mercoledì 30 gennaio 2013

Rengeteg

Escludendo l’intrigante documentario Van élet a halál elött? (2002), Rengeteg (2003) è il primo effettivo passo di Benedek Fliegauf nel mondo del cinema, un film compiuto con una sua precisa identità che palesa già una certa stoffa registica da non sottovalutare, si tratta infatti di una carrellata di spaccati conversativi dove Fliegauf stringe la cornice in modo oppressivo sul volto degli attori che vengono ripresi con movimenti così nevrotici da far sembrare che il magiaro al posto della testa abbia una macchina da presa.
Le scenette che si susseguono, indipendenti le une dalle altre, edificano un tipo di coralità decisamente atipica [1] appunto perché non vi è alcun tipo di contatto fra gli uomini e le donne che a turno si avvicendano nella storia. In realtà Fliegauf piazza qualche lampo pseudo-collante nei raccordi tra un passaggio e l’altro (ad esempio se si osserva bene è possibile vedere per una frazione di secondo l’aspirante suicida intento a svolgere le proprie faccende), senza contare che nel prologo (riattaccato in fondo al film con un piccolo dettaglio in più) tutti i personaggi si trovano nel medesimo luogo, ma al di là di questi dettagli l’isolamento di ogni singolo pezzetto rende la pellicola decisamente anomala, una vera e propria scommessa che per quanto concerne il sottoscritto Fliegauf ha vinto alla grande.

La varietà degli argomenti affrontati e la loro assoluta diversità, si va da momenti grotteschi come quello del pescegatto ad altri realistici con problemi di coppia e così via, sottendono però un comune denominatore che si esprime subdolamente in un malessere strisciante dentro ad ogni parola sputata, urlata, insalivata dalla fragilità umana; il logos si adombra, sgocciola lacrime nere, si manifesta marcescente in espressioni di rabbia coniugale, di gelosia paterna, di delusione personale, e illustra pieghe che hanno un retrogusto maligno dove Fliegauf suscita un’inquietudine toccabile, scomoda, penetrante (e due sono gli episodi a cui riferirsi dove affiora l’indicibile potenza del fuori campo: il primo è quando due amiconi parlano di qualcosa che è lì davanti a loro ma che noi non vedremo mai, mentre il secondo giunge in coda ad uno dei segmenti meno incisivi – quello in cui una ragazza rimembra la nonna cattiva – che però ha nello sguardo allucinato della giovane tutta l’inesplorabilità dell’abisso).

Rengeteg è cinema intraprendente perché schiva il preconfezionamento della Spiegazione, racconta tracciando una serie di aneddoti la cui disorganicità rende comunque un senso di insieme che non trasmette niente di buono, ed è disinteressato a chiudere convenzionalmente con un sicuro the end preferendo la scomodità del dubbio. Merita.
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[1] Una similare versione di “film corale” è stata fornita da Ruben Östlund con il suo Involuntary (2008).

domenica 27 gennaio 2013

Chienne d'histoire

Pezzo d’arte che trae spunto da un fatto riconosciuto e conclamato: lo sterminio dei cani randagi di Costantinopoli. Correva l’anno 1910 e le autorità del posto, scocciate dalla capillare presenza degli animali in città, decisero di fare piazza pulita: non uccidere, bensì catturare quanti più cani si riusciva per gettarli come rifiuti su uno scoglio in mezzo al mare.

La traiettoria è chiaramente dal particolare al generale perché quello che in superficie si mostra come un evento secondario richiama a sé l’eco malvagia del fango Storico, di quegli accadimenti che fanno sorgere dubbi sull’integrità morale/civile/sentimentale della nostra razza. Ancora chiaramente la deportazione dei cani si trasforma allora nelLa Deportazione tout court, e in automatico viene chiamato in causa il tumore del Potere, qui impersonato da una triade di fantocci, che perpetra il sopruso con razionale sadismo: basta chiudere la finestra per impedire che i lamenti arrivino fino alle loro orecchie.
Se a parole una tale rappresentazione dell’abominio può suonare didascalica, il consiglio è di gettarsi a capofitto nel paesaggio filmico che guarnisce e ingemma i contenuti.

Perché dal punto di vista illustrativo Chienne dhistoire (2010) è un tesoro che Serge Avedikian, uno che di mostruosità ne sa qualcosa visto che i suoi genitori sopravvissero al Genocidio armeno, schiude con perizia lasciando intravedere un luccichio ammaliante; è potente l’alternanza tra campi totali così dettagliati da sembrare delle diapositive colorate, e gli atti narrativi della storia in cui gli acquarelli rendono imprecisi tanto i contorni quanto i pieni, sicché tutti i cani divengono chiazze omogenee, una traduzione precisa di quello che sono per gli occhi dei potenti: macchie da debellare, ergo: una città da “decanizzare” e renderla candida come lo sono le grandi città europee.
Avedikian espone il prezzo di un sacrificio inutile che pur essendo altissimo viene completamente ignorato: di fronte al latrato di esseri viventi agonizzanti, mangiati dai corvi e costretti a mangiarsi tra di loro, il piccolo uomo si tappa le orecchie.

