venerdì 30 giugno 2023

Enterprisse

Enterprisse (2010) è il primo cortometraggio del boliviano Kiro Russo e subito va annunciato che le atmosfere tenebrose di Juku (2011) prima e Viejo calavera (2016) poi qui non ci sono, del resto è già abbastanza difficile dire che cosa c’è perché questo mi è parso uno di quei lavori giovanili che hanno più valenza da studio preparatorio che da opera cinematografica. Il regista opta per una pellicola in bianco e nero dalla composizione granulosa (forse trattata con qualche particolare procedimento?) che dà un aspetto al film più vecchio di quanto in realtà sia, lo scenario è quello di una città che parrebbe piuttosto popolosa piena di sali e scendi, per motivi sconosciuti un uomo si carica sulle spalle il pupazzone di un cowboy e si inerpica su per una ripida salita, dopodiché lascia il fantoccio a dei tizi vicino al parco giochi e si inoltra nel suddetto parco, qui, in seguito ad un paio di inquadrature sulle varie giostre, Russo si concentra su una specie di ruota panoramica. Il suggerimento potrebbe essere quello di vestire i panni del protagonista che è impressionato dal grosso macchinario di fronte a lui, e per sottolineare la situazione il montaggio si fa oltremodo concitato fino a raggiungere un picco e successivamente una quiete che culmina con una schermata nera.

Diciamo che mi è un po’ mancato il collegamento tra il trasporto del manichino e la parte nel luna park, cioè se si trattava semplicemente della necessità narrativa di far finire l’uomo lì mestamente dico ok, se invece ci sono altre motivazioni, qualcosa del tipo: dopo la faticosa ascesa ecco il divertimento e la spensieratezza, mi rifugio dietro ad un bel boh. Sembrerebbe che vi sia dello sgomento (o forse del fascino) negli occhi del Nostro, una ripresa di schiena lo fa quasi apparire soverchiato dal disco ruotante, come se fosse un bambino in attesa di farsi un giro ipnotizzato da quel continuo girare, e in effetti la risoluzione del corto va in questa direzione, il frame nero citato prima viene sostituito dall’ultima sequenza che ha ben due caratteristiche opposte rispetto a quanto l’ha preceduta: è priva di sonoro ed è a colori. In più vediamo nell’espressione del tizio che dondola a bordo della cabina una smorfia di felicità. Enterprisse finisce così, e io mi dileguo di conseguenza.

giovedì 29 giugno 2023

Family Romance, LLC

Dopo due documentari più che accettabili, Herzog incontra Gorbaciov (2018) e Nomad - In cammino con Bruce Chatwin (2019), Werner Herzog ritorna alla finzione con Family Romance, LLC (2019), il che, visti i recenti trascorsi, non è la migliore delle notizie, ma almeno di buono c’è che Salt and Fire (2016) o Queen of the Desert (2015) restano film nettamente più brutti di quello sotto esame, e il motivo è semplice: l’Herzog all’interno di una macchina produttiva su larga scala non funziona proprio, qui almeno, grazie ad un tono minore, non si percepisce quell’ammorbante impostazione (leggi: ingessatura) che ha caratterizzato le opere precedenti, certo è che se il regista tedesco ha tentato uno svecchiamento del suo cinema alla fine non ha che dimostrato tutta l’inadeguatezza nel rapportarsi con la settima arte di oggi. Di base c’è una tara ineliminabile, noi Family Romance, LLC, seppur sotto altre spoglie, lo abbiamo già visto, e per ben due volte, infatti la questione centrale proposta ad Herzog da tal Roc Morin (che risulta come produttore) riguarda un’attività giapponese (ecco il perché dell’LLC nel titolo) che permette alle persone di affittare degli “attori” che impersonano un caro mancato, un amico scomparso e via dicendo, sì, prima che ci accorgessimo della cialtroneria di Sion Sono Noriko’s Dinner Table (2005) aveva già sviscerato la materia, senza dimenticare Alps (2011) di Lanthimos orientato sulle medesime coordinate. Quindi Herzog arriva in ritardo, e di brutto, ed anche se l’argomento ha dei motivi di attrazione visto il paradossale core business dell’azienda collegata ad una profusa solitudine umana figlia, probabilmente, dell’epoca in cui vive, il fatto è che l’approccio al tema e la susseguente realizzazione non aggiungono niente alle visioni citate sopra ed anzi, per ragioni tecniche che ovviamente differenziano Herzog dagli altri due autori, un orizzonte tiepido tiepido è dove la pellicola va a tramontare.

