggio con il buio attorniante e delle luci ben posizionate ad esaltare l’anatomia dei corpi nudi, sono parentesi estetizzanti che avrei evitato, ma io scribacchio su un blog dimenticato mentre Dieutre fa cinema, e lo fa davvero bene. Ad ogni modo il perdono è subitaneo: d’improvviso si diffonde la voce di Guccini ed una cosa che già è bella diventa emozionante.

lunedì 26 ottobre 2020

The Artificial Humors

Strano tipo Gabriel Abrantes e strano il suo cinema, Os Humores Artificiais (2016) non solo è coevo di The Hunchback (2016) ma condivide con esso la sostenibilità di una tecnologia del futuro (non troppo lontano) applicata al nostro mondo, non è fantascienza ma vien da affermare che comunque, in parte, lo sia, e inoltre l’autore portoghese non si fa mancare una spolverata della sua stramba ironia che dà più d’una sfumatura stravagante al corto. Constatata la direzione registica del solo Abrantes (è una rarità, di solito si è sempre fatto accompagnare da qualche collega), scopriamo di trovarci in un villaggio brasiliano vicino al Mato Grosso, l’elemento per così dire anacronistico è dato da una sorta di drone senziente che è stato programmato per leggere le emozioni delle persone che gli stanno davanti. Il design di Andy Coughman (questo è il nome del robottino e vista la piega che prenderà la storia potrebbe anche essere un omaggio al comico americano Andy Kaufman) sembra essere un qualcosa partorito dai furbacchioni della Pixar (piccolo ma con degli occhioni belli grandi) che, unito al doppiaggio di una voce infantile, delinea la conformazione di un androide ovviamente umano seppur non antropomorfo, perché ciò che conta, del resto, è quello che si sente e non quello che si è, da qui il percorso che viene appunto definito d’“educazione sentimentale” diventa in realtà una fiaba d’amore che oscilla tra un’impostazione tradizionale ed un relativo manifestarsi alquanto bislacco perché Abrantes giochicchia, si nasconde, sfilaccia la narrazione per riannodarla in preparazione del finale.

Il centro dell’opera si situa nella sfera emotiva provata dalle persone ed è carino il collegamento che Abrantes mette in campo per vivacizzare la situazione, in pratica Andy attraverso una scannerizzazione ottica riesce a stabilire lo stato d’animo di chi è nel suo radar visivo, ad un certo punto però è lui stesso a farsi oggetto di analisi perché, semplicemente, si innamora di una ragazzina del posto. Non credo che nelle mire del regista ci fosse l’intenzione di aprire un dibattito a proposito dei confini gnoseologici di un’intelligenza artificiale, tra l’altro il titolo scherza un poco sull’argomento e sull’ambiguità dei sentimenti di Andy, ovvero: una palla di circuiti che ama davvero (?), diciamo che tali riflessioni arrivano più per sforzo interpretativo che per reale trattazione nello schermo, anche perché Abrantes con la riprogrammazione di Coughman approda in un terreno da commedia che lascia qualche perplessità nell’area scritturiale, come se, in una ipotetica visione rovesciata, Louis C.K. finito un suo monologo ingaggiasse un duello con tanto di spada-laser (sì, è un parallelo imbarazzante, chiedo scusa). La svolta in star della comicità per Andy pare mettersi al servizio di una sola necessità: sancire il distacco con Jo ricucito giustappunto nell’happy end (con un dubbio: forse me lo sono perso, ma come faceva il robot a sapere che Jo era proprio lì?), però un’osservazione del genere è coagulata dalle maglie autoriali del lusitano, uno capace di infondere nel film una amabilità che solitamente risiede nei prodotti animati unita ad una balistica sbilenca, a fuoco nel suo non essere a fuoco, anche questa penso sia una qualità.

sabato 24 ottobre 2020

A Skin So Soft

Tre anni dopo Joy of Man’s Desiring (2014) Denis Côté ritorna al documentario con il quale ha sempre flirtato, questa volta per Ta peau si lisse (2017) il suo oggetto di studio è abbastanza in controtendenza rispetto a ciò che ci ha sempre fatto vedere, se infatti scorriamo la filmografia del canadese si nota una particolare passione verso figure anonime che vivono in località altrettanto trascurabili (con eccezione [pessima]: Boris Without Béatrice, 2016), qui i protagonisti della pellicola presentata a Locarno ’17 sono dei culturisti o ex-tali (ad esclusione di uno che fa il wrestler) e quindi sono persone che obbligatoriamente si espongono davanti ad un pubblico, che inevitabilmente per la loro attività sportiva devono mettersi al centro dell’attenzione, poi li si potrà anche considerare degli outsider rispetto alla società visto lo stile di vita che conducono e l’aspetto che si sono costruiti proprio in seguito al suddetto stile, però parificarli ai personaggi di Curling (2010) o comunque ritenerli una nicchia d’umanità che passa inosservata decisamente no. Côté è libero di riprendere quello che vuole, ci mancherebbe, tuttavia credo che di opere interessate al body buidling ce ne siano talmente tante (solo che da queste parti è passato il dittico Dennis [2007] e Teddy Bear [2012] di Mads Matthiesen) da non necessitare ulteriori esemplari, almeno non con il taglio fornito.