venerdì 25 gennaio 2013

Gitarrmongot

Lascia molto perplessi il primo lungometraggio di Ruben Östlund datato 2004, tali dubbi sorgono dall’ossatura eretta dallo svedese: per novanta minuti una carrellata di situazioni bislacche che hanno per protagonisti gli abitanti di una città immaginaria chiamata Jöteborg. C’è una parvenza di coralità all’interno della storia poiché abbiamo un piccolo menestrello che vaga con un socio più adulto (ma solo anagraficamente), una donna a cui hanno rubato la bicicletta, dei teppistelli autori del furto e altre strambe figure che, chi più chi meno, tornano e ritornano sulla scena. Tuttavia le mire del regista esulano dall’assemblare i molteplici quadri in un unicum narrativo preferendo la segmentazione, una serie di fotografie astratte che ritraggono persone in balia della propria idiozia, perché di questo si tratta: una sequela di comportamenti idioti e poco altro. Quel poco altro nasce dalla pervicacia dello spettatore che cerca di costruire da sé una spina dorsale, un filo conduttore che fornisca un minimo di direzione, e di spessore, ma anche ipotizzando che l’obiettivo del film sia quello di rappresentare le note stonate di una grigia sinfonia sociale, l’operazione risulta una furba scorciatoia per buttare nel pentolone quante cose più anormali si possa pensare senza un briciolo di logica. Così per dire: assistendo alle marachelle dei bulletti o alle “performance” canore di Erik chi scrive ha subito pensato agli imbecilli di Jackass, poi andando sulla pagina di Wikipedia inglese del film (link) si legge che è stato proprio paragonato ad un “Jackass senza cuore”. A parte l’affermazione incomprensibile, se fossi Östlund non sarei molto felice dell’accostamento…

Per lo meno nel campo estetico c’è di che interessarsi perché il cinema di Östlund crede fermamente nella stasi; è nel non-movimento che prende forma Gitarrmongot, canale visivo quanto mai sperimentale che possiede un alto tasso di anticonvenzionalità, anche perché il regista centra praticamente tutti i punti di visuale offrendo scorci che arricchiscono un’estetica (diciamo) sciatta, impressa nella realtà. Il punto è che comunque si poteva fare meglio anche qui, Östlund paga forse una non piena consapevolezza dell’attrezzo che maneggia sicché la possibilità di divertirsi con le immagini, con i confini diegetici ed extra (ciò accadrà invece in Incident by a Bank, 2009), non viene neanche presa in considerazione, rimangono soltanto degli stupidi che fanno cose stupide all’interno dello schermo.
Per l’Östlund del 2004 Roy Andersson è ancora un modello da raggiungere.

martedì 22 gennaio 2013

Tabu

IL PARADOSSO DI GOMES

L’assetto di Tabu (2012), in fondo, non si discosta poi troppo da quello di Our Beloved Month of August (2008), e la natura comune non si rintraccia soltanto nell’evidente bipartizione che costituisce ambedue le opere, ma in un filo più unificante che va oltre la duplice suddivisione per posizionarsi, semplicemente, nelle aree/mondi che vengono ripresi: la prima parte del film precedente utilizzava un canale documentaristico per fornire un quadro antropologico dell’entroterra portoghese, in qualche modo, anche se non esposto a chiare lettere, il tempo dell’ambientazione si avvertiva come quello dell’Adesso poiché catturato nel-momento-reale, in Tabu il capitolo Paradiso perduto è situato nel presente, narra il presente (sebbene tempestato da epifanie che si realizzeranno magnificamente nel capitolo successivo: le lacrime su Be My Baby, l’essere spettatori davanti a uno schermo, un amore abbozzato tra Pilar e il pittore) e proprio dal presente succhia le energie per riversarle nella porzione seguente. Il secondo blocco di Aquele… si apriva alla finzione librandosi in un’ordinaria storia d’amore impossibilitato a compiersi, Tabu ripercorre la stessa traccia: la parte di film che incomincia dopo il funerale di Aurora (esattamente come se fosse un altro film staccato dal primo… ma mai del tutto) ronza di nuovo intorno ad un legame sentimentale difficilmente praticabile.

Eppure perché Aquele… nonostante sia un lavoro intelligente votato alla sperimentazione non raggiunge i picchi su cui si assesta Tabu? Viene subito da rispondere che Gomes nella sua ultima fatica ha “banalmente” ricordato che il cinema possiede dentro di sé una forza mostruosa, quella di saper Raccontare. Il regista non si è fermato però ad un’esposizione letterale dei fatti, in Paradiso il Racconto fa rima con Ricordo, e da qui si diffonde una bruma sottile che si infiltra nei tessuti descrittivi, li inzuppa rendendoli magici e li emancipa dalla pesantezza dialogica (il mutismo sporco dal quale affiorano rumori lontani è il corrispettivo della dimensione mnemonica); costantemente in equilibrio tra tumulti del cuore (consueti sì, di rara verità altrettanto) e folate oniriche indomabili (la surrealtà della band in cui suona Ventura; il mostro catturato da Mario; il cuoco-stregone; la presenza del coccodrillo, recipiente di simboli e di significati) Tabu trova totale sublimazione nell’atto di rievocare: la reminescenza, che possiede un piacevole sapore markeriano, È il film, cartina tornasole di una nostalgia che si rende capace di essere vissuta, sentita, e che si fa accompagnare nel tragitto (verso il nostro occhio) da una cornice visiva impeccabile, un flusso di immagini decorate da una voglia di ricerca tradotta in una quantità di dettagli mai pedanti e sempre appaganti.

