La pienezza cromatica del Technicolor e il suo sapore così magnificamente retrò fanno spiccare un palloncino rosso sulla pelle urbana della città, precisamente Ménilmontant, quartiere orientale di Parigi. È un film girato a ridosso della Nouvelle Vague quello di Albert Lamorisse, e da un punto di vista strettamente legato al dettaglio lo si può cinefilmente evincere da quelle carrellate laterali che trasformano il protagonista (Pascal, figlio vero di Lamorisse) in un precursore (siamo nel ’56) del corridore Léaud. I riferimenti al movimento patrocinato dai Cahiers si affiancano però ad una confezione che esula un poco dagli stilemi dell’onda, infatti il regista utilizza in modo massiccio il sonoro che copre quasi totalmente i dialoghi; la musica accompagna segue ed enfatizza le riprese, i gesti sul set si fanno pantomimici, slapstick: afferrare un palloncino appare oltremodo complicato.
È una storia semplice che vuole stimolare i sentimenti basici: l’amicizia e la fratellanza in opposizione all’odio e all’invidia. Dopo l’incontro tra il bimbo e il palloncino scandito da eventi che sebbene privi di coesione esplicitano in modo chiaro il strutturarsi del rapporto, segue la relativa avversione da parte dei coetanei del piccolo, una reazione senza fondamenta che però nell’ottica elementare della pellicola ci sta: un ballon si detesta perché vola, perché scoppiare del “normale” lattice gonfiato d’aria non è di certo un atto esecrabile. Eppure l’immagine del palloncino che lentamente si sgonfia, e che porta sulla sua superficie le “rughe” di un’accelerata Fine, colpisce la vista.
Vincitore di due top-awards in ambito cinematografico (Oscar + Palma), fonte di ispirazione per Flight of the Red Balloon (2007) di Hou Hsiao-hsien, nonché anticipatore di una scena centrale di Up (2009) e forse anche di una poetica sequenza in Plastic Bag (2009), Le ballon rouge è uno tra i corti più apprezzati di sempre. E in effetti è difficile affermare il contrario.
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