(... lo scrivo in questa parentesi volante perché non sono stato capace di metterlo altrove: volete sapere l’unico motivo valido per guardare Ta peau si lisse? Non c’entra il cinema ma la linguistica: a quelle latitudini, che dovrebbero corrispondere al Québec, si parla un francese imbastardito che è una vera curiosità da sentire)

Dico solo una cosa a proposito di A Skin So Soft: che è un film impersonale, e ritengo che per un autore non ci possa essere giudizio più doloroso, ma così è, mentre si vede l’esistenza di ’sti nerboruti giovanotti non si ha mai l’impressione che la mano dietro al progetto sia quella di un regista che ha, o vorrebbe avere, una poetica. Sono immagini qualunque nel senso che potrebbero arrivare da qualunque nome dello sterminato panorama cinematografico, e per di più sono immagini che ricalcano fedelmente l’idea preliminare che si ha di atleti del genere, tradotto: se mi accingo a vedere un’opera autoriale su dei body builder mi posso aspettare che di essi ne vengano fatte risaltare delle sfumature personali capaci di renderli meno scimmioni e più vicini a chi su una panca piana non ci ha mai appoggiato la schiena, e tac: uno si commuove vedendo un video al computer, l’altro si dimostra amorevole col figlioletto, un altro ancora trema in prospettiva dell’esibizione. Banalità. E la faccenda non è appagante nemmeno sul versante estetico perché il metodo di trasmissione è un ordinario montaggio alternante i vari palestrati con Côté che tenta di mimetizzarsi nella loro quotidianità attraverso pedinamenti e istantanee casalinghe (oltre ovviamente ad allenamenti e affini). Per nulla illuminanti poi i possibili ragionamenti su competizione, narcisismo, sacrificio, salute, alimentazione. Se infine vi accontentante dell’ultimo quarto d’ora che finalmente devia un poco dalla routine, fate pure, per quanto mi riguarda questo è un Côté davvero, davvero, non necessario.

giovedì 22 ottobre 2020

Another Trip to the Moon

Affascinante sì, ma fino ad un certo punto: quale? Quello che chiama in causa il nostro bagaglio esperienziale cinematografico, traduco: non si ha né voglia né tempo di obiettare qualcosa a Menuju rembulan (2015), l’opera firmata dall’indonesiano Ismail Basbeth, che a giudicare dalle immagini dei suoi lavori successivi rientrerà nei ranghi dell’ordinarietà (allora, forse, varrebbe più la pena recuperare i cortometraggi pre-2015), è completamente calibrata sull’essenza surreale che la attraversa, sarà banale rimarcarlo ma il tasso di stranezze sullo schermo è oltremodo elevato e pur avendo uno schema narrativo percepibile (la storia si rifarebbe ad una leggenda dell’Indonesia e a leggere i vari plot in giro parrebbe che la madre-sciamana abbia un conto in sospeso con la ragazza che sarebbe poi la figlia, ma dalla diegesi ricavare ciò non è così facile...), la materia che tiene desta l’attenzione si indirizza in modo netto verso quale astrusità Basbeth metterà in campo. Sicché, consci del fatto che per noi occidentali l’oriente impresso su pellicola ha spesso un forte appeal proprio in relazione alla nostra posizione da “estranei”, assistiamo ad una panoramica sull’illogico che chi ha potuto visionare sa e che non ripeterò, personalmente sono tutt’ora incapace di farmi un’opinione definita a proposito delle bizzarrie sciorinate durante gli ottanta minuti di proiezione, certe occasioni mi hanno sì e no toccato mentre altre, vedi la bislacca apparizione dell’UFO, molto meno.

La seduzione di Another Trip to the Moon termina a mio avviso quando facciamo ricorso al pregresso spettatoriale che accennavo prima: noi (e non è plurale maiestatico, intendo io che scrivo e tu che leggi) negli anni abbiamo guardato centinaia e centinaia di titoli e col tempo è maturata la consapevolezza che in fondo non abbiamo ancora guardato niente, il cinema da fronteggiare è un magma inarrestabile mentre noi siamo al massimo un manipolo di appassionati soli, però sappiamo riconoscere, o almeno crediamo di saperlo fare, il valore di un film e, ora ritorno al singolare, trovo che il lavoro di Basbeth possegga delle qualità che non definirei inessenziali sebbene non ci si allontana troppo da tale asserzione. Affermare che vi sia un che di “già visto” forse non è corretto, però, nonostante si sia visto dell’altro, diverso, simile o antitetico, alla fine è come se emergesse un sentimento di inopportuna derivazione. Il motivo principale di questa constatazione è legato ad una veduta che si fa eccentrica solo esteriormente, se è innegabile il fiorire di situazioni strampalate non è altrettanto automatica la loro discesa in una auspicata profondità né il condurci ad essa. Non è una questione di superficialità ma di quanto Menuju rembulan si culli su una superficie che risulta inusuale solo se si è dei novellini, magari il film non ha attecchito sul mio sentire (e del resto una discreta dose di soggettività è ineliminabile), ma laddove manca un concreto intervento sulla struttura e laddove le sintassi e le grammatiche non suggeriscono nulla di innovativo (dovremmo stupirci per l’assenza di dialoghi?), io preferisco guardare oltre, con buona pace di uomini-animali, animali-peluche e via discorrendo.