Ci sarebbe tanto altro da dire su Tabu, da riflettere, da esaltare, ma il sottoscritto si ferma qui afflitto da un timore riverenziale che forse soltanto un’ulteriore visione riuscirà a mitigare. E la speranza è che tale visione (così come si vocifera) possa avvenire in una sala cinematografica nostrana, con l’augurio che il pubblico italiano capisca il meraviglioso paradosso di Gomes: un film in bianco e nero, dal sapore retrò e con una spina dorsale melodrammatica già vista e udita è invece un film innovativo, evoluto, modernissimo. Anche questo è cinema. Anzi, questo è il cinema.

lunedì 21 gennaio 2013

En attendant

Un’infornata di titoli che stuzzicano non poco l’appetito cinefilo del sottoscritto. Per alcuni la data di uscita è ancora incerta, l’unica certezza è che molti non arriveranno in Italia.

The Lobster - Yorgos Lanthimos

Dark Matter - Andrzej Zulawski

Camille Claudel, 1915 - Bruno Dumont [foto sopra]

Jane Got a Gun - Lynne Ramsay

Oktober November - Götz Spielmann

Paradise: Hope - Ulrich Seidl

Night Moves - Kelly Reichardt

Yves Saint Laurent - Bertrand Bonello

You Can’t Win - Robinson Devor

Tom à la Ferme - Xavier Dolan

Amour Fou - Jessica Hausner [foto sotto]

Vic et Flo ont vu un ours - Denis Côté

domenica 20 gennaio 2013

Elena

Andrej Petrovič Zvjagincev, Leone d’Oro nel 2003 per Il ritorno, continua il suo percorso cinematografico all’insegna della continuità; radicata nella tradizione russa, la sua arte si intaglia nella dialettica delle immagini, in una struttura che, in frangenti più o meno estesi, può far a meno delle parole per la sua sussistenza. Ne consegue che il cinema di Zvjagincev lascia molto all’intuizione di chi ne fruisce poiché ama indagare l’intangibile piuttosto che esporre scolasticamente le proprie ragioni.
Questo accadeva in The Banishment (2007), opera esteticamente ragguardevole, e questo accade suppergiù anche in Elena (2011) con in aggiunta degli accorgimenti: sebbene la sottigliezza del copione sia inalterata, quella forte indeterminatezza che segnava la pellicola precedente viene ridotta, e non poco, nonostante comunque persistano zone d’ombra che non si mancherà di evidenziare.

Dopo due film ambientati nella Russia più inospitale, e di conseguenza più affascinante, recintare la vicenda in un’area che non si può nemmeno definire urbana, bensì casalinga, perde una cifra di magnetismo non indifferente: se all’ambiente di cielo azzurro e prati smeraldo si sostituiscono cucine e letti matrimoniali, il laccio presta il fianco a qualche cedimento data l’ordinarietà della visione. Non è questo il punto, però; non lo è perché Zvjagincev fa il suo lavoro senza sbavature e gira con mano ferma sequenze inattaccabili. Emerge di contro un vizio che il russo non sembra essersi ancora scrollato di dosso, un vuoto che una volta scrostata la patina formale si dimostra difficilmente colmabile. A causa di una sceneggiatura messa a dieta ferrea, le situazioni elementari che vengono proposte (Elena che ama incondizionatamente il figlio; il marito che non ne sente la paternità) non hanno abbastanza forza per trattenere l’attenzione e per un’ora e qualche spicciolo il film scorre, va, ma non diventa l’apripista che vorrebbe essere per giungere al suo nucleo.

Il gesto della protagonista, veramente repentino, e, a causa della sonnolenza descrittiva sopraccitata, a tre o quattro passi dalla non-motivazione, agita le acque della storia e apre scenari non disprezzabili. Come per Izgnanie il fulcro degli ingranaggi è rappresentato da una donna, una donna in balia dei suoi sentimenti che si rapporta con un mondo maschile piuttosto duro (sia qui che là: l’uomo, il marito, non accetta e non perdona), tuttavia la differenzia sostanziale è che la nostra Elena non solo reagisce alla situazione negativa, ma lo fa con un cinismo che sembra aver succhiato via dal suo partner, un atto d’amore solo in superficie perché nelle profondità mantiene un carattere di assoluta noncuranza, freddezza e mancanza di riconoscenza verso chi, molto probabilmente, l’aveva tirata fuori dalle canne.