Quel vecchio satanasso bavarese avrà pensato che la scelta di utilizzare una piccola videocamera digitale era capace di restituire un tasso di verità farlocca in linea con la storia ripresa, una storia che dondola tra le usurate istanze della realtà e della finzione. E in effetti non glielo si nega, Family Romance, LLC grazie ad un impianto lo-fi tracima quasi nel documentaristico nonostante sia evidente che la recitazione è ciò che norma le interazioni degli interpreti sullo schermo, una volta colto il cortocircuito “bi-finzionale”, ovvero che l’attore di Herzog è attore anche nella diegesi, rimane una narrazione a dir poco debole con un filone principale, Ishii nei panni del padre di Mahiro, ed altre situazioni scollegate alla traccia madre ma inserite (un po’ a forza) per fornire una panoramica sulla professione del protagonista. Herzog punta alla telefonata definzionalizzazione del lavoro di Ishii, attraverso degli episodi abbastanza scontati cerca di creare un vero feeling tra lui e la ragazzina la quale, ad un certo punto, inizia a provare del vero affetto nei confronti del padre-in-affitto, è una soluzione tramica davvero lineare i cui significati che si vogliono veicolare giungono in un battibaleno alla superficie della comprensione. Non mi sento di dire che non ci sia nulla da salvare, ad un certo punto si poteva scavare un passaggio concettualmente più profondo con la bugia di Mahiro (in pratica una menzogna detta ad un impostore) ma la cosa non ha poi seguito, come non sono male delle istantanee provenienti dal magico mondo nipponico, ma si tratta di parentesi interessanti a prescindere dal film (vedi il robot hotel) e che Herzog ha infilato perché comunque rimane ancora una persona che sa essere affascinata dalla diversità del mondo, e per questo, per un’incessante ricerca dell’alterità, continuo a stimarlo, anche se il cinema che fa è ormai scaduto. Poi va detto che la resa estetica del film non è granché intrigante, purtroppo il digitale in taluni casi scade nel dozzinale e soluzioni vetuste quali l’utilizzo di droni o sottolineature musicali troppo classiche non aiutano a farsi ingraziare l’opera.

Family Romance, LLC circola in Rete per merito del famoso sito MUBI che lo ha reso visionabile in streaming, a corredare la proiezione c’è un’introduzione di Herzog e un Q&A in coda tra il regista e un redattore del sito. Inutile dire che queste porzioni sono più stimolanti del film stesso, in particolare l’intervista conclusiva dove si capisce perché Herzog non è esattamente sul pezzo in fatto di cinema contemporaneo, è proprio lui a dire che ormai non guarda più tanti film, però nella lucidità di pensiero che lo contraddistingue ci dà due consigli per perseguire la pura vida, the full life, e sono due consigli squisitamente inattuali che valgono molto.