martedì 20 ottobre 2020

Party Animal

Il fatto che sul sito ufficiale di Yorgos Zois (link) Party Animal (2018) non venga neanche nominato è abbastanza comprensibile, parliamo di un cortometraggio che fa parte della campagna europea #EUandme lanciata nel maggio 2018 per sensibilizzare i giovani sulle opportunità che il Vecchio Continente offre loro attraverso lo sviluppo di passioni, talenti e sogni, tutte cose sulla carta molto belle che però nella pratica lasciano qualche dubbio, ma vabbè, forse è l’invidia nell’aver abbandonato la categoria anagrafica di riferimento del progetto a far brontolare il sottoscritto. Ad ogni modo non ci vorranno grandi sforzi esegetici per capire di quanto in questo film ci sia poco di autoriale e tutto di marketing, il che è legittimo, basta accettare la cosa per quello che è: una bazzecola pubblicitaria (dove anche Jaco Van Dormael ha dato il suo contributo con The Shape, 2019), una commissione svolta da Zois in maniera dignitosa ma anche un pelo impersonale, infatti, sempre ammesso che abbia senso fare della filologia in situazioni del genere, non si direbbe in nessun frangente che trattasi di opera firmata dal regista greco, di assonanze con il coevo Third Kind (2018) o con gli altri titoli più vecchi io non ne ho ravvisate.

Al massimo l’inizio nel club psichedelico con la musica che spinge (la musica è la vera protagonista della storia) potrebbe riportare alle atmosfere di Damned Summer (2017), anche se forse è solo la ravvicinata visione a farmelo associare, per il resto Zois piazza sullo schermo Alex, un giovane ragazzo come tanti altri (praticamente i medesimi a cui il corto si rivolge), che sta lasciando un’età complicata per entrarne in un’altra non meno difficile: l’adultità, e per sottolineare il passaggio esistenziale si utilizza il lavoro, un lavoro grigio e noioso che cozza con l’esplosione di suoni e corpi del locale, un lavoro come grimaldello per aprire un varco nei significati: anche da una fase di svantaggio personale si possono trarre dei benefici e l’Europa è lì pronta a sostenerti. Buffo che mentre scrivo queste righe (luglio 2020) i leader dei vari Paesi si trovino a Bruxelles nella disperata ricerca di trovare una quadra che non faccia finire noi poveri staterelli mediterranei a gambe all’aria, le tempistiche e i casuali incontri che si fanno a volte con il cinema (seppur questo, chiaramente, non sia cinema) hanno una puntualità quasi diabolica.

domenica 18 ottobre 2020

L’ordre

In questi tempi pandemici fa un certo effetto vedere un film come L’ordre (1973), un documento, prima che un documentario, eccezionale per ciò che mostra, che in realtà è poco, ma grazie ad un opportuno filtro autoriale che abbatte la parete dell’illustrazione diventa tanto. Jean-Daniel Pollet, regista intrigante che magari approfondirò nella prossima esistenza, si reca a Spinalonga, un’isoletta della Grecia che dal 1904 al 1957 fu utilizzata come lebbrosario, lì dove anche un giovane Herzog, in una pausa dalle riprese di Segni di vita (1968) girò il corto Ultime parole (1968). Il regista transalpino, lontano dal fare dei malati materiale d’esibizione, pone in relazione il villaggio abbandonato dell’isola con un ospedale vicino ad Atene dove i lebbrosi vennero trasferiti per continuare la loro vita separata dall’umanità, le immagini di Pollet percorrono degli spazi che non hanno mai uno sbocco effettivo, che sia la sbarra di un ingresso, il muro di un poggiolo o anche il panorama marino che si staglia al di là di una finestra, permane un senso di occlusione, quasi claustrofobico, nient’altro che il puntuale riflesso di chi ha vissuto e vive da recluso. È ovvio che già negli anni ’70 non ci fosse più nulla a Spinalonga, nessun essere umano mutilato dalla piaga, nessun arto o nessun dito erosi dal bacillo, però è come se ancora ci fossero, L’ordre rientra in quel novero di opere che sanno riesumare i fantasmi del passato, la seduta spiritica a cui si assiste fa apparire spettri di una dimensione sconosciuta che però, come dicevo all’inizio, ci toccano, e non poco, per via del momento storico che stiamo vivendo. A tal proposito c’è un passaggio notevolissimo dove si sottolinea la continuità della Malattia, una specie di Virus eterno e proteiforme che mette e metterà sempre sotto attacco il concetto di salute.

Il procedimento narrativo di Pollet è di quelli che intensificano la visione senza forzare, abbiamo un commento francese in prima persona che potrebbe essere idealmente di Pollet stesso nel quale però si infiltra una sorta di testimonianza, di coscienza, come se un’altra memoria, piena di fertili riflessioni su cosa significhi convivere con un morbo distruttivo o forse cosa significhi semplicemente vivere in un mondo che emargina anche quando c’è una cura, si impossessasse dell’autore, del suo spirito da straniero arrivato in terra ellenica “solo” per raccontare una storia (e ogni tanto udiamo anche delle parole femminili...). E poi, in un controcampo concreto, documentaristico ma fino ad un certo punto, il volto di un lebbroso in tinta seppiata: la pelle ustionata, gli occhi opachi, la voce oltretombale, è un ritratto che rimane il suo, davvero di un altro tempo, che, se lo vogliamo, può essere anche il nostro. Il vertice de L’ordre è muto, è una sequenza di sguardi su donne e uomini malandati, soli alle prese con il proprio male, in un letto, su una poltrona, è qui che si materializza un parallelo: le stesse donne, gli stessi uomini, ovviamente diversi, a colori, con la testa dentro a dei caschi e un tubo infilato nella gola. Il cinema ha un potere evocativo micidiale che L’ordre, senza nemmeno averne consapevolezza, ci recapita intatto a distanza di mezzo secolo.

