venerdì 30 dicembre 2011

Father and Daughter

Potere dell’iterazione: tutto cambia, niente cambia.
Il cortometraggio dell’olandese Michael Dudok de Wit che gli valse un Oscar nel 2001 riassume dentro otto indimenticabili minuti la vita di una figlia che aspetta il proprio padre.
La ripetizione del gesto (lei che continua a presenziare sul luogo del distacco) si accompagna alla mutazione progressiva del tempo (lei che invecchia), così abbiamo a che fare con una continua transizione verso i successivi passaggi della vita e allo stesso tempo una sedimentazione del sentimento. Il tempo passa ma l’amore verso il padre no, e la ruota della bici diventa manifesto di una perenne ciclicità.

Il tratto essenziale dell’autore squaderna il cuore delle cose, spoglia, sottrae, sfronda.
La china disegna su un fondale color autunno il minimo indispensabile: due alberi sfumati, una linea che si fa terreno da percorrere in bicicletta, dei ghirigori che diventano acqua da contemplare speranzosi.
La musica è in totale sintonia con le immagini e prende lo spettatore per mano in un frammento filmico che contiene la sintesi sublime del concetto di malinconia.
Malinconia che si tramuta in commozione nell’impareggiabile finale che sfugge ad ogni tentativo di descrizione.

Father and Daughter: lacerante Capolavoro.

giovedì 29 dicembre 2011

12 x 12

In realtà i film qui sotto elencati non usciranno tutti nel 2012, anzi, forse, da qualche parte, qualcuno è già arrivato in sala. Ma non è questo il punto.
Ciò che conta è che i relativi 12 registi hanno lasciato un segno da queste parti, e l’auspicio è che in futuro continuino su questa strada.

Snow Piercer di Bong Joon-ho

Laurence Anyways di Xavier Dolan

La Créatrice di Bruno Dumont

En duva satt på en gren och funderade på tillvaron di Roy Andersson (foto sopra)

Colt 45 di Fabrice Du Welz

Viale Aretusa 19 di Michelangelo Frammartino

The Gambler
di Szabolcs Hajdu

Dau di Ilya Khrzhanovsky (foto sotto)

Stoker di Park Chan-wook

Post Tenebras Lux di Carlos Reygadas

Kenkichi di Sion Sono

En dans på roser di Simon Staho

mercoledì 28 dicembre 2011

Riassunto d'oltrefondo

È vero che non amo molto le classifiche, ma tale idiosincrasia nasce sostanzialmente dal fatto che non riesco a farle, ciò non toglie che comunque mi piaccia leggerle. Quest’anno però essendomi impegnato con la musica non potevo lasciare indietro il cinema che è l’argomento principale di Oltre il fondo, di conseguenza ho fatto quella che è sì una graduatoria, ma attenzione, non dei migliori film usciti nel 2011, bensì di quelli IO ho visto nel 2011. E poi diciamo che questa classifica, almeno per le prime due posizioni, si è scritta da sola…
Eccola:

1) The Turin Horse
Cinema senza eguali, l’ultimo capolavoro di Tarr stravince qualunque classifica per manifesta superiorità.

2) Japón
Sorretto da toccante profondità e cucito da una tecnica sublime, il film di Reygadas è una pietra miliare del decennio che nessuno, ahimè, ha mai visto.

3) Ex aequo:
- tutti i film di Sion Sono con Cold Fish apice artistico e Love Exposure come manifesto programmatico.
- tutti i film di Apichatpong Weerasethakul con la seconda parte di Tropical Malady vetta assoluta e Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti soave punto di arrivo, e di ripartenza.

4) Un bel terzetto:
E via di seguito tante altre cose degne.

L’ibridazione del documentario ne La bocca del lupo; tutto Ratanaruang con Ploy punta di diamante; lo sconosciuto Sexual Dependency; l’ancor più sconosciuto 4; tutto Dumont, da L’età inquieta ad Hadewijch; Surviving Life, sono sempre i migliori che se ne vanno; la nuova America: Red White & Blue e The Woman; la Grecia che avanza: Attenberg; schegge nere, nerissime: Pingpong e Nothing's All Bad; il terrorista Nel più alto dei cieli; l’esuberanza di Goodbye, 20th Century; l’orrore vero in Swansea Love Story, l’orrore estremo di Orozco the Embalmer.

martedì 27 dicembre 2011

Eraserhead's Music Awards 2011

Quest’anno il gregge delle classifiche e top ten varie che affollano gli ultimi giorni dell’anno accoglie anche me. Me che altro non sono se non un ascoltatore umile nonché ignorante in materia.
Tuttavia, essendo allergico a numerare in ordine crescente o decrescente le cose, ho optato per tre grupponi in cui sono raccolte le uscite musicali che in questo 2011 mi hanno maggiormente soddisfatto.
Nel primo gruppo, l’unico che rispecchia per sommi capi un indice di gradimento, ci sono i dischi che ritengo migliori degli altri, nel secondo che è qualcosa simile al purgatorio tutto ciò che sta nel limbo, mentre nel terzo c’è un po’ di tutto.
E ora qualche breve considerazione.
Se in aprile è uscito Marinai, profeti e balene di Capossela che è stato apprezzato parecchio (classifiche alla mano), a molti sarà invece sfuggito un disco uscito il mese prima dal titolo Supersantos scritto e cantato da Alessandro Mannarino. Pongo questo lavoro in cima a tutto, arditamente, fiduciosamente, perché: lui è giovane, italiano, ogni tanto ha Tom Waits nella gola, canzona le cose serie della vita, mette in atto la semplicità complessa, sa pungere, immalinconire e farsi ascoltare col suo storytelling “de borgata”. Avanti così Alessandro, sfornami un’altra canzone – splendida – come L’onorevole e ti vorrò bene per sempre.
Every Silver Lining Has A Cloud è veramente un album con le palle, di quelli che ti spalancano il cuore e ci buttano dentro le onde del mare, i tramonti di novembre, le foto ingiallite di tuo padre sorridente e tante altre robe che mettono in pace con se stessi. Ma è pur sempre post-rock adagiato su modelli strutturali che si possono sentire in molti altri lavori della categoria, perciò freno un pochino l’entusiasmo.
Zola Jesus è probabilmente la voce che per più tempo ha riempito l’aria della mia stanza. Una voce densa, colla bollente su acciaio lucido, la ragazza tiene in piedi tutto il disco con le sue doti canore. Forse il repertorio non è vastissimo ma basta un pezzo come Ixode che smuoverebbe anche un paralitico per farmi mettere la sua foto sul comodino.
James Blake è il baby-fenomeno dell’anno, uno che sembra quasi Hegarty e che allo stesso tempo sembra quasi Burial non può che avere la mia benedizione, l’unica cosa che gli posso dire è di rallentare un po’ la produzione, tra album, EP e collaborazioni varie, James è sempre stato presente nei siti dedicati, ma tanta quantità non corrisponde sempre a qualità.
Poi poi, Lykke Ly ha tutte le carte in regola per diventare l’icona del pop underground; il tappeto di chitarre acustiche che caratterizza i lavori di Mark McGuire ti scalda dentro, e Alma è uno dei miei pezzi dell’anno; Adventures di Germany Germany è ben più che dance: musica che tocca i 140 bpm e conserva una travolgente dignità; I Cani sono la band italiana più furba del 2011, ma hanno comunque avuto delle cose da dire.
Altre riflessioni sparse: l’ultimo Radiohead è un album molto difficile, non di agile ascolto, comunque affascinante; le misteriose Palpitation sfornano un prodotto di stampo dream-pop dal ritmo robusto veramente godibile; non amando granché i dischi doppi ho trovato gli M83 troppo ridondanti nonostante ci siano ascolti notevoli (Echoes of Mine è il b-side ideale); Mogwai meravigliosamente minori; Apparat in fase di transizione si allontana dall’elettronica, da seguire gli sviluppi.
Infine: menzione speciale per la colonna sonora di Drive; occhio al cantautorato disilluso di unòrsominòre. e alla rabbia fluviale di Ultimo Attuale Corpo Sonoro; DFRNT spacca; Heytal se ne sta; Fossati presente per honoris causa.
Björk fuori (con)corso.