mercoledì 28 giugno 2023

Notes from Unknown Maladies

Andamento lento per Notes from Unknown Maladies (2018), documentario per cui il regista filippino Liryc Paolo Dela Cruz, già assistente di Lav Diaz, ci fornisce un’avvertenza già nel prologo a sfondo scuro: “questo film riguarda mia nonna, lei ha novantaquattro anni, a volte si ricorda di me, ma la maggior parte del tempo se ne dimentica”. Quindi questa signora anziana, uno scricciolo di ossa e capelli fini la quale, probabilmente con un basso grado di consapevolezza, diventa la protagonista di un film che nel nome di Chantal Akerman non può essere più casalingo di così. Dela Cruz, posizionando la sua videocamera all’interno dell’abitazione e lasciandola lì immobile a filmare la vita statica della donnina o al massimo punteggiata da piccolissime azioni come spalmarsi un unguento sulle gambe o farsi fresco con un ventaglio, ci restituisce un ritratto sulla senilità privo di didascalie e commenti superflui, si può dire, e non è un’affermazione che si enuncia spesso, di come davanti ai nostri occhi scorra la realtà catturata per come è tale. Una realtà che comunque, seppur nella monotonia delle giornate divise tra visite dei nipoti e temporali tropicali, esprime, o se volete racconta, un senso dall’impronta universale, ovvero quel Capolinea, quella Fine, quella Caducità umana che nel cinema è, ed è stata, pane per tutti, dai principianti ai maestri pluridecorati, perché racchiude il significato ultimo dell’esistenza. Quindi: c’è solo una vecchietta che striscia i piedi in stanze apparentemente gigantesche al suo passaggio? Esatto, è quasi tutto qua.

Il quasi ammette le seguenti specifiche: il regista dà un taglio artistico al suo lavoro, il bianco e nero gli permette di cogliere dei contrasti interessanti tra la luce proveniente dall’esterno e le ombre che si allungano nella scarna dimora, inoltre si nota una tendenza a giocare con le prospettive e i riflessi degli specchi dove la nonna appare mimetizzata nel mobilio. Ma la mente di Concepcion, è così che si chiama, è offuscata dalle nebbie della memoria, sicché nell’osservazione silenziosa di Paolo la vediamo parlare, sussurrare, inveire [1] con dei fantasmi che ogni tanto le vengono a fare visita, entità che la fanno recriminare sul passato e che richiamano in causa chissà chi e chissà per cosa, e l’opera ha un po’ il suo centro gravitazionale nello scompenso mnemonico della signora, non, ovviamente, da un punto di vista clinico (del resto anche il titolo resta piuttosto vago), quanto per la solidarietà, la fratellanza, e, perché no, anche la tenerezza che si prova verso un nostro simile, e devo ammettere il piacere di constatare che anche da un esemplare cinematografico ridotto all’osso se non oltre, è possibile desumere una portata concettuale di spessore perché non possiamo negarlo: Concepcion è la nonnina che abbiamo perso, la mamma che perderemo nonché ciò che noi stessi, un giorno futuro, saremo.
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[1] In tagalog presumo. Se sì, rinnovo lo stupore, già registrato nei film di Brillante Mendoza, sulle infiltrazioni inglesi e spagnole nella lingua parlata.

martedì 27 giugno 2023

Lenny

L’impostazione visiva di Dene wos guet geit (2017), in particolare quella riguardante gli ambienti esterni, nasce da Lenny (2009), anche qui il regista svizzero Cyril Schäublin utilizza delle inusuali riprese fisse dall’alto per immortalare degli spazi urbani, non si tratta di uno studio architettonico ma antropologico, eh già perché ciò che lo spettatore riceve di questo cemento e grigiore metropolitano è una riflessione sullo stato esistenziale dell’essere umano nella città. Niente che passerà agli annali della sociologia, però tali inquadrature sono funzionali ad esprimere la condizione di solitudine del nostro giovane protagonista, è interessante il divario ottico tra l’incombenza dei muri e dei palazzi in rapporto alla statura del ragazzo, c’è un nonsisache di opprimente, di triste, sensazione più schietta rispetto al lungometraggio successivo che andrà per sentieri estetici un filo narcisistici. Un aspetto “nuovo” è la presenza di una controparte interna che comunque non muta l’atmosfera generale, anzi se possibile implementa l’impressione di isolamento, e lo fa con il semplice escamotage di porre la mdp di fronte l’adolescente al computer circondato da un fitto e indistinto buio. Senza perderci in chiacchiere: Schäublin, a Lenny visionato, pare sia uno a cui la forma dei suoi lavori stia molto a cuore, lo prendiamo di buon auspicio per le opere che, si spera, verranno.