venerdì 16 ottobre 2020

Innisfree

È il 1990 e José Luis Guerín inizia ad affinare la propria idea di cinema, il distacco che c’è tra Los motivos de Berta (1984) e Innisfree è evidente, ed è tutto concettuale, tutto indirizzato ad un lavorio teorico che utilizza il contenitore documentario per esplorare le infinite forme espressive che in esso convergono e che, sempre da esso, si dipanano. Ma il punto di partenza è decisamente inaspettato: John Ford, all’anagrafe John Martin Feeney, figlio di immigrati irlandesi, ed il suo Un uomo tranquillo (1952), pellicola di per sé piuttosto biografica perché racconta di un americano che torna in Irlanda nel paese d’origine per comprarsi la fattoria dove è nato, il paese si chiama Innisfree ma nella realtà, Innisfree, non esiste. È un nome fittizio dato da Ford che effettuò le riprese esterne in diverse località nei dintorni di Galway, villaggi, prati smeraldo, fiumiciattoli, ponticelli, muretti a secco, cieli, i medesimi che Guerín, trentasei anni dopo, registra nuovamente con la sua cinepresa. Una scritta, poco dopo che compare il titolo sullo schermo, dice: “cose viste e sentite a Innisfree tra il 5 settembre ed il 10 ottobre 1988”, ma ovviamente c’è ben di più che una semplice annotazione visiva. Il film è un imperterrito rincorrersi tra il piano dimensionale dell’opera originale e quello proposto da Guerín che, di soppiatto, falsifica, intensifica, finzionalizza, solo che, nel momento in cui sei convinto di assistere ad una recita, tutto si asciuga per reindirizzarsi nel documentaristico, nel folklore locale, nell’irish pride decantato da vecchietti che brandiscono le loro pinte di Guinness.

Questo rimpallo tra Innisfree e The Quiet Man, questo ponte edificato da Guerín, è un passaggio, e quindi un viaggio, che vale assolutamente la pena fare, è la bellezza di un cinema che riflettendo su di sé non si specchia in uno sterile narcisismo ma scava a fondo trovando un ulteriore meccanismo per far progredire una storia che ne contiene altre, alcune vere (la ragazza dai capelli rossi che si muove da un posto all’altro per guadagnare qualche soldo) altre finte, ma la loro natura di verità o finzione potrebbe essere tranquillamente invertita che non cambierebbe niente nell’economia del film. Non avendo visto Un uomo tranquillo sono pressoché sicuro di essermi perso una marea di arricchenti agganci con il lavoro di Ford, però il sesto senso cinefilo mi ha fatto intuire che il dialogo è talmente stretto da trovarci di fronte a delle sovrapposizioni o, forse, delle reinterpretazioni, questo accade in maniera più marcata avvicinandoci al finale, ed è sancito da una splendida scena che ha per protagonista un cappello il quale, magicamente, viaggia nel tempo e nello spazio. Si compie una fusione che scorre sempre sui delicati binari di ciò che è rappresentabile e ciò che non lo è, una combinazione che permette a John Wayne e Maureen O’Hara di incarnasi nelle vesti di due bambini che passeggiano nella stessa strada che a loro volta hanno calpestato davanti alla mdp del regista statunitense. E in un cortocircuitare così potente Guerín si diverte a trovare soluzioni da applausi come l’esporci la sinossi di The Quiet Man per bocca dei timidi bimbetti lentigginosi, oppure ci fa sedere in uno stralcio di realismo dentro ad un pub stracolmo di gente fermentata dall’alcol che intona canti e parla del più e del meno (anche di settima arte), o ancora decreta il salto temporale definitivo con una danza che va dalla musica tradizionale al rock moderno per poi andarsene per sempre da questo coacervo di memorie cinematografiche con una camera-car che sa di malinconia.

Innisfree? Un (per me, ora) classico di un classico, un testacoda che non smette di girare, un movimento centripeto inarrestabile diretto al suo nodo centrale: il cinema.

mercoledì 14 ottobre 2020

O Jogo

Su un campetto polveroso un gruppetto di ragazzini deve sfidare a calcio il bulletto della zona e i suoi compari. A causa di una defezione entra nella squadra Felix, coetaneo affetto dalla sindrome di Down.

Visionato Casa Manuel Vieira (2013) pensavo che il passato registico di Júlio Alves fosse meritevole di attenzione. Mi sbagliavo. Il curriculum non è proprio scarno e forse generalizzare non è un modo corretto per formulare un giudizio, però due indizi fanno una prova più o meno certa: prima 42,195 Km (2010) e ora questo O Jogo (2010) ci dicono di un cinema mediocre che persegue, alla lontana, una denuncia sociale incapace di attecchire la sfera emotiva e men che meno di intaccare la coscienza di chi assiste. In O Jogo la semplicità globale non può ricadere sotto la lista dei pregi, non è affatto uno di quei casi in cui con fare ossimorico il recensore asserisce “è una semplicità complessa”, no, qui si parla di elementarità, di somma algebrica così costituita: contesto urbano semi-povero abitato da adolescenti scapestrati (li stessi che stanno a cuore al connazionale João Salaviza) + descrizione sommaria di alcune dinamiche di gruppo (il “capo” decide i ruoli e le azioni) + tratteggio altrettanto sommario dell’emarginato, del diverso (Felix che gioca da solo) + scena apparecchiata per far convergere le istanze appena menzionate (la partita conclusiva) + finale che si trasforma in uno schemino sulla tolleranza e l’accettazione = La Banalità. Essa permea in profondità il settore dei significati e noi non possiamo che rispondere con un mastodontico sbadiglio. Al solito non c’è mai un messaggio sbagliato (e quello di O Jogo, sbagliato, non lo è di sicuro) quanto le modalità con cui lo si trasmette. Salvabili, invece, degli accenti sonori che sembrano partoriti dalla mente di qualche produttore di musica elettronica come Apparat e simili.