Il frutto del film è perciò abbastanza succoso, e non va scordato il rimando sociale che offre due facce della moneta-Russia e la sua dipendenza vitale verso il denaro, resta il fatto che, e vale la pena ripeterlo, germoglia da un seme incapace di attecchire nel terreno, che non crea le premesse adeguate per il suo completamento, e ne è d’esempio la frase pronunciata da Elena: “io amo Vladimir”, una menzogna che però non è capace di inverare la terribile azione compiuta.
Zvjagincev prosegue il suo percorso cinematografico ed è sicuramente vero, i due film successivi al bell’esordio non hanno ancora portato in dote la conferma, più che aspettare fiduciosamente il prossimo lavoro non si può.

venerdì 18 gennaio 2013

Disorder

Viene detto molto, se non tutto, già nei minuti iniziali: un tizio investito in strada, uno scarafaggio trovato negli spaghetti, delle persone che saccheggiano un supermercato. Schegge metropolitane di consueto disordine. Weikai Huang incolla tra loro dei footage ricavati da una dozzina di video amatoriali che ritraggono la Cina stretta nella morsa del cemento, e di rimando l’uomo accusa il colpo: c’è chi balla nel bel mezzo di un’autostrada, chi si vuole buttare giù da un ponte, chi spera di pescare qualcosa nell’acqua fetida, chi è appena all’inizio della propria vita – un neonato –  e già si trova in una pattumiera.

Qualità video bassissima con un bianco e nero tutto pixel e sgranature accompagnato da una modulazione dell’audio capace di far riecheggiare il rombo del traffico cittadino, Disorder (2009) è documentario sui generis, avanguardia visiva e sonora in cui ogni interpretazione è preclusa, a parte una: nell’apparente ordine della civilizzazione, lì tra i grattacieli e le manifestazioni balneari, l’anarchia “regola” la vita della città, in ogni angolo, sotto un ponte, oltre un muro, il caos domina.
E un branco di maiali che grugniscono sull’asfalto diventa la quintessenza di una babele urbana, mescolanza in eterno subbuglio di nonsense.

mercoledì 16 gennaio 2013

Our Beloved Month of August

In attesa di vedere Tabu (2012) il minimo che si possa fare è recuperare i lavori passati di Miguel Gomes, nuovo esponente di quel cinema portoghese che negli ultimi tre lustri ha dato molte gioie ai cinefili di tutto il mondo. Aquele Querido Mês de Agosto (2008) è per Gomes il secondo lungometraggio che arriva quattro anni dopo il film di debutto A Cara que Mereces, si tratta di un’opera “strana” capace di scatenare suggestioni teoriche senza però risultare pedante nei suoi continui svelamenti artificiali, e ciò si deve alla particolare costituzione che l’autore fornisce alla pellicola rendendola un oggetto filmico veramente unico; la specificità si sostanzia in una bipartizione inaspettata che ha nella prima sezione una navigazione documentaristica, vero e proprio quadro folcloristico della zona di Arganil, nella Beira Bassa, dove Gomes incolla esibizioni live di bande da paese con tanto di didascalia assieme a testimonianze, storie agricole e magari anche leggende degli abitanti autoctoni senza che vi sia logica continuità con quello che verrà proposto in seguito. E qui si giunge alla seconda sezione che evitando di provocare la minima stonatura e con grande equilibrio (a posteriori chi scrive ritiene che il pregio maggiore del film stia proprio nel passaggio) sovverte il registro, cambia pelle nel giro di un nonnulla, fa emergere un classico ordito sentimentale fra due cugini che s’amano contro il volere dei genitori. Il dislivello sulla carta precipizio è trasformato da Gomes in una discesa dolce e indolore, la transizione tra i due modelli di cinema si fa invisibile e impreziosisce un esperimento che può definirsi riuscito.

Nel movimento tra ciò che è reale e ciò che non lo è si fa largo una variabile fondamentale che nel paragrafo sopra non è stata menzionata. Nella porzione etnografica va sottolineata la presenza di Gomes stesso e del resto della troupe che discute la realizzazione di un eventuale film, probabilmente quello a cui assisteremo poco dopo. Il pingpong tra la dimensione di finzione e la sua antitesi si rivela perciò una costante che fonda Aquele Querido Mês de Agosto, e non negando che le velleità di Gomes facciano un briciolo di fatica a tradursi in qualcosa che sappia scavalcare l’esercizio concettuale, se l’ambizione nel cinema è un elemento che si deve premiare, allora quella di Gomes merita di essere remunerata con la visione.

lunedì 14 gennaio 2013

Beyond the Black Rainbow

Figlio di George Pan Cosmatos, regista greco deceduto nel 2005 che fu prodotto in Italia da Carlo Ponti, Panos Cosmatos (classe 1974) esordisce con Beyond the Black Rainbow (2010), film che nasce dalle sue visioni adolescenziali e che ne ripropone cornice ed atmosfera: siamo infatti nel 1983 e sono molti i segnali che abbracciano l’epoca culturale di riferimento: ci pensa innanzitutto l’ onnipresente sottofondo sonoro tra il dronico e il synthetico a creare una cappa 80’s che trova nell’ambientazione la strizzata d’occhio più marcata: un mad doctor che opera in un ambiente euclideo e una cavia con la quale sembra avere un rapporto speciale sono ingredienti tipici per uno sci-fi d’antan. Ad ogni modo il gioco di ricostruzione è valido fino ad un certo punto perché Cosmatos si mette di impegno per tramutare lo spunto fantascientifico in un trip allucinogeno che sbriciola ogni parvenza di razionalità per disciogliersi in un liquido lisergico, pozza fosforescente di rigorosa geometria, siero che si dilata in qualunque direzione possibile: esoterica, gnoseologica, psichica, animica, ecc.