Giusto tre video e poi il best of:

Is Tropical - The Greeks
Lykke Li - I Follow Rivers
Duck Sauce - Big Bad Wolf

1

Alessandro Mannarino - Supersantos

Every Silver Lining Has A Cloud - Every Silver Lining Has A Cloud

Zola Jesus - Conatus

James Blake - James Blake

Lykke Ly - Wounded Rhymes

The Rapture - In The Grace Of Your Love

Susanne Sundfør - The Brothel

Mark McGuire - Get Lost

Chllngr - Haven

Ema - Past Life Martyred Saints

Germany Germany - Adventures

Burial - Street Halo (EP)

I cani - Il Sorprendente Album D'Esordio Dei Cani

Cults - Cults

2

Be Forest - Cold

Clams Casino - Instrumental Mixtape

Palpitation - I'm Absent, You're Faraway

Rubik - Solar

Dum Dum Girls - Only In Dreams

Youth Lagoon - Year Of Hibernation

Radiohead - The King Of Limbs

SBTRKT - SBTRKT

The Field - Looping State Of Mind

Burial/Four Tet/Thom Yorke - Ego/Mirror

M83 - Hurry Up, We're Dreaming

Mogwai- Earth Division (EP)

Apparat - The Devil's Walk

Four Tet – Locked/Pyramid

Austra - Feel It Break
3

Hyetal - Broadcast

Feist - Metals

Jessica 6 - See The Light

unòrsominòre. - La Vita Agra

Real Estate - Days

Trouble Books & Mark Mcguire - Trouble Books & Mark Mcguire

Miracle Fortress - Was I the Wave

Ultimo Attuale Corpo Sonoro - Io ricordo con rabbia

James Blake - Enough Thunder (EP)

VA - Drive (Soundtrack)

Puzzle Muteson - En Garde

Slow Club - Paradise

DFRNT - Emotional Response

Rustie - Glass Swords

Veronica Falls - Veronica Falls

Kate Bush - 50 Words For Snow Retail

Hercules & Love Affair - Blue Songs

Should - Like a Fire Without Sound

Kindest Lines - Covered in Dust

Ivano Fossati - Decadancing

The Autumn Leaves Fall In - The Autumn Leaves Fall In (EP)

lunedì 26 dicembre 2011

Treevenge

Jason Eisener, uno dei protetti della setta Tarantino-Rodriguez [1], firma con questo Treevenge (2008) un cortometraggio bipartito praticamente inattaccabile.
La prima parte funzione perché vengono antropomorfizzati i canoni di appartenenza al regno animale: i piccoli alberelli tremano di terrore mentre le accette tranciano i tronchi dei propri simili, gli abeti mugolano, tentano di ribellarsi, comunicano fra di loro, in una parola: hanno paura.
Per completezza narrativa anche gli uomini sono lontani parenti di se stessi, agiscono seguendo una rabbia interna, irrazionale, xenofoba(?), e trascinano gli alberi mutilati in un campo che sì, assomiglia di brutto ad un campo di concentramento.

La seconda parte funziona ugualmente perché riprende con onestà, e senza troppa pedanteria essendo un corto di 18 minuti, quel cinema bis che conosciamo bene.
Gli abeti dopo aver subito lo sradicamento dal proprio boschetto e l’onta degli addobbi natalizi si ribellano, ed è una carneficina di chiaro stampo b-movie che riesce comunque ad eccedere a cospetto di un lasso di tempo così limitato, cita (l’occhio trapassato sa molto di omaggio a Fulci), gioca (la stella che va a conficcarsi nella gola del padre) e chiosa in crescendo come solo un tempo sembra sapessero fare (la base del tronco che spappola la testa del neonato).
Scherzosamente si potrebbe dire che siamo di fronte ad un rape&revenge del nuovo millennio, seriamente diciamo: è un corto che al di là di tutto spiattella la sua piccola verità: gli alberi di natale comprateveli finti se proprio dovete!

… e occhio a quello che avete nel salotto.
______________
[1] Il trailer farlocco di Hobo with a Shotgun è poi diventato nel 2011 un vero e proprio lungometraggio con Rutger Hauer come protagonista.

domenica 25 dicembre 2011

Trasporto Eccezionale - Un Racconto di Natale

La strenna di Oltre il fondo arriva sotto i vostri alberi natalizi direttamente dalla Finlandia, per essere precisi dal monte Korvatunturi, algido rilievo lappone di cui poco si sa, se non che, a detta di molti, principalmente sognatori, lì albergherebbe Babbo Natale.
Credeteci perché è il 25 dicembre, e se non bastasse la data, guardate quel novello Mr. Scrooge intento a perforare la pietra per scovare il suo magnifico regalo…

Frutto di un percorso personale dedicato a questo argomento (vedere la filmografia del regista Jalmari Helander per credere), Rare Exports (2010) è un film che vuole smarcarsi dalle costrizioni che il cinema natalizio impone proponendo in chiave “nera” la figura di Santa Claus.
Non è certo la prima volta che ci viene offerto un ritratto dark della figura più amata dei bambini, ma è altrettanto vero che qui, nei fatti, non vedremo mai e poi mai Babbo in tutto il suo splendore (o orrore, visto che corna?) lasciando all’immaginazione, carburante indispensabile quando si trattano questioni del genere, il compito di guidare oltre il grigiore della razionalità.

Con sagacia il regista offre lo scettro del main character al più piccolo degli attori in scena: Pietari, che nonostante sia un bambino con relativo peluche appresso, ha come compagno di avventure anche un fucile, vero. Ma questo non basta a renderlo “adulto” perché il compagno di marachelle appena più grande lo chiama mezzatacca, e allora il suo piccolo riscatto, la sua crescita (abbandona il pupazzo prima del finale), avvengono grazie alla capacità di perseguire i sogni, di credere con tutto se stesso a quella che all’apparenza sembrerebbe un’innocua leggenda locale, ma che in realtà è una roba seria, una roba da grandi laddove i grandi, però, non solo non hanno tempo per credere a queste cose, ma una volta finiti dentro alla spiacevole situazione preferiscono badare alle loro frivole questioni, come il denaro e la possibilità di guadagno.

La cornice pressoché artica carpisce il mood che si respira più o meno ovunque nell’Emisfero Boreale in questa parte dell’anno, implementato ovviamente dal carico di significati che vengono ricondotti alla Lapponia. Pur attingendo notevolmente alle latte della fiaba, il quadro complessivo non lesina un paio di immagini che esulano dalla magia natalizia per regalare qualche microscopico ed inaspettato brividello. Quando infatti entra in scena il primo elfo, la sua magrezza, sporcizia, e immobilità, portano in altri territori, quasi horrorifici, il che anticipa la conclusione dove l’uso della CGI rende l’esercito di vecchi nudi e incazzati una poderosa armata di romeriana memoria.

Non esattamente quello che passa in tv durante il periodo festivo, ma nemmeno una rarità d’essai.
Godibile per i toni carini, lodevole per aver variato su un tema vecchio come il mondo, divertente anche grazie alla breve durata. Senza grandi picchi, ma nemmeno grandi pecche.
E mezzo punto in più perché a Natale siamo tutti più buoni.

sabato 24 dicembre 2011

Goodbye, 20th Century

E poi niente, ad un film che non daresti due lire bucate per molti motivi, del tipo: suvvia, qualcuno ha mai sentito parlare del cinema macedone? Oppure: la locandina (in realtà fuorviante) mostra un Santa Claus incazzoso, sarà mica una delle tante variazioni (/derivazioni) sul tema natalizio?
Ecco, ad un film che parte con delle premesse di questo tipo ci si appresta alla sua fruizione senza pretendere alcunché, se non del sano intrattenimento.
E la capacità di accaparrarsi l’attenzione Zbogum na dvaesetiot vek (1998) ce l’ha, ma ce l’ha alla grande, ed il bello è che sa andare ben oltre tale step mostrandosi opera sorprendentemente stratificata pur mantenendo un tono leggero e fracassone.
D’altronde questa pellicola diretta a 4 mani da due amici-registi-collaboratori che si chiamano rispettivamente Darko Mitrevski e Aleksandar Popovski, ha sfiorato la competizione più rinomata di tutto il globo: candidatura per miglior film straniero agli Oscar del ’99 senza però riuscire ad entrare nella magica cinquina.

Il pregio di fondo che potrebbe distrattamente sfuggire ma che invece diventa base solidissima per edificare il film tout court, è il proficuo atteggiamento di non volersi prendere sul serio.
Lo si comprende da subito, con il primo segmento che riesce a far sorridere sebbene ritragga l’esecuzione di un uomo, vuoi per la caratterizzazione particolarissima dei personaggi che spazia da un’impressione nemmeno troppo vaga desunta dai comics americani, a suggestioni (presumo) tradizionali con quelle donne in costume che piangono il defunto, vuoi perché l’uomo in questione è immortale e perciò si innescano delle gag divertenti ottimamente calibrate.
L’ironia prosegue poi il suo corso, e più si va avanti e più se ne trovano ulteriori manifestazioni, tutte decisamente succulente.
Va citata la chiara presa in giro nei confronti degli action movie dove una sparatoria viene spogliata di quella boria a stelle e strisce per costringere il cattivo di turno (un Joker versione tarocca) a tossire per coprire il rumore della sua pistola giocattolo.
Ma va citata obbligatoriamente anche la veglia funebre che costituisce praticamente tutto il secondo blocco e che pur contendendo al suo interno scampoli da commedia non proprio brillante (rutti e scorregge a volontà) trova felice completezza nell’uso, nel piazzamento, nel tiro, che viene fatto di questi espedienti.