Proseguendo con il parallelo corto-lungo, sul versante argomentativo ci sono ancora dei punti di contatto con Dene wos guet geit. Partendo dal presupposto che la società occidentale ivi illustrata sia una società con serie difficoltà nell’allacciare dei legami, Schäublin intercetta un nodo della contemporaneità che, trovandoci nella prima decade degli anni 2000, era giusto agli albori. In una breve sequenza vediamo lui al PC che passa in rassegna quanto Internet può offrire, ma è solo quando incappa nella youtuber Lenny che la sua attenzione viene rapita. Sebbene non vi sia un’interazione tra i due, nemmeno virtuale, la figura oltre lo schermo della ragazza assume i connotati libidici di un desiderio, sì sessuale, ma forse non soltanto: facendosi forte della condizione di Anton, Schäublin fa intendere che il canale YouTube di lei sia la finestra su un mondo da immaginare sicuramente più attraente di un pallone calciato ogni giorno contro una parete. È l’amaro senso delle odierne vite iper-connesse, è l’illusione mediata da un dispositivo elettronico, certo la faccenda per via dell’epoca di riferimento è ante litteram però c’è, e il regista compie un ulteriore step intuendo la pervasività del mezzo con la questione del burqa, nessun sottotesto, nessuna denuncia e men che meno additamento, solo la testimonianza dei tempi che correvano e che, evoluti, corrono tutt’ora.

lunedì 26 giugno 2023

El rastreador de estatuas

El rastreador de estatuas (2015 – ma il titolo che compare all’inizio è privo dell’articolo “el”, fidiamoci di IMDb e della locandina) è un documentario che, attraverso una voce narrante in terza persona, racconta, con presumo fortissimi elementi autobiografici, la storia di Jorge, un filmmaker cileno espatriato negli Stati Uniti, che un bel giorno vede a casa di amici un film chiamato Monos como Becky (1999) incentrato sulla vita del neurologo portoghese Egas Moniz, e proprio l’immagine della statua dedicata al dottore premio Nobel fa scattare qualcosa nell’animo del protagonista, si convince infatti che suo padre, anch’egli medico, da bambino lo portò in un parco di Santiago dove era presente il busto dello scienziato europeo, sicché, armato di videocamera, ritorna in Cile per impegnarsi in questa ricerca. Il regista Jerónimo Rodríguez, di cui non ho trovato granché in Rete, utilizza lo spunto della caccia-alla-statua per compiere un viaggio più introspettivo che geografico dove abbondano digressioni riguardanti vari aspetti del Paese d’appartenenza. Non lo si sa spiegare in modo razionale, ma che i collegamenti da un tema all’altro siano un po’ ballerini è più di una sensazione, anche se forse è ammissibile un tale saltellare perché è il corrispettivo filmico di una mente in transizione verso un’origine sia storica che personale. Così, nella vana ispezione degli spazi verdi santiagheñi (se ho ben inteso nel montaggio le immagini di America, Cile e credo anche Argentina sono mixate tra loro con difficile possibilità di distinzione), la traccia principale prende ulteriori deviazioni.

La figura paterna pare comunque rimanere il polo di maggiore attrazione per Rodríguez, all’incirca il papà entra in buona parte dei discorsi, sia che essi si occupino di politica (e c’è tutta una finestra sulla dittatura e sul comunismo) che di calcio (la passione per il calciatore italo-argentino Omar Sívori), mentre una divagazione sul cinema (e precisamente su Raúl Ruiz) sembra legata esclusivamente a Jorge. Di opere che si rifanno alla speleologia intima dell’umano se ne sono vedute e se ne vedranno ancora parecchie, non è che ci sia solo un metodo o solo un approccio per identificarle, anzi la bellezza sta nell’opposta molteplicità che le forma, però tutte, o almeno le migliori, giungono a produrre un fine precipitato fatto di calore, di frequenze emotive, di trasporto esperienziale, caratteristiche che a mio avviso El rastreador de estatuas non arriva ad ottenere. Il pensiero che vi fosse una stretta relazione tra Moniz e il genitore di Jorge data la professione in comune mi è passato per la testa senza però depositare alcun seme capace di germogliare, ho scorto più buche che ponti qui, vuoti non colmati dalla scrittura di Rodríguez, e già che ci siamo dico infine che la conclusione con il trasferimento in Portogallo non tira le somme che ci si poteva attendere. Dalla regia chiedono un solo aggettivo per liquidare il commento. E io obbedisco: insipido.