Chi scrive professa da tempo l’emancipazione dell’immagine dal senso, non si tratta ovviamente di una strada obbligatoria ma solo il fatto che venga eventualmente intrapresa può suscitare un notevole interesse, e per questo a Cosmatos non gli si può dire nulla, il suo è un lavoro di Immagine oltranzista che non concede niente al cervello, le scariche visive sono potentissime e, sebbene il ritmo sia compassato, cingono lo spettatore in un susseguirsi di scenari abbacinanti intervallati da dissolvenze in rosso, punteggiati da dettagli (soprattutto oggetti) ripresi in sequenza, illuminati caleidoscopicamente da lampi accecanti e baluginii tremebondi. No davvero, di fronte alla forma, che si trova decisamente al confine con la videoarte, si può solo che tacere e restare ammirati dall’Energia che si propaga; la vetta delle quasi due ore di proiezione è il flashback del 1966 dove il giovane dottore vive (e noi con lui) una sorta di esperienza extracorporea resa da Cosmatos in un segmento strepitoso che potrebbe essere benissimo un’installazione in qualche museo d’arte contemporanea.

Tutto bello, tutto originale, tutto esteticamente pregevole, se non fosse che a visione ultimata si fa largo l’idea di come Beyond the Black Rainbow sia soltanto un superlativo specchietto per le allodole. Va bene l’indipendenza tra l’aspetto e il significato (forse andrebbe meglio in un cortometraggio ma non soffermiamoci su delle inezie), e va bene essere fedeli alla propria politica dal primo all’ultimo minuto, però a che pro infilare nel tessuto visionario questo legame tra il dottore ed Elena che pian piano si sfilaccia? Idem per i poteri telepatici di quest’ultima o per alcuni personaggi appena abbozzati presenti nella storia, quel che si intende dire è: se il comparto visivo investe e abbaglia, la scelta di inserire un filo tramico (che vorrebbe essere) conduttore paga dazio nell’ammaliante dispersione ottica, e anche il finale, con il doc impigliato nelle erbacce, non convince più di tanto per la sua sbrigatività, una voluta chiusura del cerchio che non si realizza e diventa apertura, insondabile.   

Al solito, grazie a Giovanni.

sabato 12 gennaio 2013

The Red Balloon

La pienezza cromatica del Technicolor e il suo sapore così magnificamente retrò fanno spiccare un palloncino rosso sulla pelle urbana della città, precisamente Ménilmontant, quartiere orientale di Parigi. È un film girato a ridosso della Nouvelle Vague quello di Albert Lamorisse, e da un punto di vista strettamente legato al dettaglio lo si può cinefilmente evincere da quelle carrellate laterali che trasformano il protagonista (Pascal, figlio vero di Lamorisse) in un precursore (siamo nel ’56) del corridore Léaud. I riferimenti al movimento patrocinato dai Cahiers si affiancano però ad una confezione che esula un poco dagli stilemi dell’onda, infatti il regista utilizza in modo massiccio il sonoro che copre quasi totalmente i dialoghi; la musica accompagna segue ed enfatizza le riprese, i gesti sul set si fanno pantomimici, slapstick: afferrare un palloncino appare oltremodo complicato.

È una storia semplice che vuole stimolare i sentimenti basici: l’amicizia e la fratellanza in opposizione all’odio e all’invidia. Dopo l’incontro tra il bimbo e il palloncino scandito da eventi che sebbene privi di coesione esplicitano in modo chiaro il strutturarsi del rapporto, segue la relativa avversione da parte dei coetanei del piccolo, una reazione senza fondamenta che però nell’ottica elementare della pellicola ci sta: un ballon si detesta perché vola, perché scoppiare del “normale” lattice gonfiato d’aria non è di certo un atto esecrabile. Eppure l’immagine del palloncino che lentamente si sgonfia, e che porta sulla sua superficie le “rughe” di un’accelerata Fine, colpisce la vista.

Vincitore di due top-awards in ambito cinematografico (Oscar + Palma), fonte di ispirazione per Flight of the Red Balloon (2007) di Hou Hsiao-hsien, nonché anticipatore di una scena centrale di Up (2009) e forse anche di una poetica sequenza in Plastic Bag (2009), Le ballon rouge è uno tra i corti più apprezzati di sempre. E in effetti è difficile affermare il contrario.

giovedì 10 gennaio 2013

The Hourglass

Andreas, scrittore, ritorna in Serbia dove ha passato l’infanzia. Qui vive in uno stato di ricordo perpetuo dove la figura del padre, ucciso in un campo di concentramento, diviene il protagonista delle sue memorie.