Il tutto è sorretto da una tecnica eterogenea che cambia continuamente registro e si trova sempre a suo agio, sia che debba riprendere una landa deserta o che si trovi in una gelida stanza bianca.
Nel mezzo sgomitano lampi di vera classe, ad esempio l’intento della prima sparatoria spero che non venga catalogato come roba da b-movie, perché è proprio il contrario dato che i due autori fanno come Tarantino: sono consapevoli degli stilemi del cinema di genere e li ripropongono secondo la loro visione, cosicché il buffo balletto di Kuzman trivellato dalle pallottole non è imitazione, bensì riproposizione attuale, richiamo nostalgico e soprattutto cinefilo.
Non c’è il tempo di tirare il fiato: se l’entr’acte virato seppia appare in prima battuta scollegato dal corpo filmico ma comunque interessante per apprezzare la varietà del film, ecco che nella riunione di famiglia i registi giocano sulla percezione cromatica laddove lo sfondo bianco è la tela perfetta sulla quale far risaltare prima gli abiti neri delle persone, e subito dopo il loro sangue in una parentesi che sfiora un mondo ulteriore, quello dell’horror.

Eppure non c’è soltanto questa piacevole ironia che confluisce nel grottesco e nemmeno la singola cura palpabile verso il metodo. No. Goodbye, 20th Century riesce comunque a lambire temi universali come il principio e la fine, e non ha alcuna paura di risultare gratuito o velatamente malizioso parlando di incesti o blasfemia (Kuzman che finalmente ha un’erezione di fronte alla Madonna è la trovata più dissacrante, e geniale, del film).
Se non bastasse i tre atti del film, sicuramente differenti sotto vari aspetti, restano ad ogni modo incollati tra loro per merito della frase ripetuta più volte che dice dell’incertezza del futuro parificabile a quella del passato. Non ci è dato sapere con sicurezza se vi sia da parte di Mitrevski e Popovski una voglia mirata a dinamitare alcuni dei capisaldi che costituiscono l’esistenza (la religione; i legami consanguinei; i miti moderni: Babbo Natale mutato in assassino-profeta), e tale sfocatura potrebbe far storcere il naso a chi preferisce ricevere piuttosto che andare a cercare, ma assicuro che in questo film macedone di cose da cercare ce ne sono molte, e vale la pena farlo.
Davvero una grande sorpresa.

venerdì 23 dicembre 2011

We Are What We Are

Il capo branco muore in un centro commerciale. Dentro la pancia gli trovano un dito.
I famigliari hanno bisogno di procacciarsi il cibo per sopravvivere, non senza seminare cadaveri sul loro cammino.

Da che mondo è mondo un film horror, e prendete per buona questa superflua nomenclatura, ha il compito di farsi mezzo, di farsi veicolo. Pensate per un attimo a mastro Romero e ai suoi morti viventi. Sia lui che molte altre derivazioni del caso hanno utilizzato gli zombi come un pretesto per raccontare dell’altro. Alla fine tutti contenti: chi cercava un po’ di sangue e sbudellamenti vari è stato appagato, e chi al di là dello splatter sperava in sensi e significati, anche.
Il messicano Jorge Michel Grau per la sua prima fatica cinematografica sceglie di intraprendere questa strada (link):

Il mio scopo principale era quello di mettere in scena la disintegrazione di una famiglia come metafora della disintegrazione di un’intera società, e il cannibalismo si è rivelato il mezzo più funzionale a questo tipo di lavoro.

Quindi ancora una volta un cinema matrioska che contiene all’interno un cinema ulteriore.
La coesistenza di un duplice volto a mo’ di scatola cinese nobilita senz’altro la pellicola che ha il merito di non inaridirsi in una delle due diramazioni sopraccitate. Val la pena comunque spendere qualche riga nel dettaglio, soprattutto sul fatto che preso atto di un duplice discorso, tirando su le reti, i pesci rimasti dentro non sono particolarmente tanti, né troppo appetitosi. Sempre meglio che niente, ad ogni modo.

Sul versante horror o perlomeno sulla mera “storia antropofoga” si casca male, e per fortuna aggiungerei. Grau dosa il gore che altrimenti avrebbe assorbito troppa importanza e di conseguenza deprezzato l’opera tout-court. La via seguita negli ultimi anni nel circuito che più o meno conta è quella lontana da un’esibizione ostentata del sangue in favore di una ricerca più oculata del momento orrorifico, spesso, come in questo caso, situato nel finale. Prima, a scanso di equivoci, va segnalata una tessitura d’atmosfera niente male, dove l’ambiente casalingo simil-cripta ha parecchie ragioni d’essere.
Per quanto concerne tutto ciò che è altro, e qui metteteci davvero tutto, si può dire che la tesi di fondo è in grado di farsi sentire. Alcuni mondi vengono squadernati con efficacia, vedasi il nucleo famigliare per poi travalicare i confini domestici e giungere nelle strade, senza scordarsi delle istituzioni. Nonostante la messa in opera sia asciutta, dunque, gli argomenti non mancano.
Ma è pur vero per chi scrive che le fotografie degradanti della civiltà (prostitute et simila), dell’umanità (Alfredo e qualcosa più grande di lui), non sono particolarmente innovative, o almeno non lo sono per come ci vengono proposte.

Alla fine tutti contenti? Mah, ricordandoci che Somos lo que hay (2010) è un debutto propendo per un nì, se così non fosse scuoterei un pochino la testa.

mercoledì 21 dicembre 2011

N.P. il segreto

Un macchinario tramuta la spazzatura in cibo.
L’altra spazzatura, quella che comanda, se ne appropria in maniera autoritaria.

Sul sito del Cinema Azzurro Scipioni N.P. il segreto (1971, ma sulla data di produzione ci sono pareri discordanti) viene definito come il film meno personale di Agosti (link). Nulla di più facile, pur non avendo una panoramica completa della sua carriera si evince agilmente che i territori fantascientifici non sono nelle corde del regista lombardo, è pur vero però che la declinazione data del genere non si prefigge l’obiettivo di raccontare mondi futuri lontanissimi, bensì di lavorare sul presente in chiave metaforica, usando la fantascienza come contenitore atto ad esacerbare le magagne sociali al tempo degli anni di piombo.

Abbandonando, per una volta, la critica al sistema ecclesiastico che ritornerà in maniera più o meno incisiva in molti dei suoi film, Agosti opta per una storia distopica che comunque mantiene un discreto livello di causticità. L’idea che dà il là a tutto è intrigante, cosiccome le vicissitudini del Presidente che in poco tempo diventa uno smemorato senza arte né parte. Purtroppo a causa sia di motivazioni diegetiche, l’occhio attuale difficilmente accetta un film così “impreciso”, che di motivazioni extra-film, l’unica copia rinvenibile in rete è in pessime condizioni, una certa confusione depotenzia l’opera, e per confuso si intende un dosaggio non oculato delle varie componenti filmiche che nella globalità si offrono ancora più agèe di quanto ci si potesse aspettare.

Nonostante l’antiquariato estetico, alla fine della favola il precipitato concettuale arriva bello integro sul nostro piatto, tanto che gli ultimi venti minuti rivelatori dell’inghippo perpetrato da chi detiene il potere sono l’ennesimo attentato agostiano ai pilastri della società. La messa in scena della povertà spirituale (la catena di montaggio con le ostie, le confessioni via telefono) obbliga il cittadino a credere soltanto in chi lo governa (le persone in fila felici di prendere il sussidio), ma di contro coloro che comandano strumentalizzano il popolo per i loro affari. E questa è una conclusione traslabile anche oggidì, purtroppo.

Al di là dei limiti insiti, i primi film di Agosti sono degli esemplari cinematografici che nella povertà di mezzi manifestano una ricchezza contenutistica capace di abbracciare non solo l’epoca in cui sono ambientati, ma anche la nostra.

martedì 20 dicembre 2011

Dalla melancolia alla ninfomania

Pare che sì, l’accoppiata Gainsbourg-von Trier sembra destinata a ripetersi. Il regista danese sta infatti scrivendo un film che dice già molto col titolo: The Nymphomaniac.
E pare che, inoltre, ne stia pianificando una duplice versione: la prima più soft per il circuito “mainstream”, e la seconda decisamente osé perché come dice lui stesso non si può parlare dell’evoluzione sessuale di una donna senza mostrare una penetrazione.
Previste forti turbolenze nel mare trieriano.

domenica 18 dicembre 2011

Blue Valentine

Un lutto, e poco importa se si tratta di un lutto… canino, destabilizza le fondamenta di una relazione. Appurata la necessità di rimanere soli previa estromissione della piccola Frankie che per forza di cose non può appartenere ad entrambi, Dean e Cindy si trovano a tu per tu in un regolamento di conti che inevitabilmente ripesca dal passato, il loro passato.