martedì 20 giugno 2023

The Girl Without Hands

Dove indirizzare la nostra attenzione in un prodotto animato che si rifà ad una fiaba dei fratelli Grimm se non sul suo metodo espositivo? È così: graficamente La jeune fille sans mains (2016) si merita tutte le considerazioni di cui possiamo disporre perché è un manufatto artistico che magnetizza lo sguardo e lo fa seguendo una strada che potrebbe apparire minimalista ma che invece molto probabilmente non è tale. I complimenti al regista Sébastien Laudenbach, qui al debutto nel lungometraggio, che a quanto pare ha fatto tutto da solo, dai disegni (buttati giù durante un periodo di residenza a Roma) al montaggio, provengono da una visione costituita da linee acquerellose, da figure che sfarfallano, da prospettive impossibili, a tratti sembra quasi di trovarci al cospetto di un film non terminato, come se quelli in movimento fossero degli schizzi preparatori, ma con il passare dei minuti si riesce ad entrare in confidenza con l’apparato estetico di Laudenbach al punto da cogliere una pienezza che non è tanto propria delle singole composizioni quanto dell’insieme, con pochi tratti e le adeguate cromature il film trasmette un valido ventaglio espressivo che connota la storia in maniera adulta e dove fanno capolino risvolti dark (le incarnazioni animalesche del diavolo non sono proprio roba per mocciosi) nonché sottilmente anomali (certo, ci sono accelerazioni weird ben più brucianti nell’animazione contemporanea, però The Girl Without Hands si difende con valore). Se di bellezza vogliamo parlare, parliamone: sta lì, nelle anarchiche pennellate dell’autore, negli abbozzi apparenti, nella sintesi radicale che sa esprimersi non meno, e non peggio, di una forma maggiormente massimalista.

Senza scordare la profonda ignoranza in tematiche prettamente tecniche del sottoscritto (si legge che Laudenbach ne abbia utilizzata una che in inglese si chiama cryptokinography), la sensazione, ben poco oggettiva ma giurin giurello assolutamente sincera (e andate a leggervi questa intervista al regista e sull’idea che ha nel sentire un’opera, così, giusto per personale solidarietà), è che il processo realizzativo ed il susseguente risultato abbiano reso la narrazione più viva di quello che era sulla carta. È la scoperta della ruota ma vale la pena sottolinearlo: ogni racconto che trae ispirazione da una favola certificata deve fare i conti con un’inevitabile schematicità (ad esempio: ecco il bene, ecco il male) e con una serie di archetipi da manualetto (ancora: e la bella, e il principe, e il castello), non che i suddetti ingredienti in La jeune fille sans mains siano assenti, tutt’altro perché la vicenda segue esattamente la traccia di mille altre novelle del settore, ma il super lavoro di Laudenbach ha mitigato il loro inflazionato uso in letteratura e mutato in ampiamente digeribile ciò che era prevedibile dal primo istante. Le variazioni sull’aspetto e l’operosità intorno all’approccio sono le carte vincenti del film perché ci permettono di capire, se mai ce n’era bisogno, che l’unica branca del cinema, al di là delle avanguardie, capace di manifestarsi in modo libero da gabbie è l’animazione.

mercoledì 14 giugno 2023

Éternau

I DISTRUKTUR mi mettono sempre in difficoltà, ed anche se alla regia di Éternau (2006) è accreditato solo Gustavo Jahn nulla cambia, il pastiche con cui dobbiamo confrontarci è un’altra scheggia indecifrabile partorita dal duo brasiliano. Se per Triangulum (2009) dicevo che quella era la loro produzione più ardua da comprendere, devo subito rimangiarmi quanto affermato: qui, in questo cortometraggio, le maniglie narrative a cui aggrapparsi sono davvero minuscole, pressoché inesistenti: la situazione parrebbe girare attorno ad un gruppetto di avventurieri (nella parte finale sulla nave c’è, alla lontana, un qualcosa di Mandico oltre che un’anticipazione della punta di diamante Muito Romântico, 2016) che viaggiano nello spazio e nel tempo.