lunedì 12 ottobre 2020

Queen of Diamonds

La terza opera di Nina Menkes datata 1991 prosegue sulla falsariga di quanto l’ha preceduta (The Great Sadness of Zohara [1983]) e di quello che verrà (Phantom Love [2007] e Dissolution [2010]), Queen of Diamonds è una visione ostica, non impossibile, ci mancherebbe, ma di certo non predisposta ad entrare in confidenza con chi assiste, il che, per l’occhio più navigato, dovrebbe essere accolto con pacata euforia. Il territorio dove la regista ci sfida è, solo in superficie, di stampo esistenziale, siamo a Las Vegas nella vita di una croupier, nei suoi grigi scorci lontani da un possibile vaticinio, alla Menkes preme maggiormente fornire un quadro di spiccata desolazione dell’ambiente piuttosto che occuparsi dei lustrini locali. La sintassi utilizzata azzera l’intreccio canonico, tuttavia non può essere nascosto che un intreccio sia presente, è la messa in serie delle immagini, delle molecole che vanno a comporre sequenze sghembe e, si direbbe, quasi indipendenti le une dalle altre, in verità, come spesso accade, il tratto unificante, oltre che dallo sguardo globale e, perché no, dalla ricerca extrafilmica di informazioni in Rete (non è sbagliato per chi scrive poter considerare Film anche la connessa accessibilità post-visione, la nostra epoca ci permette di fare ingresso nel manufatto da molteplici porte), è dato da una singolarità che si fa associativa, qui, pur afferrando al massimo qualche lampo narrativo, ritorna dallo schermo un senso di profondo e aggregante abbandono (è un tema di rilievo: la ragazza è sola perché il marito è scomparso, l’assenza dell’uomo si perpetua nel non detto: il finale col matrimonio e lo smarrimento nel buio), quindi, pur non orizzontandoci nei meccanismi del racconto (futili e superflui, sempre), captiamo il mood della protagonista (di nuovo Tinka Menkes) e della realtà che vive.

Per Queen of Diamonds non ci si può però fermare alla lettura di un mondo arido (l’insistenza sui paesaggi deserti suggerirà qualcosa no?), se prima parlavo di sfida, il vero cimento riguarda la strutturazione del film e la fruizione che ne consegue. La Menkes, come si suol dire, non inventa niente, eppure ogni volta non è facile adeguarsi a ritmi così antitetici dal comune vedere, è arduo empatizzare a livello epidermico sebbene, per inverso, sia molto più gratificante ad un livello concettuale. D’altronde trattandosi di un’autrice che non ha mai disdegnato puntate nella sperimentalità, in questa pellicola, al pari delle altre, si può maneggiare con letizia uno studio teorico dalla soddisfacente portata, e allora registriamo il fatto che per parlarci di una monotonia professionale Nina costruisce una lunghissima scena fuori dagli standard che ripete allo sfinimento un susseguirsi di azioni compiute dalla croupier sul tavolo verde, è un segmento di assoluta libertà che descrive, per paradosso, un moto costrittivo, una catena di montaggio che potrebbe andare avanti in eterno e che invece dopo un quarto d’ora termina inaspettatamente sul cadavere di un anziano: applausi. Nessuno si sognerebbe di affibbiare altisonanti aggettivazioni al cinema della Menkes poiché esso rientra in una fascia di “clandestinità” (suggerita anche e soprattutto dalla scarsa qualità delle copie rintracciabili nel Web) non troppo conciliabile con le più abbordabili manifestazioni d’essai, ma il suo pensiero si rivela vivo e tradotto in un’importante apparato formale oltre che da un tatto estetico, seppur costretto a fronteggiare le scarse risorse, ammirabile, e a tal proposito, vedendo il campo lungo della palma infuocata, ho pensato che se la medesima sequenza si fosse trovata in un film di Seidl o di Dumont l’avremmo rivista a iosa nei profili Facebook o Instagram dei cinefili di mezzo globo, questo per dire di come anche un oggetto abbondantemente sommerso, povero e snobbato dai più, possa contenere della Bellezza.