Derek Cianfrance opera nel campo della variazione sul tema con due strumenti piuttosto rodati (lei è la brava Michelle Williams e lui è l’astro nascente Ryan Gosling) che diventano fulcro narrativo.
Come sottolineato dal leit-motiv dell’opera questo è un film che parla di singoli – you & me – e quasi mai di noi semplicemente perché è difficile, e questo emerge con convincente sincerità durante la proiezione. Dunque, è una pellicola su due persone, entrambe con i propri difetti, vedasi gli atteggiamenti infantili di lui o la sbadataggine di lei nel dimenticare il cancello aperto, che giungono ad uno dei tanti bivi della vita. Intelligente ironia li pone nella camera di un motel senza finestre chiamata future room, da qui in poi il tocco del regista si fa concreto attuando quella variazione di cui sopra grazie alla particolare messa in serie che sostanzia Blue Valentine (2010).

Parallelo, chissà se voluto o meno, sembrano essere i continui salti all’indietro con la vita coniugale.
Instabile è la narrazione, instabile è il loro rapporto, e questo piace. Superata qualche possibile secca del racconto in prossimità delle scaramucce con il fantasma di turno (Bobby Ontario), i due pian piano vengono letteralmente illustrati ai nostri occhi attraverso momenti riusciti appieno. Ecco che nel colloquio pre-aborto Cindy ammette di essere stata a letto con circa 20-25 persone da quando ha 13 anni, ed ecco che Dean trovatosi in una di quelle cene-imbarazzo-totale rivela di non aver mai conosciuto la propria madre. Il sottile malessere è trasversale, intergenerazionale (il nonno paterno sembra un sergente represso), tanto che la frase più significativamente pregna per il sottoscritto è quella in cui ci si chiede come potrà crescere Frankie vedendo due genitori che non si rispettano a vicenda.

Non cadete nel tranello della storia d’amore tutta rosa e fiori, è semplicemente una storia con le sue spine, rinomate, vissute e già raccontate altrove. Ha il pregio di non ripetere troppo il già detto cercando anche di deviare dal solito tran tran.

venerdì 16 dicembre 2011

Leap Year

Fa un po’ specie pensare che anche in Messico le persone siano maledettamente sole.
Uno si immagina le chilometriche spiagge di Acapulco o i colorati sombreri che nascondono sonnacchiosi uomini baffuti, dimenticando – forse – le bidonville e la sovrappopolazione, ma vabbè, l’idea che abbiamo di questo paese è filtrata dai depliant turistici che arrivano nella vecchia Europa e perciò il Messico deve essere un paese tutto mare e sorrisi. Le cose però non sembrano stare così, almeno per Michael Rowe, un australiano che chissaccome e chissapperché ha avuto l’idea di smentire le nostre supposizioni mostrandoci la provincia del Mondo, una specie di malinconica globalizzazione relazionata da illustri(ssimi) colleghi: Tsai Ming-liang, Bruno Dumont, Sharunas Bartas, Lisandro Alonso. Cambiano gli scenari, la lingua e/o il clima, ma gli occhi da cui sgorgano le lacrime che se ne fregano della mdp, sono sempre quelli. Maledettamente uguali.

E allora ci ritroviamo davanti una Laura di cui non sappiamo niente ma che basta un’inquadratura per capire tutto: lei che si masturba guardando una coppietta felice oltre le tapparelle, dove la casa di fronte segna un parallelo drammatico fra la felicità, e quindi la vita, e la disperazione, vedasi la morte che aleggia prepotente nel loculo-appartamento: la foto del padre defunto, il 29 febbraio come data della Fine, ultimo, tragico sacrificio anticipato da una lettura beffarda, L’arte di amare.
Non apparirà dunque strano se la vita sentimentale di questa Laura sia una merda. Incontri occasionali post-discoteca, malinconici amplessi in cui prima si scopa e solo dopo ci si chiede i reciproci nomi.
Attraverso l’immobilismo registico, aderente in maniera pedissequa all’esistenza di Laura, si comprende che quando entra in scena Arturo la protagonista giunge ad un giro di boa importante che la convince a fare una scelta drastica, quella di morire.
Mentre il tubo catodico emette radiazioni solitarie con pubblicità di efficienti vibratori, Laura sprofonda in un apparente baratro di perversione che invece nasconde da parte dell’uomo uno spiffero di tenerezza (“con chi è stata la tua prima volta?”) non recepita dalla donna, e non per altezzosità, ma probabilmente perché non più in grado di comprenderla.

Con Año bisiesto (2010) Rowe offre un ennesimo e doloroso frame del mondo contemporaneo. Camminando sul filo della gratuità, questo regista sonda in maniera convincente un malessere intimo e interno che trova nella sgraziata attrice Monica del Carmen una credibile interprete.
Nulla si inventa in questo piccolo film che parla di grandi cose, ma la variazione sul tema piace assai, non foss’altro perché finalmente viene fornita una valida risposta a tutta la sofferenza rappresentata: basta abbracciare il proprio fratello per poter voltare pagina.

mercoledì 14 dicembre 2011

Red White & Blue

Tracce d’altra America.
Erica è una giovane che passa di letto in letto collezionando le foto delle sue conquiste (?).
Nate (grandioso l’attore Noah Taylor) è un barbuto reduce della guerra in Iraq. Da piccolo uccideva gli animaletti.
Franki ha una rock-band pronta a sfondare. Oltre ad una madre gravemente malata.

Tre persone come sono tre i colori della Stars and Stripes. Per l’inglese Simon Rumley l’USA b-side è un frullato di nichilismo in cui il rosso – del sangue – sembra essere la tonalità dominante.
Perciò, seguendo la convulsa esistenza di tre personaggi, anche la pellicola assume una struttura tripartita in cui comunque le varie parti si intersecano le une nelle altre attraverso oculate ellissi temporali.
Certo, se uno sentisse il dispiegamento della trama senza aver visto l’opera potrebbe asserire di trovarsi di fronte ad uno dei tanti revenge movie che popolano il sottobosco simil-horror. E a conti fatti questa una storia di vendetta lo è per davvero, più che altro di vendette, di azioni che scatenano reazioni brutali. Niente di sconvolgente, sia ben chiaro, ma ancora una volta si palesa quello che è uno dei motti di questo blog: nell’economia di un film è più importante il COME piuttosto che il COSA.

Il prologo è già una sequenza che solleva la pellicola da tutto quell’indiume che spesso eccede troppo nel mostrare splatterismi vari tralasciando così tutto il resto. Rumley, invece, oltre a mettere palesemente mano all’estetica (colonna sonora, montaggio rabbioso e un po’ di sana cattiveria) cerca perlomeno di dare una psicologia decente e coerente ai suoi attori che nonostante siano avvolti da un’aurea di maledettismo risultano piuttosto credibili nelle loro azioni. O meglio, la furia vendicativa di Nate sembrerebbe immotivata in tutta la sua durata, vada per i suoi trascorsi militari nonché adolescenziali, ma prendersi a cuore una puttanella del genere suona come basso escamotage per infilare nell’ultima mezz’ora qualche tortura all’arma bianca.
Questo è ciò che ho malamente pensato fino all’inquadratura conclusiva che invece legittima tutto il furore di Nate. Gioco scorretto da parte di Rumley? Potrebbe starci, il fuori campo autorizza qualunque bivio sceneggiaturiale, anche il più impensabile. Ma vabbè, lui mi (e spero ci riesca anche con voi) ha teso una trappola e ci sono cascato con tutti e due i piedi. E ciò è cosa buona e giusta.

