venerdì 25 gennaio 2013

Gitarrmongot

Lascia molto perplessi il primo lungometraggio di Ruben Östlund datato 2004, tali dubbi sorgono dall’ossatura eretta dallo svedese: per novanta minuti una carrellata di situazioni bislacche che hanno per protagonisti gli abitanti di una città immaginaria chiamata Jöteborg. C’è una parvenza di coralità all’interno della storia poiché abbiamo un piccolo menestrello che vaga con un socio più adulto (ma solo anagraficamente), una donna a cui hanno rubato la bicicletta, dei teppistelli autori del furto e altre strambe figure che, chi più chi meno, tornano e ritornano sulla scena. Tuttavia le mire del regista esulano dall’assemblare i molteplici quadri in un unicum narrativo preferendo la segmentazione, una serie di fotografie astratte che ritraggono persone in balia della propria idiozia, perché di questo si tratta: una sequela di comportamenti idioti e poco altro. Quel poco altro nasce dalla pervicacia dello spettatore che cerca di costruire da sé una spina dorsale, un filo conduttore che fornisca un minimo di direzione, e di spessore, ma anche ipotizzando che l’obiettivo del film sia quello di rappresentare le note stonate di una grigia sinfonia sociale, l’operazione risulta una furba scorciatoia per buttare nel pentolone quante cose più anormali si possa pensare senza un briciolo di logica. Così per dire: assistendo alle marachelle dei bulletti o alle “performance” canore di Erik chi scrive ha subito pensato agli imbecilli di Jackass, poi andando sulla pagina di Wikipedia inglese del film (link) si legge che è stato proprio paragonato ad un “Jackass senza cuore”. A parte l’affermazione incomprensibile, se fossi Östlund non sarei molto felice dell’accostamento…

Per lo meno nel campo estetico c’è di che interessarsi perché il cinema di Östlund crede fermamente nella stasi; è nel non-movimento che prende forma Gitarrmongot, canale visivo quanto mai sperimentale che possiede un alto tasso di anticonvenzionalità, anche perché il regista centra praticamente tutti i punti di visuale offrendo scorci che arricchiscono un’estetica (diciamo) sciatta, impressa nella realtà. Il punto è che comunque si poteva fare meglio anche qui, Östlund paga forse una non piena consapevolezza dell’attrezzo che maneggia sicché la possibilità di divertirsi con le immagini, con i confini diegetici ed extra (ciò accadrà invece in Incident by a Bank, 2009), non viene neanche presa in considerazione, rimangono soltanto degli stupidi che fanno cose stupide all’interno dello schermo.
Per l’Östlund del 2004 Roy Andersson è ancora un modello da raggiungere.

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