Il nostro compito, di fronte a un oggetto che non si cura né di essere né di apparire razionale, è di abbandonare le velleità interpretative per tentare di farci assorbire dal flusso audiovisivo: non è facile, non lo è perché comunque siamo mentalmente settati a ricercare nell’arte un senso in ciò che si vede, ma se il senso fosse esattamente il manifestarsi dell’opera? Congettura intellettualoide, va bene, però pensateci un attimo: la sostanza di Éternau sta nell’apparire sullo schermo in tutto il suo essere rutilante, potremmo stare ore a pensare su cosa sia il segmento del robottino in stop motion senza venirne a capo, l’assemblaggio effettuato da Jahn si traduce in un’esperienza spettatoriale che va al di là delle strutture e delle grammatiche ordinarie, o si arriva ad uno scontro o ad una sintonizzazione sulle anarchiche frequenze. Non scorgo vie di mezzo.

venerdì 9 giugno 2023

The Woods Dreams Are Made of

Prima di vedere Le bois dont les rêves sont faits (2015) non avevo idea di chi fosse Claire Simon, ma a film ultimato, durante il solito rintracciamento di informazioni per rimpolpare il commento, ho letto una frase citata sulla sua pagina francese di Wikipedia (link) che mi è subito piaciuta molto: “si la banalité contient de la fiction, le travail de la cinéaste est de la débusquer”, è un pensiero che leggo in due modi, entrambi sostenibili in un’ottica autoriale, nel primo scorgo una frecciatina agli impianti finzionali che caratterizzano il cinema per il grande pubblico, mentre nel secondo vedo una vera e propria manifestazione di intenti che accoglie la mia personale predisposizione verso la settima arte, l’unico termine che sostituirei è “réalité” con “banalité” e poi il concetto, per me, sarebbe perfetto. Una tale spinta teorica di ricercare una vena narrativa anche in un materiale di per sé crudo come lo è un documentario, si rispecchia anche in quest’opera che i Cahiers du cinéma misero al decimo posto nella loro top ten del 2016, Simon si avvale di un procedimento non troppo dissimile da quello utilizzato dal nostro Giovanni Cioni, ovvero un insinuarsi in un tessuto sociale non semplice arrivando a toccare un certo grado di confidenza con le persone conosciute, il regista italiano è uno che va decisamente a fondo (in tutti i sensi che volete intendere), mentre qui la collega francese rimane più in superficie perché preferisce avanzare per quantità accumulando storie su storie, del resto l’ambiente delle riprese impone quasi una molteplicità di sguardi, ci troviamo infatti a Bois de Vincennes, un enorme parco pubblico non lontano da Parigi che è ciò che resta oggi di un’area boschiva d’epoca romana (praticamente il corrispettivo europeo del bosco urbano visto in Mata Atlântica, 2016), e cosa fa Claire Simon? Scandendo il tempo filmico attraverso il passare delle stagioni, si aggira per lo spazio verde incontrando l’umana varietà che lì vi transita, lavora o abita.