Thumbs up per il regista comunque, al di là del fatto che Red White & Blue (2010) sia un dignitosissimo esempio di horrordrama contemporaneo, al suo interno potete ritrovare un risvolto narrativo che personalmente considero geniale: la roba dell’HIV legata al tumore della madre [1] è una vera perla all’arsenico che forse meritava ancora più spazio nella pellicola.
Come già detto, con The Woman (2011) il mio film sull’America di quest’anno.
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[1] Coda autobiografica. Rumley ha perso sua madre a causa del cancro. Il che, tra l’altro, lo ha ispirato per il suo film precedente The Living and the Dead (2006).

lunedì 12 dicembre 2011

Exte: Hair Extensions

Blitz cinematografico di Sono all’interno dell’horror giapponese.
Premessa interessante, curiosità per la riuscita complessiva: chi si piegherà a chi? Nel senso, sarà Sono ad accettare i topoi del genere, oppure sarà il j-horror ad essere contaminato dall’estro del regista?
Pensiamoci un po’ su.
La componente horrorifica ha spessissimo fatto capolino nelle opere del caro Sion, e non parliamo di storielle ectoplasmiche, ma di sangue: a fiumi, a secchiate (Suicide Club, 2001) e di carne: trafitta, maciullata (Cold Fish, 2010). È da tempo che ormai da questi parti si incensa il lavoro di Sono, e si è perciò notato di come le sue incursioni nello splatter non sono altro che un accessorio ai temi maggiormente esposti. Un prezioso accessorio, direi.
Dunque, si può dire tutto e il contrario di tutto ma non che Sono sia un autore esclusivamente a tinte nere. D’altronde uno dei suoi meriti più evidenti è quello di far coabitare all’interno di una singola pellicola generi prossimi all’antitesi, e Love Exposure (2008) incarna perfettamente il concetto.

Con Ekusute (2007) accade che l’etichetta avanza sull’etica sononiana.
L’horror non è più un flash, non è più informazione collaterale, ma diventa il contenitore al cui interno si plasma la storia. Ed è un horror che strizza l’occhio a tutti quei film che parlano di yūrei, ossia di fantasmi vendicativi, di diaboliche presenze alle spalle e così via.
In questo caso è perciò la poetica di Sono che diventa flash, materiale subordinato agli eventi.
Non sarà sfuggito che comunque, nonostante l’opera defluisca all’interno di un modello preciso, si può rintracciare uno dei capisaldi del suo cinema: la distruzione dei ruoli famigliari.
Lo si intende dalla madre della bimba che non si comporta come una mamma dovrebbe fare, e dalla bimba stessa che chiama sua zia “sorella”.
Inoltre il villain è un feticista dei capelli, un pervertito come si sentirà urlare contro, e la devianza (tutti quegli incesti!) rintocca più volte nella filmografia dell’autore.
Insomma, al di là dell’impronta, Sono sgomita parecchio per far capire che lui c’è sempre, ed è sempre un gran figlio di buona donna.

Ma queste sono sfumature, soprattutto a chi non interessa nulla del Sono come regista ed è attirato da una trama talmente bizzarra.
Se prima si è specificata l’attinenza al j-horror è anche vero che Exte sembra più che altro una rielaborazione divertita di tale categoria. Pensando al fatto che a dover inquietare (riuscendoci abbastanza) sono dei capelli, e che il cattivo di turno è un imbecille senza arte né parte, si comprende di come il frullato ringu-style sia costituito da ingredienti dosati con sapiente estromissione personale del regista, come a dire: non mi interessa poi granché di fare un film così, ad ogni modo lo faccio, ovviamente a modo io. E le modalità sono meritevoli dato che la visionarietà di Sono è inattaccabile, così il risultato complessivo viaggia più che altro sul piano dell’intrattenimento, obiettivo prefissato e ampiamente raggiunto.

Per non spaccare il capello in quattro si può dire che Ekusute sia un tassello minore nella carriera di Sono, divertente ma non disarmante come saprà essere altrove.

sabato 10 dicembre 2011

The Masseur

Il digitale come tempera alienante della realtà, povera, non solo perché ritrae una porzione delle Filippine che fa della mancanza la propria amara essenza, ma soprattutto perché la vera povertà non risiede nella presenza o meno di denaro in tasca, anche il cliente-scrittore, e perciò persona agiata, sarà parsimonioso nel pagare Iliac, piuttosto nel tesoro invisibile che dovrebbe risiedere all’incirca sotto la gabbia toracica all’altezza dello sterno. Senza cuore perché in un bordello travestito da massaggeria per omosessuali i sentimenti non sono ammessi, chi va lì paga per usufruire dei servizi proposti dai vari ragazzi, si può fare e dare tutto, tranne i baci, quelli sono riservati alle proprie fidanzate (volgari donnacce con la lattina di birra fedele compagna), a meno che non si scenda a compromessi, e un bacio è il prezzo da pagare per non essere segnalati all’avido entreneuse, senza che, e qui sta il risvolto più tetro, vi sia il benché minimo appesantimento di coscienza.

Il digitale come ponte visivo fra due momenti di una vita, quella di Iliac, resi in maniera atemporale, sconnessa, della stessa sostanza di cui sono fatti gli incubi, in cui si mischiano le epifanie primordiali dell’esistenza, e qui pesa con forza sotterranea ma persistente la mancanza della figura paterna: nonostante sia stato avvertito da quell’sms il giovane protagonista continuerà il suo lavoro nella casa d’appuntamenti noncurante delle gravi condizioni in cui versa il proprio padre. Di nuovo un’aridità interna, la più potente, che trova un’esplosione contenuta all’interno del montaggio intermittente, come se andasse avanti per piccole scosse: il tavolo dell’obitorio – il lettino del massaggio; il piede del morto – quello del cliente; e la coincidenza conclusiva che in prima battuta raggela – l’identificazione del genitore defunto in un tipo qualunque, uno a cui interessa solo soddisfare i propri bisogni sessuali in una vita piena d’ombre (lo pseudonimo femminile con cui scrive romanzi rosa) –, ma che subito dopo intenerisce rivelando la natura di un ragazzo ancora capace di piangere e forse di sognare (lo sguardo invidioso verso la coppia felice), ma che nell’imbuto fetido in cui sta scivolando non trova appigli, solo pareti ricoperte di scivolosa merda che lo spingono sempre più in basso.

Il digitale come lama penetrante che Brillante Mendoza plasma inquadratura dopo inquadratura, con una ragguardevole pazienza nel creare micro-paesaggi dall’intimo design; che sia un’accecante cerimonia funebre o le stanzette del centro, il risultato non muta: esposizione calibrata, avvolta in una costante tenebrosità, che in estrema economia scolpisce nella pece un vero dramma sociale ancor prima che famigliare.

Il viaggio di Oltre il fondo nel cinema nero di Brillante Mendoza inizia da qui, e non poteva cominciare meglio.

giovedì 8 dicembre 2011

Aftershock

Super mega produzione cinese che pare non abbia eguali nella storia di questo paese, si parla di un budget stimato in 25 milioni di sonanti dollaroni per un corrispettivo incasso che supera i 60 milioni di euro. La storia del regista Feng Xiaogang riprende la Storia tout court partendo precisamente dal 1976, anno di estrema disgrazia in cui un devastante terremoto sterrò la città di Tangshan riducendola a un deserto di macerie.
Come credo che solitamente accada quando capitano tragedie di tale entità, oltre alle catastrofi materiali sotto la luce del sole impolverato, si affiancano quelle personali, decisamente meno alla mercé di tutti e che hanno la diabolica forza di sedimentarsi indelebilmente nell’animo umano.
Per un film riuscire a convincerci sulla prima tipologia di disastri non è troppo complicato, ma dare solidità a un discorso intimo come la perdita dei famigliari durante una calamità naturale è ben altro discorso, o ti chiami Fabrice Du Welz e fai una pellicola esteticamente e significativamente originale come Vinyan (2008), oppure ti adegui sui blandi canoni del cinema mainstream, ed è quello che Xiaogang fa, tra l’altro nemmeno troppo bene.

Afterschock (2010) è un film per il grande pubblico che non ha praticamente nulla a che fare con questo blog. È un’opera che si scontra con ogni concezione che ho di buon cinema, dall’idea di voler esibire con effetti speciali il sisma, alla costruzione oltremodo legnosa di un dramma genitoriale che si vorrebbe ripresentare anche nella progenie successiva, passando per l’uso soapoperistico degli archi nelle musiche.
Non funziona questo film perché è già prevedibilmente scritto, non sorprende, non emoziona (peccato mortale), non coinvolge, non lede. La pomposa attenzione verso il contorno ha lasciato parecchio indietro la qualità del concentrato che incespica nei suoi bolsi drammetti parentali allungati al di là della nostra pazienza.
Fa rabbia un’opera del genere perché trattando un argomento così delicato in cui persero la vita migliaia e migliaia di persone finisce per piegarsi alla legge del botteghino, cosicché il vero schock diviene la superficialità che lo permea.

mercoledì 7 dicembre 2011

Avere dei figli tossici

È normale se sei il Vendicatore Tossico!
A distanza di 10 anni e passa pare che il mitico The Toxic Avenger IV avrà finalmente un seguito nel quale l’esponente di spicco della Troma dovrà vedersela con i suoi stessi pargoletti.
Onestamente non ho capito quando uscirà, ma d’altronde Kaufman e compagnia cantante sono fuori da così tanto tempo che anche se ancora in produzione il film è giù uscito.
Di testa.

martedì 6 dicembre 2011

Contracorriente - Controcorrente

In Perù c’è un villaggio baciato dall’oceano. Puoi trovarci Miguel, pescatore e uomo di fede, che aspetta un bimbo da sua moglie Mariela. E puoi trovarci anche un pittore di nome Santiago che ha una relazione clandestina con il futuro padre in questione.