sabato 10 ottobre 2020

Herzog incontra Gorbaciov

Tra il 2018 ed il 2019 Werner Herzog mette a segno una doppietta documentaristica che ritrae due figure a lui care, Bruce Chatwin in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin (2019) e Michail Sergeevič Gorbačëv (al diavolo le traslitterazioni) in Meeting Gorbachev (2018). La “buona” notizia è il ritorno al documentario per il quasi ottantenne bavarese, cosa che gli auguro di perseguire anche per la restante parte di carriera perché ormai la fiction non è più affar suo (e forse non lo è mai stata, ad esclusione del periodo d’oro con Kinski), basta prendere le ultime due proposte, Queen of the Desert (2015) e Salt and Fire (2016), per capire quanto sia superata la sua idea di cinema. Qui, aiutato dal collega André Singer, fa le cose semplici semplici: nell’arco di sei mesi incontra Gorbačëv tre volte e scopriamo che il leader sovietico è ora diventato un bonario vecchietto con qualche problema di salute, rispetto all’uomo che salì sul palco di Sanremo è rimasto poco, perfino la sua celeberrima macchia sulla fronte si è sbiadita. Non si è sbiadito invece quel fervore politico che Herzog titilla a più riprese lasciandosi andare ad una disinvolta ammirazione (“we love you”: non scordiamoci la nazionalità di Herzog ed il ruolo di Gorbačëv nella riunificazione della Germania) derivante da un excursus biografico che ricostruisce la vita dell’ex segretario dagli albori nel paesino natale fino all’ascesa nel Partito Comunista e al crollo dell’Unione Sovietica. In realtà gli effettivi minuti di confronto tra Werner e Michail sono piuttosto ridotti rispetto all’impiego di materiale d’archivio alternato ad altre conversazioni con esponenti politici dell’epoca, ad ogni modo la tipica voce anglo-teutonica di Herzog, un vero marchio di fabbrica, è il collante che permette al film di scorrere via senza appesantire.

Che cosa resta, oggi, in un personaggio così importante che ha rivoluzionato un intero Paese e spostato gli equilibri internazionali è ciò che rimane in tutti gli uomini, anche i più anonimi: i ricordi, e i sentimenti legati ad essi. Non credo che ci siano grandi rivelazioni in Herzog incontra Gorbaciov (sono tuttavia pronto ad essere smentito da chi è più ferrato in materia), quanto viene raccontato è di dominio pubblico ma sentire l’opinione del diretto interessato, unita ad un ripasso di storia contemporanea, male non ci fa. Da uno con l’esperienza di Herzog si poteva pensare ad un’opera meno... come dire, giornalistica, se non si fosse messo in prima persona davanti alla videocamera e se non avesse accompagnato i filmati di repertorio col suo commento staremmo parlando di un lavoro abbastanza impersonale, lineare, catodico quando ancora la tv non conosceva Netflix, l’unico frangente dove il regista assesta una zampata vecchio stile si situa nelle domande maggiormente personali sull’amata moglie defunta, il segmento è confezionato a puntino con le immagini del funerale, però restituisce comunque quel lato fragile e umano che anche uno statista ha (e ci sarebbe da stupirsi del contrario, se non ce l’hanno loro come potrebbero comprendere le necessità del proprio popolo?). In definitiva un oggetto ordinario che si infila nello sterminato calderone del tedesco, l’ultima osservazione che faccio è: perché non porre una domanda a Gorbačëv sull’attuale situazione in Russia? La risposta, qualunque fosse stata, penso che avrebbe destato attenzione.

giovedì 8 ottobre 2020

The Hunchback

Nonostante venga specificato da subito che la fonte di ispirazione è Le mille e una notte, guardando The Hunchback (2016) il sottoscritto ha immediatamente pensato a Bengodi, un vecchio (e bellissimo) racconto di George Saunders che narrava le vicissitudini di un gruppo di attori impegnati a vestire i panni di uomini primitivi in una specie di parco a tema, Gabriel Abrantes e Ben Rivers, magari inconsapevolmente, ricalcano un po’ nell’assunto iniziale il testo dello scrittore americano, qui, in un mondo futurizzato dove un’azienda invita (o obbliga?) i suoi dipendenti a ricoprire ruoli diversi in una realtà medioevale parallela, seguiamo le disavventure di Timmy (il gobbo) spinto a ricercare quelle emozioni umane da tempo dimenticate. La coppia registica non si limita a svolgere il possibile compitino che mette in mostra un reale con il suo eventuale opposto, la traiettoria è meno netta e sembra compiacersi non poco nel proprio sghembo incedere. L’unico contrasto davvero evidente è estetico, come riportato da Nicola Settis (link) la dimensione “storica” pur essendo girata in analogico si compone per mezzo di una computerizzazione che ricrea live gli ambienti ripresi, espediente funzionale che dà i suoi frutti percettivi: siamo nel futuro, siamo nel passato, lo sfasamento è più che piacevole.

Per il resto The Hunchback possiede una natura quasi episodica che ritengo non vada presa troppo sul serio, forse la mano che più si sente è quella di Abrantes (lo dico senza conoscere Rivers) il quale, per quanto potuto visionare, ama permeare ciò che produce di uno humor stravagante figlio di una tendenza rintracciabile in un certo cinema portoghese post-2000 che ha in Miguel Gomes l’autore di punta. Così assistiamo a scenette tra il buffo e l’inessenziale unite, e ho apprezzato la cosa perché così viene fornita una lieve impronta strutturale, alle testimonianze dei colleghi che attraverso una sorta di interrogatorio anticipano o posticipano gli accadimenti sullo schermo. La domanda che ci si può porre è: tralasciando la seducente eccentricità dell’opera che cosa rimane? La risposta non si prospetta particolarmente consolante, se ci concentriamo un attimo su alcuni degli episodi la relativa fruizione non può reggere nemmeno in un’ottica farsesca (cfr. ancora l’opinione di Settis sul boccaccesco siparietto tra la donna e il gobbo defunto), ma a soccorrerci può giungere quello che è definibile come uno “stile” (parola atroce, lo so), uno sguardo inedito che già in Palácios de Pena (2011) ci aveva saggiato della sua bontà, avrà anche parecchi difetti The Hunchback ma la voglia di approfondire la filmografia di Abrantes non è affatto scemata.