Non mi va di soffermarmi troppo sui lacerti esistenziali di cui siamo testimoni, dalle prostitute che operano tra le frasche passando per i gay solitari desiderosi di una sveltina, gli allevatori di piccioni, i pittori, i guardoni, i pescatori, i paria fino ad arrivare agli immigrati asiatici o africani, tutti i racconti che da essi fluiscono sono stimolanti e meritano di essere ascoltati, pertanto un grazie alla Simon vale la pena dirglielo. La pellicola tuttavia non è solo il mettere in fila delle pseudo-interviste da reportage televisivo, mi va di considerare il Bosco di Vincennes come un corpo vivo che trova nel cinema una maniera per essere ritratto, l’autrice non ha tempere e cavalletto ma il paesaggio che riesce a imprimere in video ha una moltitudine di sfumature e colori, certamente sono tonalità autunnali perché l’occhio si posa principalmente sugli sconfitti e gli emarginati, ed altrettanto certamente è in cornici del genere che si verificano fruttuosi scambi di empatia (penso alla commozione dell’uomo cambogiano che ha lasciato il padre nelle mani dei khmer rossi). Se Le bois... fosse musica sarebbe una melodia che scorre tra una riva di archi dall’ampio respiro malinconico e un’altra costituita da inserimenti elettronici, notturni, una ferita naturale vicina alla città da cui spurga un’umanità sulle tracce di una possibile resilienza, o più pragmaticamente la possibilità di un cinema che, come i maestri contemporanei insegnano, sa farsi forum di evocazioni, sia terrene che metafisiche (in un qualche tempo compare anche il fantasma di Gilles Deleuze), e che pur radicandosi nel reale si proietta in aperture con panorama sul mistero.

martedì 6 giugno 2023

Dead Horse Nebula

Da buon allocco quale sono mi è bastato adocchiare non ricordo dove il poster di Dead Horse Nebula (2018), un poster dalle reminiscenze reygadasiane (cfr. Our Time [2018], siamo vicini al plagio), per spingermi alla visione di questo film turco diretto da un esordiente di nome Tarık Aktaş. Ovviamente di enormità pari al collega messicano neanche l’ombra, piuttosto, almeno nel lungo preambolo, un proseguimento sui binari che altri connazionali del regista hanno percorso negli ultimi anni, e quindi seguendo i dettami del vate Nuri Bilge Ceylan l’inizio è ancora, per l’ennesima volta, quello di una Turchia rurale con tutti gli annessi e connessi che ben conoscete, e io, tra lo sbadiglio e lo spavento, ho temuto che anche la restante parte dell’opera si sviluppasse in tale direzione. In realtà il prologo serve ad Aktaş per puntellare la storia di Hay, ci si potrebbe quasi spingere a considerare che il contatto ravvicinato con il cavallo morto abbia una valenza più che altro simbolica, se lo si nota il bambino pungolando il manto equino apre un varco dal quale fuoriescono vermi e budella e la mdp si sofferma sulla matassa organica colata a terra come se il nostro sguardo divenisse quello del protagonista. L’episodio, che ripeto è inserito in un contesto “da cinema turco” fatto di formati panoramici, cieli azzurri, campi e poliziotti che ispirano poca fiducia, non avrà conseguenze dirette con il resto del film, almeno non in maniera esplicita, l’idea globale, presumo, sarebbe stata quella di mettere in atto una perpetuazione funerea che rintocca nella vita adulta di Hay, da buone intenzioni del genere il risultato finale ha, per il sottoscritto, delle pecche.

Dopo la comparsa del titolo sullo schermo, la pellicola abbandona l’impostazione di riferimento per costeggiare le ibride zone della docufiction. Da qui l’incidere si fa estemporaneo, in pratica non si dà più peso alla progressività degli eventi ma si porta avanti la causa esistenziale di Hay per mezzo di timidi segnali che richiamano la vicenda mortuaria dell’infanzia. Il la è dato dal maldestro tentativo di uccidere una pecora che provocherà una ferita alla coscia, emissione di sangue = emissione di viscere, sicché dal nulla Aktaş mostra poi i cadaveri coperti di alcune persone annegate in mare proprio dove Hay e i suoi amici stavano facendo il bagno, infine, in una escalation (vabbè...) di tensione, all’interno di un cantiere sembra che possa accadere il peggio da un momento all’altro (l’apparizione conclusiva dell’uccello è da grosso punto interrogativo). Nel mezzo si alternano parentesi di semi-quotidianità che non ho trovato granché funzionali alla prospettiva luttuosa, un leggero tedio nell’osservare una battuta di pesca o l’abbattimento di un albero non sono compensati dai possibili agganci concettuali, è vero che Dead Horse Nebula non è un film che si affida alla letteralità, ma l’operazione che compie nell’area del reale non è tanto efficace quanto lo sono miriadi di esemplari che popolano la scena contemporanea, meglio non infierire inoltre sulla forzata sequenza del fiume che vorrebbe scombinare i piani temporali. Ad oggi l’unica voce che vale la pena seguire in Turchia (chiaramente tenendo conto dei miei limiti conoscitivi) è Gürcan Keltek, altrimenti l’emulazione imperversa.