Fattori determinanti per la mia visione di Contracorriente (2009): passaggio al Sundance; 7.8 di media per 600 e passa votanti su IMDb; nazionalità sudamericana e nello specifico peruviana; opera prima del regista Javier Fuentes-León; curiosità verso il tema omosessualità nel mondo-cinema.
Controcorrente si presenta con questo biglietto da visita, e subito, fin dal primo fotogramma, incastra il racconto fra due estremi che dopo aver fatto un lunghissimo giro in tondo si ritrovano a due passi, praticamente attaccati: primo piano di un pancione gravido con la pelle materna tesa fino a diventare lucida, cambio scena ed ecco un corteo funebre che seguendo la tradizione locale getta la salma in un mare che Saviano definirebbe vero mare.
Le coordinate sono dunque queste, un principio e una fine che fanno da contenitore in cui freme la storia, nel mezzo erutta qualcosa di veramente grande come l’amore, e che sia fra due uomini poco ci importa. Ovviata una leggera ruggine iniziale nella "coppia" (non sono riuscito a crederli innamorati sul serio, pardon), la pellicola si eleva quando vira in direzione di uno degli estremi sopraccitati.

C’è un lirismo di fondo da far inumidire il ciglio, a pensarci il fatto che un fantasma possa essere visto soltanto dalla persona che ha amato in vita è una trovata stuzzicante, soprattutto se la persona in questione è un insospettabile marito che ha sempre fatto di tutto per nascondere la sua liaison. E si toccano apici di sincera tenerezza quando i due possono finalmente camminare in paese mano nella mano.
È un cinema che grazie anche all’ambientazione solare si percepisce schietto, veritiero, e non esita, comunque, a denunciare le difficoltà che una piccola comunità uscita come dalla penna dell’Allende ha nel prendere atto che un individuo così vicino a Dio e alla famiglia possa essere considerato prima un maricón e poi soltanto in seconda battuta un uomo.
Se trovare in un film così un piccolo vademecum dei pregiudizi sessuali non sorprendente poi tanto, cioè che centra il bersaglio è invece l’idea commovente che viene suggerita: dopo la vita non c’è la morte, c’è l’Amore.

domenica 4 dicembre 2011

Culti ameni

Disco senza peso, leggerissimo, e quasi fuori stagione: c'è parecchia salsedine fra le note di Cults.
Se la voce simil infantile non irrita, le melodie risuonano con facilità nel padiglione auricolare.
Altamente accessibile: pregio o difetto? A voi la scelta.

sabato 3 dicembre 2011

Pola X

La prima parte di quello che ad oggi è l’ultimo film di Leos Carax se si esclude l'ottimo segmento Merde in Tokyo! (2008), è una piacevole sorpresa. Non tanto se presa asetticamente ma piuttosto se rapportata alla parte successiva che siglandosi in un’essenza antitetica dona unitarietà formale.
Fil rouge delle due sezioni filmiche è la presenza di una figura femminile nella vita del ricco scrittore Pierre (Depardieu Jr.). Qui, all’interno della lussuosa villa in Normandia, calca la scena una madre Catherine Denevue sulla quale aleggiano impressioni di ambiguità. L’attrice, con una recitazione ridotta al minimo sindacale, sono convinto che avrebbe un’aria aristocratica anche in una favela, e Carax conscio di ciò esacerba al massimo lo sfarzo ambientale attraverso uno sforzo registico che trasmette precisamente una sensazione di fastosità con musiche enfatiche e movimenti ariosi come quelli della sequenza iniziale. Se il film fosse proseguito su questo registro avrebbe raggiunto soglie di pedanteria quasi urticanti. Invece, grazie ad un ovattato coup de théâtre si introduce la seconda figura muliebre, una sorella illegittima che fino a quel momento aveva vissuto nell’ombra e che dell’ombra sembra far parte.

La seconda parte si apre dunque così: con un monologo errante al chiaro di luna di rara bellezza cinematografica. Vieppiù che la dirimpettaia della Denevue è Yekaterina Golubeva, una donna che sono arciconvinto sarebbe riuscita ad immalinconire chiunque con il suo sguardo assiderale.
A questo punto Carax ripete l’operazione precedente: se prima Pierre tracciava le lussureggianti campagne francesi a bordo di una moto, adesso si trova a girovagare fra i bassifondi parigini con tre immigrate a seguito.
Di conseguenza anche il tono visivo imbrunisce, la solarità viene scansata dal grigiore urbano e la persona Pierre subisce un tracollo irreversibile che lo trasforma da giovane rampollo a uomo claudicante e sofferente.

Pola X (1999) si compone perciò in questi due capitoli lontani l’un l’altro ma reciprocamente indispensabili per la fisicità dell’opera. Eppure il film non si esaurisce qui, anzi il regista nato a Suresnes dà come l’impressione di voler strafare diluendo la vicenda più del dovuto.
Se il parallelo fra la madre e la sorella è chiaro (lo vediamo anche nella relazione incestuosa), ci sono un paio di personaggi fuori fuoco come le compagne della Golubeva, gli uomini dentro la fabbrica abbandonata e il diabolico cugino interpretato da Laurent Lucas. Troppo materiale e relativa pochezza di amalgama cosicché alla fine l’opera scivola come il suo protagonista in un baratro irrazionale in cui sembra che sia stato smarrito il filo conduttore.

Difficile dare giudizi esaurienti su Carax non avendo visto quasi nient’altro di suo.
Il vecchio adagio “è bravo ma non si applica” potrebbe essere trasformato in un parrebbe bravo, è che si applica anche troppo!
Ad ogni modo credo che gli darò ancora qualche possibilità, d’altronde non si vede tutti i giorni una sequenza onirica in cui due fratelli dediti all’incesto annaspano in un gigantesco fiume di sangue, presumibilmente il loro.

Due curiosità.

Il titolo è l’acronimo del romanzo Pierre ou les ambiguites (1852) di Herman Melville.

Quando Pierre entra nella fabbrica in disuso vediamo un tizio biondo dirigere una specie di orchestra. Quel tizio è Šarūnas Bartas che ricordo essere stato il compagno della Golubeva morta il 14 agosto 2011. Tra Carax e il lituano pare esserci un certo feeling poiché anche il regista francese ha avuto a sua volta un cameo in un film dell’amico: parlo di The House del 1997.

giovedì 1 dicembre 2011

Immortals

Ecco come potrebbero essere andate le cose: la Atmosphere Entertainment MM e la Hollywood Gang Productions dopo il “successo” di 300 (2006) avevano ancora un po’ di – o forse proprio per questo ancora più – denaro da sperperare, così cavalcando l’onda di questo genere che si avvicina al Mito con il suo approccio ultramoderno (da leggere: caciarone e parecchio tamarro), si è affidata alla sceneggiatura scritta a 4 mani da due fratelli poco conosciuti (Vlas e Charley Parlapanides), ed ha poi consegnato il tutto ad un regista emergente come Tarsem Singh, il quale, avranno pensato, si dovrebbe sposare ottimamente con il progetto.

In effetti la carriera di Tarsem sebbene numericamente esigua – ma aggiungeteci parecchi spot e videoclip – ha rivelato un’attenzione alla forma a tratti davvero intrigante. Se The Cell (2000) si presentava alle resa dei conti opera spuntata e meritevole d’attenzione solo per gli interstizi onirici, ecco che con The Fall (2006) il regista indiano riusciva a trovare un prezioso equilibrio dove la narrazione teneva il passo della sfavillante cornice estetica.
Di anni ne sono passati 5 ed il Tarsem che ritroviamo oggi oltre a firmarsi con un cognome in più (Dhandwar), sembra essersi prostrato alle leggi del mercato. Quindi, nonostante Immortals (2011) mantenga una cifra visiva abbastanza personale, per molti versi, praticamente tutti i restanti, si palesa come ordinario cinema da pop-corn.

Per questo da un lato abbiamo ambientazioni ragguardevoli massicciamente pennellate con la computer grafica e dettagli che tutto sommato incuriosiscono (gli abiti dei cattivi), ma dall’altro bisogna fare i conti con un eroismo che da tradizione iuessei diventa super, e così lo spettatore deve subire la disintegrazione del contesto storico per favorire la superflua morale di fondo.
Nel senso che questo film potrebbe tranquillamente avere qualunque altro set posto in una qualunque altra epoca, con però un vincolo fondamentale: che ci siano i buoni, e per indispensabile completezza narrativa che ci siano anche i cattivi.
Perciò come era lecito attendersi la mitologia greca è solo un pretesto per inscenare una delle tante favolette hollywoodiane che spurgano bassa retorica in più e più frangenti, dai discorsi di Rourke innocui quanto quelli della Banda Bassotti, alla penosa arringa Gibson-style di Teseo che si accaparra i favori del battaglione.