Produzione serbo-ungherese girata nel 2007 per mano del magiaro Szabolcs Tolnai ispiratagli dal romanzo La clessidra (1971) edito in Italia da Adelphi e scritto dall’autore slavo Danilo Kiš. Infatti la traduzione italiana della parola ungherese “fövenyóra” è proprio “clessidra”, un oggetto che per antonomasia si collega allo scorrere del tempo, un fluire che nel film di Tolnai non è regolare ma si istituisce in una continua alternanza tra passato e presente. Ne consegue che lo scivolare della sabbia da un bulbo di vetro all’altro diviene innaturale, come se una mano invisibile scuotesse il dispositivo mescolando il getto degli accadimenti. Si profila perciò un cinema cifrato a cui non preme la linearità del racconto per, all’opposto, incunearsi nei flash(back) e presentare situazioni a se stanti o sottilmente dipendenti alle vicissitudini paterne in un metodo che ricalca bene l’affrancamento dei Ricordi. Qualche veduta interessante Tolnai riesce a proporla (la seduta spiritica!), ma la ferita difficilmente medicabile causata da una sgangheratezza complessiva fa male al consumo della storia in cui capita sovente di rimanere perplessi dinanzi ad un andamento così sbilenco.

Una piccola boa di salvataggio ci viene fornita dalla regia che non tradisce la propria bandiera.
Al di là del bianco e nero capace di fornire sempre quel quid pluris ad una pellicola contemporanea, il garbo delle riprese è notevole e incontra i gusti di chi ama quel cinema capace di esaltare gli spazi interni ed esterni (molto bello l’incipit dove la mdp ha come traccia il tronco di un albero), e che con la stessa finezza coglie la faccia(ta) dell’uomo e subito dopo quello che hanno dentro. Anche se in realtà questo discorso non è granché assegnabile a Fövenyóra perché l’introspezione legata alla memoria personale resta intrappolata nella ragnatela riecheggiante, pertanto lo smarrimento di Andreas assume contorni sfocati al pari della sua nostalgia.

Presenti nel cast due attori che hanno lavorato con Béla Tarr: Lars Rudolph (Le armonie di Werckmeister, 2000) e János Derzsi (Il cavallo di Torino, 2011).

martedì 8 gennaio 2013

Van élet a halál elött?

Dopo un cortometraggio intitolato Beszélö fejek (2001) che vanta su IMDb una recensione entusiasta (link), Benedek Fliegauf, ungherese di Budapest e regista autodidatta, come ben ci ricorda la stringata biografia wikipediana (ri-link), esordisce con questo Van élet a halál elött? (2002) la cui traduzione spicciola è “c’è vita prima della morte?”. Si tratta di un documentario totalmente incentrato su Andrew Feldmár (primo piano stretto, e parole parole parole…), psicoterapeuta classe 1940 nato in Ungheria ma trasferitosi a 16 anni in Canada dove ha compiuto gli studi e dove dimora tutt’ora. L’interesse di Fliegauf nei confronti di Feldmár nasce da un consiglio del fratello psicologo che lo spinse alla lettura di un suo libro del quale rimase così affascinato da voler approfondire la conoscenza attraverso questo bio-documentario. Feldmár, e non si può negarlo, è una voce fuori dal coro scientifico, sicché è probabile che l’etichetta “scienziato” appena utilizzata non gli garberebbe per niente visto che il suo pensiero, o almeno quello che qui viene proposto, si scaglia prepotentemente contro il mondo accademico e contro quelle imposizioni che col tempo sono diventate dogmi sottaciuti.

La prima parte del film, che si apre con Feldmár nel bel mezzo di una prassi ipnotica, si costituisce in una visione generale del dottore dove viene spinta molto la questione dei ruoli che le persone assumono nella società e che offuscano la loro vera essenza, ne consegue per Feldmár che il mestiere di una persona o anche il matrimonio sono elementi deleteri da risanare.
Si prosegue poi con il concetto di schizofrenia e di come essa sia una malattia “inventata” dai medici, a sostegno di ciò Feldmár porta ad esempio il fatto che in un paese in cui il capitalismo non ha attecchito, lui parla dello Sri Lanka, ad una persona disturbata che si reca da uno sciamano gli verrà proposta come “terapia” di mangiare per tre giorni consecutivi con i propri cari. E così via: le storie (anche professionali, quella del suicidio-aborto sembra la trama di un film) e le elucubrazioni di Feldmár ripreso durante lezioni/conferenze scorrono nel loro discorrere esercitando un discreto fascino su chi della materia ne sa poco o nulla.