giovedì 1 giugno 2023

Unbuilt Light

Tipo eclettico questo Efthimis Kosemund Sanidis, tre cortometraggi visti e tre proposte eterogenee, però, scava scava, un comune denominatore è dato da un’estesa indeterminatezza che il regista ama diffondere nelle sue opere. II (2014) è l’oggetto più inclassificabile, Astrometal (2017) non è da meno ma ha dei barlumi di leggibilità al pari di Aktisto Fos (2017) che forse del trio è il lavoro maggiormente comprensibile e strutturato, seppur immerso in un clima di ardua decifrabilità. Lo spunto principale che attraversa il film è di tipo esistenziale con attenzione sul versante senile, è infatti un anziano uomo il protagonista, anche se definirlo tale risulta difficile, EKS ritaglia degli spazi filmici scollati gli uni dagli altri dove l’uomo, spesso ripreso di spalle, è tanto presente quanto passivo, la mdp del regista si interessa al contorno, ad una donna su un camioncino, ad una fiera equina, agli invitati al suo compleanno, ad una vagina, l’unico momento in cui l’uomo è al centro della scena è quando cade rovinosamente a terra, è il chiaro segnale di una posizione debole, uno degli ultimi passi di un’intera vita. Quindi, senza avere un punto fermo sullo schermo, si vive la veloce panoramica un po’ frastornati, anzi forse dovrei dire un po’ lontani, non si empatizza granché con le vicende che si susseguono, magari era un obiettivo Kosemund Sanidis, per carità, sarebbe assolutamente legittimo, però pensando ad ulteriori pellicole dalle traiettorie universali l’assenza che qui pesa è quella di un calore, di un sentimento, l’assenza di un cuore.

Non so se si possa dire che l’ombra lunga di Lanthimos si sia protesa anche sul cineasta sotto esame, gli approcci alla materia cinema sono parecchio diversi però condividendo la medesima patria d’appartenenza un pensierino lo si fa. Efthimis non è asettico e glaciale come il collega Yorgos, ciò non toglie che anche lui sia molto attento all’aspetto formale. Che sappia girare lo avevamo capito da subito, in Unbuilt Light l’apparato estetico è di livello piuttosto elevato e si coniuga bene con una pista sonora che è ancora meglio, l’uso di un audio a tratti dislocato a tratti in sovrapposizione alle immagini mute, appare per chi scrive la scommessa migliore (perché vinta) da parte del greco-tedesco. Eppure qualcosa non torna, è come se ci fosse una leggera patina che lucida l’involucro, è una proposta perfettina, misurata, trattenuta nell’impronta che gli si è voluta dare, spero mi si passi l’espressione “infighettamento autoriale” per rendere l’idea, senza offesa al regista, ognuno può scegliere la propria linea, ed esattamente per questa ragione non ho trovato molta congruenza nell’inserimento di filmati amatoriali che fungono, forse, da memoria visiva per il vecchio, gli stralci non si amalgamano troppo bene con il resto (e si badi che io sono il fan numero uno di assemblaggi del genere), e poi il finale, sì ok, ha una serie di perché e percome, la risata continua, il tragitto in auto, la sparizione tra le fronde, la luce pulsante (del titolo?) nascosta dietro al tronco... boh, non mi ha colpito così tanto, la tecnica da sola a volte non basta.