Inevitabilmente debitore del già citato film di Snyder, si veda l’impronta “fumettosa”, il laccato patriottismo, la morfologia fisica dei guerrieri (tutti dei palestrati), la spettacolarizzazione dei combattimenti qui implementata finanche cablata da e per il 3D, Immortals è desolatamente cinema da intrattenimento, e dispiace perché Tarsem non meriterebbe di finire nel calderone dei pasticci a stelle e strisce, ma tant’è pare che ormai stia perseverando, è infatti in arrivo per il 2012 una trasposizione di Biancaneve intitolata Mirror Mirror. Wow, a dir poco deprimente.

Comunque ancora complimenti ai nostri lungimiranti distributori, sui tre film di Singh hanno giustamente importato i due peggiori. Complimenti vivissimi.

martedì 29 novembre 2011

D'amore si vive

È interessante notare come nei titoli di testa al posto del canonico un film di, si legga invece una ricerca di Silvano Agosti, il che è significativo perché l’aspetto terminologico cela il vero substrato ideologico della pellicola dove il regista bresciano si fa ricercatore di un’indagine portata avanti con il metodo qualitativo per eccellenza, l’intervista, e dove il cinema si assoggetta alla realtà dei fatti: macchina fissa, primi piani, qualche zoom in avanti e qualcuno all’indietro.
La tecnica non va oltre queste poche cose, eppure al cospetto di tali esigui accorgimenti, l’intento del film, ovvero quello di compiere una disamina su concetti come l’amore, la sessualità e la tenerezza, viene colpito, o meglio, chi viene colpito è lo spettatore perché gli esseri umani (tutti di Parma e dintorni) che si susseguono hanno per forza di cose una visione del mondo e della vita che definirei bislacca, ma ciononostante le loro parole possiedono sostanza e donano gentilmente il seme del pensare.

Di storie ce ne sono molte, ma dietro quelle di facciata ne palpitano altre che permettono di passare ai raggi x la società di quasi trent’anni fa. Ed ecco che la prima testimonianza, quella della maestra terrorizzata dall’atto sessuale, mette in luce uno dei cardini della filmografia agostiana – fin dall’inizio: Il giardino delle delizie (1967) – che qui trova riscontri empirici, infatti la condizione di paura della donna nei confronti della sessualità pare derivare, a detta sua, da un’educazione religiosa castrante e reprimente.
La carrellata di persone immortalate si immerge sempre di più nei bassifondi sociali e vira sarcasticamente o forse no in quei territori dove l’amore è difficile da rintracciare, se non impossibile: la prostituzione, e Agosti con il suo interloquire decisamente alla mano cerca di far aprire i suoi soggetti di fronte alla mdp. La genuinità di queste memorie è così palpabile che in alcuni frangenti si avverte l’imbarazzo o anche il sottile fastidio nel raccontare le proprie vite fatte di miserie nelle quali, però, Agosti trova quel che cerca, cristalli, frammenti, pezzetti di esistenza precaria che nelle difficoltà hanno scovato la loro idea personale di amore. Ognuno di questi personaggi, infatti, desume dalle esperienze passate un amaro precipitato di saggezza che va dalla sapienza dell’ex donna di strada al disincanto di Gloria, per finire nel miglior segmento dell’opera che è quello di Lola, la quale fornisce una giusta chiosa: se allevi dei piccioni devi amare anche la loro merda.

Ma D’amore si vive (1984) è un documentario “famoso” grazie alla presenza del piccolo Francesco, vera star della pellicola il cui stralcio di conversazione gira e rigira nel web da molto tempo.
Probabilmente è opinione comune ritenere le congetture del bimbo di 9 anni l’apice del film, vuoi perché esprimono candore, vuoi perché alcune affermazioni hanno significato condivisibile e importante, eppure ritengo che un bambino con quell’età di certe cose non dovrebbe parlare, giusto o sbagliato non è questo il punto: per pensare al bene c’è tutto il tempo, a 9 anni è meglio dedicarsi agli aspetti ludici della vita (comunque sottolineati da Frank) che sono, appunto, la fonte di un corretto e proficuo rapportarsi con se stessi e gli altri.
C’è da dire che erano altri tempi (per il cinema e tutto il resto), ma c’è anche da dire che questo inserto appare più una strizzatina d’occhio allo spettatore che una maglia del tessuto filmico.

In breve: un documento d’Italia prezioso e curioso, Agosti è investigatore scaltro e provocatorio: l’ultima polisemica sequenza lascia pesanti detriti nello spettatore.

domenica 27 novembre 2011

Schwarzy rehab

In realtà il fatto che Schwarzenegger ritorni a calcare le scene dopo I mercenari è solo un'informazione collaterale, d'altronde io stesso risponderei: e chissene fotte!
Notizia ben più significativa è che lo fa alle dipendenze del talentuoso Kim Jee-woon, qui alla sua prima prova in territorio americano. Nel cast anche Forest Whitaker e Johnny Knoxville.
The Last Stand dovrebbe uscire nel 2013, ma se si pensa che Il buono il matto il cattivo è stato distribuito da noi con "solo" tre anni di ritardo, questo minimo minimo lo vedremo intorno al 2015.

venerdì 25 novembre 2011

Love Exposure

Film torrenziale, capodopera che va ben oltre la sintesi stilemica, Love Exposure (2008) non è soltanto la grondaia che raccoglie tutta la poetica di Sion Sono, ma fiume in piena che spezza gli argini per esondare, testualmente: affogare, la storia della civiltà contemporanea ricolma di opulenza e falsi dei che mascherano a fatica un vuoto interno universale, una tale assenza di bontà che lascia ancora una volta esterrefatti, a bocca spalancata, una devastante radiografia dell’uomo che si protrae per quattro cortissime ore in cui vengono annientati tutti quei capisaldi che fanno dell’aggregazione di persone una società, dell’aggregazione di sentimenti una famiglia, dell’aggregazione di umanità un uomo.
Love Exposure è prima di tutto disamina feroce verso l’erroneità insita nell’attuale vivere comune.
I personaggi sono costituiti da tutte quelle qualità negative esprimibili con il prefisso inversivo a: sono, ovviamente, amorali, ma anche apolidi per la loro caricaturizzazione che li allontana da un qualunque tentativo di collocazione, e sembrano astorici, con un passato che razionalmente, per quel che ci è dato sapere, appare impossibile possa essersi sviluppato così.
Nonostante questa loro essenza straniante improntata sull’ostinazione dell’eccesso, accade un miracolo che riguarda Sono come molti altri registi orientali, accade che pur avvertendoli così assurdi, folli, insani e dissennati, a conti fatti risultano incredibilmente reali.
Questo perché la loro appartenenza al mondo è esibita esacerbando processi più sotterranei e meno smaccati ma che comunque ci sono anche nella vita vera. E allora ecco che la misandria si trasforma in puro splatter, il fanatismo religioso in un tunnel che conduce all’infermità mentale, una piccola perversione si tramuta alternativamente in realizzazione personale e/o pietra tombale, l’amore è vissuto in maniera cristologica, strabordante di sofferenza e continue ingiustizie.
La società di Sono è una kermesse di tristi saltimbanchi, tristi come i nostri vicini di casa.
Love Exposure è inoltre l’annientamento del primo ambiente educativo per eccellenza.
In totale aderenza con il passato ed il suo futuro registico (molto ritornerà in Cold Fish, 2010), Sono demolisce con impetuosa spietatezza La Famiglia. L’atto di demolizione prolifera su più piani e su più livelli con i problemi che nascono già negli archetipi: Maria (La Madre) è una ragazzetta in balia di un odio viscerale verso la categoria maschile, Giuseppe (Il Padre) è un ragazzetto in balia dei suoi tumulti deviati, e Gesù sulla croce (pericolante) è muto osservatore di tutto questo.
Ma nello specifico, se si analizzano le famiglie dei tre protagonisti, si scovano grovigli da cui non c’è alcuna uscita di sicurezza; il padre di Yu è un vedovo, poi diventa prete (e quindi genitore, pastore, di una comunità), poi si risposa (e perciò nuovo marito e nuovo padre), poi disconosce il figlio e infine aderisce ad un nuovo credo religioso; la madre di Yoko è una donna libertina che si fa chiamare da sua figlia con il proprio nome (“più che una mamma, un’amica”), e sposandosi con l’ex-prete genera un nuovo equilibrio famigliare in cui aleggia prepotente l’aria dell’incesto (il filo rosa della pellicola viaggia sull’amore non corrisposto del fratellastro); Koike è una moglie che ha evirato il proprio marito e insinuandosi all’interno della nuova famiglia diventa sorella odiata/amata.
Padre madre, fratello sorella, i ruoli all’interno dell’ambiente casalingo vengono rivoltati nelle viscere, non c’è nessuna base su cui intessere una relazione se non quella costituita dall’inganno (tutta la manfrina di Koike), dal rifiuto (Yoko che allontana Yu solo perché è maschio), dal sesso (il prete ammetterà che stava con la donna solo per questo).
Ma Love Exposure è, quasi a sorpresa, anche un tragitto di formazione personale che incontra continui arretramenti, ostacoli dalla portata inevitabilmente deformante.
Figura centrale di tale processo è Yu che nel lungo incipit si manifesta come entità separata nella diegesi, ma comunque presente con la sua narrazione. Piano piano l’entrata in scena rivela l’acerbità adolescenziale e il desiderio – l’unico Sogno di tutta la pellicola e forse di un’intera filmografia – di trovare la sua Lei cosiccome la madre defunta gli aveva auspicato. Ma la crescita di Yu si subordina a fatti devianti: l’iniziale assenza del padre lo porta a commettere peccatucci di lieve entità che vista la conciliazione del prete che non vuole nemmeno farsi chiamare papà, si tramutano in “semplice” perversione con la maestria nel fotografare le mutandine sotto le gonne.
Tuttavia Sono è un maestro dell’accumulo e Yu si trova in poco tempo ad essere ripudiato dal padre, abbandonato come un cane, e soprattutto spappolato dentro, nell’identità, poiché in bilico agli occhi dell’amata fra il compagno di scuola/fratellastro imbecille, e l’eroina Miss Scorpion sprezzante del pericolo.
La parola d’ordine è: disidentificare. E Sono spinge prepotentemente in questa direzione.