Nella seconda parte viene allo scoperto il motivo per cui Feldmár è “famoso”. I suoi metodi non esattamente ortodossi lo hanno portato negli anni a considerare alcuni tipi di droga come l’LSD dei rimedi per i mali dell’uomo moderno. Egli non fa accenni alle controindicazioni del caso per proferire davanti alla camera di Fliegauf gli efficaci risvolti terapeutici di questa sua cura; a sostegno della tesi riporta un caso empirico in cui un suo paziente alcolista dopo la somministrazione di allucinogeni ha smesso di bere. Non che lo psichiatra inciti a far uso di droghe e quant’altro, si tratta piuttosto di una serie di provocazioni dirette a tutte quelle convenzioni scientifiche (e culturali, politiche, sociali) che tanto gli danno fastidio.
Nel complesso un lavoro riuscito che offre il ritratto di una personalità forte e controcorrente, in più è l’occasione giusta per approcciare il cinema di Fliegauf e, perché no, una chiave di lettura per comprendere le opere che verranno.

domenica 6 gennaio 2013

Incident by a Bank

Händelse vid bank (2009) è un mirabile esempio di variazione sul tema; un tema, quello delle rapine in banca et similia, che ha fatto la fortuna di registi e attori. Solitamente, anzi: praticamente sempre, la proposta di chi dirige in merito all’argomento si è costituita nell’ottica della concitazione, offrendo una forma espressiva che fosse capace di elaborare al suo interno elementi come la suspense e l’action. Lo svedese Ruben Östlund, vincitore con questo corto dell’Orso d’Oro di categoria, opta invece per un canale di trasmissione che si colloca all’opposto di quello che potrebbe essere sommariamente definito “cinema commerciale”, la sua ambiziosa presa di posizione non è dissimile da un appostamento, una testimonianza oculare diegetica, un vero e proprio POV (Point Of View) dove la mdp ha funzioni biologiche (l’atto di farsi mezzo per mostrare, radice inossidabile del cinema) e tecnologiche (lo zoom come protesi oculare, escamotage che permette di osservare oltre ciò che sarebbe umanamente consentito).

Dieci minuti e poco più senza interruzioni: nessuna segmentazione o suddivisione scenica ma solo il movimento lento e fluido della cinepresa che si sposta con curiosità da un personaggio all’altro. L’impronta teatrale impone delle costrizioni che non pesano minimamente sulla visione: i confini sono evidenti (il ladro alla fine fugge verso la libertà del fuori campo) al pari dell’idea di palcoscenico esposta (le entrate sul set possiedeno un’avvertibile premeditazione [i carri festanti] che conferisce una taciuta geometria alla struttura), senza dimenticare che il già citato sguardo personale del regista si avvicina di molto a quello di uno spettatore in platea, o, ancora meglio, allo spettatore che semplicemente sta assistendo in quel momento alla proiezione.
Questo giocattolo cinematografico che richiama, seppur alla lontana, la forza scopica di Wavelength (1967), racchiude inoltre una sorta di meta-trama dove due uomini riprendono a loro volta gli attimi della rapina con un cellulare; le congetture in tal caso fioriscono e allietano: da una parte li sentiamo lamentarsi dell’inefficienza del marchingegno che nonostante sia il top nel settore certe cose non riesce a vederle (così come noi non vediamo nulla di ciò che accade all’interno dell’istituto di credito), e dall’altra mostra senza pudore la curiosità dell’uomo che pur rischiando di risultare stupido, non può fare a meno di guardare.  
Un corto intelligente.

venerdì 4 gennaio 2013

Volchok

Un dramma comico imbevuto nel surreale, quindi grottesco, forse – anche – film di formazione degenere, di audace lirismo sporco: Volchok (2009) è in prima battuta cinema che il sottoscritto ama vedere, una di quelle opere per cui l’abusata espressione “piccolo grande film” purtroppo (per l’abuso) calza che è un piacere, anche se così piccolo poi non è: sì che ad oggi manca una distribuzione al di là dei confini russi sia in sala che in DVD, però la pellicola in questione si è fatta un giro in parecchi Festival europei accaparrandosi un buon numero di riconoscimenti (va citato il FIPRESCI vinto in Ucraina) e perciò sottolineare la sua condizione ristretta appare un filo improprio, ma comunque anche con il curriculum sottocchio Volchok lo si continua ad avvertire come un film piccolo, da coccolare affettuosamente, che sprigiona un tepore filmico capace di riparare ai possibili passi falsi (per nulla gravi trattandosi di un debutto), alle esagerazioni, all’accanimento immotivato di una madre contro la propria figlia (ma ne siamo così sicuri? L’incipit suggerisce un aspetto che potrebbe pesare non poco sul legame delle due), e tutto perché è cinema che si forgia sull’estro: assolto dalle ganasce del reale che impongono le solite strade e autonomo nel sovrapporre registri divergenti, di fonderli senza che si crei disordine, di diffonderli nel tessuto diegetico scoprendo il suo prezioso cuore di film non ordinario, tragedia edulcorata dal dileggio e dalla fantasya, ingredienti che allo stesso tempo non ne sminuiscono certamente il carattere rovinoso.
La storia, che Sigarev ha adattato da una sua sceneggiatura teatrale, sembra la copia carbone di un altro piccolo (eh…) gioiello apprezzato molto: Magnus (2007), dell’estone Kadri Kõusaar, che condivide con Volchok un approccio simile alla genitorialità; in entrambi i film la figura del genitore ha sostanza aberrante, innaturale, tanto che sulla carta personaggi così non potrebbero mai reggere; la mamma di Sigarev fa sesso con uno dei tanti “zii” calpestando la propria figlioletta rannicchiata in fondo al letto, la insulta, la umilia, la abbandona più volte. Ma regge, eccome. Anche perché il punto di vista in cui bisogna calarsi è quello della bimba, una visione infantile sottolineata dalla narrazione interna che accompagna le immagini e da delle semplici quanto efficaci soggettive che stanno lì a certificare la leadership espositiva della marmocchia. Ciò che accade si distorce quindi sotto la sua fanciullesca lente, si rigenera in fola moderna sapendo intessere in un panorama tipicamente sbiadito dal punto di vista umano come è quello russo una deliziosa vivacità immaginifica, e Sigarev si mette su queste tracce giocando con la mdp, insistendo sui riflessi degli specchi o delle finestre, usando i carrelli all’indietro o in avanti come telescopi per scrutare gli attori in scena, scovando soluzioni estetiche mai banali, convincenti quando si fanno metafora (l’occhio della piccola visto attraverso una fessura che sembra il mirino di una cinepresa, a rimarcare la centralità della sua presenza) e quando sono fini a se stesse (la stupenda sequenza del sogno che squarcia oniricamente il film).