martedì 6 ottobre 2020

Joy of Man’s Desiring

Parlando di Bestiaire (2012) ero arrivato ad interpretare, non senza un pizzico di creatività, la meditazione faunistica di Denis Côté come uno specchio in grado di riflettere l’essere umano sotto altre spoglie, in quel film avevamo degli animali che si ritrovavano in un ambiente fittizio dove erano obbligati, ovviamente contro il loro volere, a vivere, due anni dopo il canadese estromette la componente zoologica per focalizzarsi sulle persone e, rifacendoci nuovamente ad un notevole sprint esegetico, ecco che i soggetti ripresi sono costretti, certo per necessità diverse dagli abitanti di un bioparco, a passare molte ore della giornata (“metà della mia vita è qui dentro”) in un luogo che non è definibile come ostile ma nemmeno come accogliente. Que ta joie demeure (2014) potrebbe essere quindi un titolo speculare al suo predecessore, c’è però subito da chiedersi: chi sono le persone di cui sopra? Perché Côté se ne occupa? Diciamo che per l’autore l’area di interesse gravita intorno al settore secondario, alla manovalanza, al proletariato che campa nella routine meccanica e stordente della fabbrica. È sicuramente un film sul lavoro questo, e la genericità dell’affermazione dondola tra il peculiare (perché il ramo è specifico) ed il globale (perché comunque le potenzialità di traslare in qualunque altro contesto lavorativo il fine soggiacente dell’opera sono ben evidenti), in siffatto movimento Côté insedia degli sprazzi di pensiero che ponderano la condizione esistenziale dell’uomo in relazione al mondo professionale, forse un nodo di Joy of Man’s Desiring è proprio collocato nell’esplorazione concettuale on site di un’istanza indispensabile per la società moderna direttamente dalle bocche dei protagonisti, e qui poi si apre una feritoia stilistica poiché più abbiamo a che fare con gli operai e le loro impressioni e più il documentario si “sporca”, viene intaccato e incrociato con la finzione.

Però la lettura di uno studio umanistico appaga fino ad un punto che confina con altro, si tratta di un angolo visivo che mette in secondo piano le possibili vedute sociali, in tal senso l’incipit risulta esemplare: il clangore degli stantuffi, l’incessante ronzio dei nastri trasportatori, l’imponenza delle presse tsukamotiane, tutto è ripreso da Côté con un taglio sì contemplativo ma anche sinfonico, l’obiettivo sembra quello di interessarsi alla presenza dei macchinari come se fossero i musicisti di una assordante colonna sonora quotidiana fatta di ripetizioni continue. Si delinea perciò uno spazio filmico che ha la faccia tosta di non prendere troppissimo sul serio le problematiche dei braccianti, del resto non è una storia di Ken Loach, perché Côté coerente con il suo credo artistico sa essere strambo anche quando pratica nella realtà più pura (o giù di lì), ne scaturisce che oltre lo strato tormentato raccolto sussiste in sintesi una ricerca quasi ascetica sull’ecosistema industriale, gli oggetti, relegati sul nostro sfondo percettivo, hanno invece una posizione preponderante poiché sempre in scena visivamente e acusticamente. Il brutto, che invece è bello, è che dal quadro così proposto si diffonde una monotonia intrinseca alla visione, Que ta joie demeure è un film noioso perché recapita allo spettatore il medesimo sentimento che va ad analizzare, desume dal trantran occupazionale il suono grigio e ossessivo dei giorni uguali gli uni agli altri. È un discorso capzioso? Per il sottoscritto no, dopo un’ora abbondante di fragori automatici l’apparizione del piccolo violinista portatore di musicalità (non a caso ammirato in silenzio dalle tute blu) ha un che di liberatorio.

Ad ogni nuova manifestazione cinematografica, ed in particolare quelle recenti, Denis Côté si sottrae continuamente ad una netta demarcazione autoriale, ciò sarebbe anche positivo se non fosse che di fatto Joy of Man’s Desiring sta in mezzo alle due peggiori pellicole recanti ad oggi le iniziali D.C., Vic + Flo Saw a Bear (2013) e Boris Without Béatrice (2016), sicché una domanda si solleva: non sarà mai che il regista nato in un piccolo paese chiamato Perth-Andover si trovi più a suo agio con produzioni maggiormente contenute (anche economicamente) che navigano al largo dalle secche della manifesta narrazione? Les lignes ennemies (2010) potrebbe essere una valida risposta al quesito, al pari di Que ta joie demeur.

