Come tutta la cinematografia di Apichatpong Weerasethakul anche Mekong Hotel (2012) è un film brulicante di fantasmi. Due anni dopo il capolavoro crossmediale Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010) il massimo regista thailandese, nonché uno dei massimi registi tout court, partorisce quella che potrebbe essere definita un’opera minore, appendice eterea di un film mai concluso, parentesi breve (giriamo intorno ai sessanta minuti) e ovviamente impenetrabile da mente occidentale. Ambientato sulla sponda thai dell’immenso fiume Mekong che nasce in Tibet e sfocia sulle coste vietnamite, il film evapora ed automaticamente sfugge nel concentrarsi su scorci inessenziali (o apparentemente tali) dove i tre personaggi in scena discutono tra di loro su argomenti di varia natura. Se inizialmente Weerasethakul procede seguendo una linea narrativa quasi intelligibile, ancor prima di arrivare a metà strada la pellicola si stacca da terra e inizia a viaggiare nei tipici labirinti dell’autore originario di Bangkok. In questo tragitto sono riconoscibili le tematiche che hanno contraddistinto da sempre la carriera di Weerasethakul: balza all’attenzione spettatoriale l’apertura al mito, alla tradizione popolare (il Pob) [1], elementi atavici che disarmano per la Verità con cui vengono accettati e trattati da chi sta sullo schermo, eppure allo stesso tempo Mekong Hotel sa parlare di attualità: tra le pieghe di una storia dai confini sempre più sfumati che tangono la dimensione onirica, la Thailandia al di fuori dell’hotel deve fare i conti con un’inondazione che il governo non riesce a fronteggiare in modo efficace (il riferimento è presumibilmente l’alluvione che colpì il Paese nell’ottobre del 2011), inoltre non vengono risparmiati cenni politici ai vicini laotiani che stanno dall’altra parte del fiume o ad addestramenti bellici raccontati dalla madre che riportano a galla il frastuono di conflitti mai dimenticati.
La per-nulla-immediata commestibilità del cinema di Weerasethakul non deve portare ad un automatico scoraggiamento, assistere ad ogni sua nuova manifestazione artistica è come penetrare in un mondo ignoto e Mekong Hotel continua a scorrere in quel magico sentiero, iniziato nel 2000 con Mysterious Object at Noon, dove il costante pizzichio di una chitarra è sufficiente a mitigare qualunque stasi e a trasformare un albergo come tanti in un tempio sospeso per anime viandanti che (si) sognano (in) altre esistenze.
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[1] Non va scordato che Weerasethakul è il padre di un’opera etnico-culturale come The Adventures of Iron Pussy (2003), pastiche musicale che celebra un preciso tipo di cinema legato inestricabilmente alla nazione di appartenenza.
lo aspetto da tanto, ma è difficile recuperarlo (impossibile da trovare online)... la tua /scarna/recensione alimenta l'attesa e la curiosità, il resto è condizionato dalla bravura di Api che mi lascia sempre senza parole
RispondiEliminaSul muletto c'è, e pure con i sub italiani. Cosa si può volere di più dalla vita?
RispondiEliminacredo non si può volere nient'altro, era da un pò che non controllavo sull'amico mulo, grazie, ancora...
RispondiEliminache dire, mekong hotel sembra quasi un bugiardino sulle sue indiscusse qualità e, contemporaneamente, un assist invitante per tutti i detrattori: la scarsa durata e l'assimilazione dei suoi topos ormai definiti (sogno-realtà-tradizione-evocazione)depongono a favore di questo esperimento che in mano ad un novizio di una scuola sperimentale deborderebbe; grazie a te, a causa anche delle mie scarse coordinate occidentali, ho scoperto quanto il Pob sia figura esiziale nella cultura thailandese, un richiamo naturale del proprio corpo e compagna attiva della mente, impossibile condurre la propria esistenza ignorandolo, dai film di api ne arriva un'eco della loro pregnanza(soffermandosi sul rapporto reale-onirico in quelle zone ho trovato questo bel articolo http://www.asiablog.it/2011/01/14/bambini-morti-urlano/), una visione davvero criptica o lontana da qualunque schema fantasioso occidentale, ma dannatamente affascinante, hai ragione: sa trasformare "anime viandanti che (si) sognano (in) altre esistenze", magari succede anche con chi guarda, chi lascia soccorrere la sua anima spettatrice al demiurgo thailandese, fingendo sia solo cinema ... ps: hai notizie sul suo prossimo lungometraggio?
RispondiEliminaCerto che quella zona geografica fa davvero parte di un altro mondo, di un'altra cultura, di un modo di vivere che non ha niente a che fare col nostro. Dall'articolo che hai postato si evince proprio questo, l'alterità thailandese è quanto di più ammaliante ci possa essere e perciò ritengo da sempre che i film di AW vadano visti a prescindere perché ogni volta sono capaci di riscrivere i codici del cinema abituale. E Mekong Hotel, sì bugiardino e sì lavoro avanguardistico-sperimentale, non sfugge a questa regola.
RispondiEliminaAl tuo p.s. non so rispondere, c'è però il corto Ashes da vedere che pare sia molto meritevole.