Le trovate del regista sono disseminate lungo i novanta minuti di proiezione e si lascerà allo spettatore il gusto di coglierle (occhio al particolare nel cimitero!), di più si può dire che la prestazione recitativa della mamma (si tratta di Yana Troyanova, moglie di Sigarev, anche lei alla sua prima assoluta) appare di alto livello cosiccome quella della protagonista deliziosamente imbronciata dall’inizio alla fine, e proprio la fine con quell’abbassamento della qualità video che rende granulosa l’immagine impastata nel buio notturno e trafitta dal sonoro fuori campo, ratifica l’arrivo di una corsa a perdifiato che è un po’ il rincorrere di una vita per la figlia e lo sfuggire dalla stessa vita per la madre, nell’unico modo possibile.

mercoledì 2 gennaio 2013

Mekong Hotel

Come tutta la cinematografia di Apichatpong Weerasethakul anche Mekong Hotel (2012) è un film brulicante di fantasmi. Due anni dopo il capolavoro crossmediale Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010) il massimo regista thailandese, nonché uno dei massimi registi tout court, partorisce quella che potrebbe essere definita un’opera minore, appendice eterea di un film mai concluso, parentesi breve (giriamo intorno ai sessanta minuti) e ovviamente impenetrabile da mente occidentale. Ambientato sulla sponda thai dell’immenso fiume Mekong che nasce in Tibet e sfocia sulle coste vietnamite, il film evapora ed automaticamente sfugge nel concentrarsi su scorci inessenziali (o apparentemente tali) dove i tre personaggi in scena discutono tra di loro su argomenti di varia natura. Se inizialmente Weerasethakul procede seguendo una linea narrativa quasi intelligibile, ancor prima di arrivare a metà strada la pellicola si stacca da terra e inizia a viaggiare nei tipici labirinti dell’autore originario di Bangkok. In questo tragitto sono riconoscibili le tematiche che hanno contraddistinto da sempre la carriera di Weerasethakul: balza all’attenzione spettatoriale l’apertura al mito, alla tradizione popolare (il Pob) [1], elementi atavici che disarmano per la Verità con cui vengono accettati e trattati da chi sta sullo schermo, eppure allo stesso tempo Mekong Hotel sa parlare di attualità: tra le pieghe di una storia dai confini sempre più sfumati che tangono la dimensione onirica, la Thailandia al di fuori dell’hotel deve fare i conti con un’inondazione che il governo non riesce a fronteggiare in modo efficace (il riferimento è presumibilmente l’alluvione che colpì il Paese nell’ottobre del 2011), inoltre non vengono risparmiati cenni politici ai vicini laotiani che stanno dall’altra parte del fiume o ad addestramenti bellici raccontati dalla madre che riportano a galla il frastuono di conflitti mai dimenticati.

La per-nulla-immediata commestibilità del cinema di Weerasethakul non deve portare ad un automatico scoraggiamento, assistere ad ogni sua nuova manifestazione artistica è come penetrare in un mondo ignoto e Mekong Hotel continua a scorrere in quel magico sentiero, iniziato nel 2000 con Mysterious Object at Noon, dove il costante pizzichio di una chitarra è sufficiente a mitigare qualunque stasi e a trasformare un albergo come tanti in un tempio sospeso per anime viandanti che (si) sognano (in) altre esistenze.
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[1] Non va scordato che Weerasethakul è il padre di un’opera etnico-culturale come The Adventures of Iron Pussy (2003), pastiche musicale che celebra un preciso tipo di cinema legato inestricabilmente alla nazione di appartenenza.