domenica 4 ottobre 2020

John From

Non meno fantasioso e non meno disposto a travasamenti dell’impossibile nel possibile di A Espada e a Rosa (2010), il secondo lungometraggio di João Nicolau risulta, forse, più “ordinato” perché circoscrive maggiormente il suo campo di trattazione che è quello sentimentale, ma da qui ad affermare che John From (2015) sia routine amorosa su pellicola c’è un mare di mezzo, più d’uno probabilmente, acque, oceani condensati in una pozza su un poggiolo qualunque di Lisbona dove Rita, in procinto di diventare donna, vi posa i piedi, e appunto Rita: Nicolau ci fa entrare nella sua sfera adolescenziale con tutto il tatto e la delicatezza che il cinema portoghese ha dimostrato negli ultimi anni e utilizzando pochi ingredienti ne tratteggia la vivace personalità, il rapporto con i genitori e quello con i coetanei (bello e vivo il sistema di comunicazione con l’amica Sara). Prima che si metta in moto la macchina immaginifica del regista, il ritratto della ragazzina, seppur senza picchi, si mangia in un boccone i profili da teen-movie che popolano le innumerevoli opere del settore, tuttavia, nel momento in cui si accende l’interruttore, un’altra luce cade sulla storia, Nicolau è sempre parsimonioso, attento a non eccedere, le accelerazioni, mimetizzate nel cullante clima del film, quasi non si percepiscono (un micro-esempio: verso la fine il padre abbraccia Rita, in quell’istante la spalla dell’uomo è a favore di camera e mostra un tatuaggio che sicuramente prima non c’era), eppure dall’infatuazione verso il vicino-fotografo, un amore senza malizia, lindo, puro come nelle fiabe (del resto l’afflato favolistico è una costante per la cerchia di autori lusitani che abbiamo imparato ad apprezzare), deriva per noi spettatori una piacevole voglia nell’essere sorpresi dall’artificio-cinema, anche (e per fortuna) con mezzi rustici, anche senza complicate piroette narrative, il velo di magia si distende placido, fa fiorire, ingemma, adorna la cotta di una quattordicenne o giù di lì trasformandola in un teatro della mente e del cuore aperto e permeabile.

Uscito nello stesso anno della trilogia di Miguel Gomes (Inquieto / Desolato / Incantato), John From, che potrebbe tranquillamente essere un episodio della suddetta terna, è un documento di progressiva fusione del surreale nel reale. L’iniezione principale è data da una scia esotica che riguarda la Melanesia (regione dell’Oceania), l’infiltrazione di questa dimensione tribale nella Lisbona di Rita avviene attraverso una rimodulazione di ricerche su Google, nozioni e letture di fatti storici effettuate proprio dalla protagonista, non vi è alcuna certezza che il mondo così come ad un certo punto si delinea sia soltanto una proiezione di Rita (il finale sulla spiaggia potrebbe suggerirlo), però è un’eventualità che va presa in considerazione al pari dell’opposto. Sia quel che sia, è comunque molto appagante assistere alla graduale rarefazione del tessuto concreto, allo sfaldarsi dell’atmosfera urbana e alla susseguente riconversione in cristallina materia trasognante. L’evento di non ritorno è l’apparizione della nebbia durante la riunione di condominio (e attenzione ai vari dettagli disseminati prima), da lì in poi gli sversamenti da laggiù a quaggiù saranno tali da giungere ad un’ultima tappa di indistinguibile aggregazione. Con franchezza mi spingo a rimarcare che se esiste una strada per un cinema autoriale fatto di sceneggiatura, attorialità e via dicendo, il manipolo di registi portoghesi capitanati da Gomes ha compreso quale sia e dove porta: in territori che sono l’esito di un lavoro creativo applicato al quotidiano, all’attualità, un ottimo modo per aiutarci a decifrare la complessità di ciò che ci circonda.

venerdì 2 ottobre 2020

Santa Cruz del Islote

Come da titolo, soggiorniamo per un breve periodo sull’isoletta in questione, un agglomerato di case sul pelo dell’acqua colombiana che possiede un primato non troppo invidiabile per noi agiati turisti occidentali, quello di avere una densità abitativa tra le più alte al mondo, ed il tour operator che si è occupato dell’organizzazione tecnica del viaggio è l’esordiente Luke Lorentzen il quale si impegna nei venti minuti a disposizione di offrirci un giro completo dell’atollo mostrandone le principali caratteristiche. Vista una permanenza insufficiente per poter almeno tentare di penetrare nella calura del pueblo, nel suo spagnolo danzante (e altri colleghi ci avrebbero perfino potuto fare un lungometraggio visto il materiale trattabile), dobbiamo mestamente accontentarci del depliant illustrativo. Lorentzen si concentra su alcuni punti della vita isolana e li pone in serie alternandoli tra loro, si parte con un pedinamento tra le baracche avvicendato poi da parentesi scolastiche e da riprese in mare (sopra e sotto) durante le battute di pesca, coniugate a ciò vi sono inoltre fuggevoli istantanee locali inserite nella rotta esplorativa, diciamo che l’itinerario è fin gradevole sebbene non raggiunga mai, e sottolineo mai, i requisiti per trasportare il visitatore al di là di quanto viene fatto vedere.

Alibi al novello regista gliene possiamo dare più d’uno, d’altronde il ragazzo mette ordinatamente in pratica gli insegnamenti ricevuti all’Università (non ci sono sbavature evidenti, dall’impiego delle musiche alle scelte di montaggio [la scena in aula e quella dove il bambino gioca con le macchinine sono sequenze in cui si percepisce uno studio soppesato]), resta però il fatto che svolgendo solo il tipico compitino da bravo scolaro si allontana, e di parecchio, la possibilità di fornire un carattere distintivo al film. Paradossalmente Santa Cruz del Islote (2014) pur ostentando l’appartenenza al posto ripreso fin dal proprio nome, non ne coglie l’essenza limitandosi a registrare la superficie al punto che, in fondo, potremmo trovarci in una qualunque altra località ispanica affacciata sull’Oceano. Se a volte chi scrive ha spesso indicato l’afflato universale come pregio di un’opera, per il lavoro di Lorentzen le cose stanno nei termini opposti: disattendendo le premesse il documentarista del Connecticut ha generalizzato nominalmente una comunità, un crogiuolo illimitato di storie, stampandola su una locandina da appendere al massimo sulla vetrina di qualche agenzia turistica.