Pur avendo un palpabile rallentamento nell’ultima ora al quale si aggiunge una risoluzione un po’ nebulosa (la riconversione di Yoko va rivista), Love Exposure è un film che attingendo alle più svariate enciclopedie, dalla commedia al softcore, dal gore al wuxia, dall’introspezione religiosa all’inettitudine terrena, non inciampa mai perché è un rullo compressore che spiana qualunque dislivello, e una volta passato lascia la consapevolezza che non c’è niente, ma davvero niente, in cui credere: né Dio o Gesù, né Padre o Figlio, ma solo aggrapparsi a vicenda come nell’ultimissima immagine sperando in qualcosa che si avvicina all’amore.
Se non immenso, praticamente gigantesco.

martedì 22 novembre 2011

Il cavallo di Torino

PRE-MESSA

Sono la persona meno indicata per parlare de Il cavallo di Torino (2011) perché ritengo Béla Tarr il più grande regista vivente.
Il più grande, sì.
Sono conscio che l’autore magiaro sul piano quantitativo non abbia un curriculum parificabile a quello di altri suoi colleghi – si badi bene però: il primo film Nido familiare risale al 1979 e ciò indica una carriera che ha oltrepassato i trent’anni di attività – ma consiglio spassionatamente a chiunque ami la settima arte di posizionarsi sul piano opposto per esaminare la sua filmografia, quello squisitamente qualitativo, in modo da comprendere, con disarmante stupore, che a Tarr sono bastati due film (ma uno vale quattro vista la durata) per diventare quello che almeno per me è: un gigante, e adesso che le voci su un possibile ritiro dalle scene non sono state né smentite e né confermate, lui ha comunque deciso di chiudere un cerchio. [1]
Capolinea. Basta. Stop. Fine di tutto.
Dopo Satantango (1994) e Le armonie di Werckmeister (2000) arriva il terzo Capolavoro totale capace di suggellare e definitivamente sigillare 17 anni di cinema che ora passeranno alla Storia e che dovranno essere ricordati ad imperitura memoria fino a quando non accadrà ciò che viene vaticinato in questo film.

R.I.P. CINEMONDO

Letargico e liturgico.
Tremando, con il cuore dentro quella schermata nera, sono le prime parole che mi sono sentito di accostare a A Torinói ló.
La prima perché, come era lecito aspettarsi, si tratta di un film eterno, che fa della dilatazione narrativa il proprio carburante, ed è una lentezza che non è mai l’anticamera di un’esplosione, piuttosto costanza visiva, impervia pianura che accumula in maniera indecifrabile, sottopelle, per poi colpire con scariche di cinema sopraffino. Nella prima ora e mezza non succede praticamente niente. E allo stesso tempo il richiamo a volgersi verso questa catapecchia schiaffeggiata dal vento è cogente, magnetico, ipnotico. Era già successo: non accade niente, accade tutto.
La seconda perché quel poco raccontato viene ripetuto durante tutti e cinque i giorni qui rappresentati.
La sveglia, la vestizione del padre, l’acqua del pozzo e il pranzo spartanissimo, assomigliano ad un rituale, un silenzioso protocollo: una cerimonia funebre.

Dall’esegesi alla diegesi: la ripetizione della forma e le reiterazioni musicali fanno del cinema di Béla Tarr un vero e proprio rito.
Parlando de L’uomo di Londra (2007) Sangiorgio dice che la maniera di Tarr prima che stilistica è morale (link). È vero. L’approccio di questo regista non cambia dai tempi di Perdizione (1988), il suo agire, il suo credo, soggiacciono ad autoimposizioni capaci di creare una sintassi che ad oggi non può avere alcuna comparazione.
Rifiutando ora e sempre le canoniche dialettiche del campo-controcampo, ogni film di Tarr, e questo non sfugge a tale regola, si edifica su sequenze in cui la mdp coglie traiettorie celestiali, microviaggi sospesi nell’aria, palpitanti riduzioni di distanza tra chi riprende e chi è ripreso, oppure con la sublimazione della stasi l’occhio di Béla se ne sta candidamente fermo catturando ciò che gli riesce fuori e dentro il campo.
Il modello di Tarr è così: avvolge la realtà, la indottrina secondo le sue regole, e la ripropone in uno schema che contempla al suo interno la quintessenza di cose che non si trovano facilmente altrove: della vita, della noia, della morte, dell’uomo.

Di fronte ad una manifestazione cinematografica di tale entità non si può tacere.
Non si può perché Il cavallo di Torino è un film incommensurabile, il capitolo conclusivo di un decennio iniziato, non a caso, con Werckmeister harmóniák [2] di cui quest’opera sembra la sua prosecuzione perché parte là dove si era concluso: da quella balena in macerie simbolo della follia umana. Ora, è il mondo intero ad essere in macerie.
Quindi nessuna argomentazione sul male, sul potere, nessuna disgregazione del Sogno (Valuska!): tutto è già successo, Nietzsche è impazzito, l’uomo alle soglie del nuovo secolo è solo, circondato da rovine e degrado, come dirà l’unico visitatore della casa.
Non c’è guerra, non c’è oDio, ma solo l’incontrovertibile verità della Fine.
Padre e figlia in una terra lontana da qualunque luogo e i segni di un’apocalisse silenziosa: come il vento biblico che spazza le foglie e spianta, estirpa, spezza ogni possibilità di speranza (una finestra sul niente); come i tarli che hanno smesso di far rumore perché non c’è più niente da rosicchiare; come il cavallo che prima non vuole partire e che dopo non vorrà più mangiare (accadrà la stessa cosa con la figlia); come il pozzo che improvvisamente si svuota; come una lampada che non riesce e non riuscirà mai e poi mai a schiarire tutto quel buio.
Guardare, mangiare, partire, bere. Verbi coniugati all’infinito alla base di ogni esistenza, e qui prosciugati di ogni senso, inariditi dall’avvicinarsi dell’eternità.

La scala emotiva che fa crescere d’intensità l’opera non ha eguali nel cinema moderno, merito della sopraccitata dedizione al ripetere che quando esibisce l’inceppamento del meccanismo rende quest’uomo e questa donna – e sì, pensateli pure scritti in maiuscolo – l’emblema dell’impotenza.
La Fine non è mai stata così enorme nel cinema, così sovrastante (leggi: sovrumana), così immensa, e di conseguenza l’uomo non è mai parso così disarmato, così povero (di qualunque cosa, sia dentro che fuori), così minuscolo alle prese con l’ovvietà delle faccende quotidiane.
E tale progressione si deve anche alle solite musiche stratosferiche di Mihály Víg che non sono un semplice accessorio, ma parte fondante che si integra totalmente nell’Immagine, innervandola, donandole potenza ed emotività, al pari di tutti gli altri film di Tarr che non sarebbero gli stessi senza le note del suo fidato collaboratore. Ma qui il riconoscimento per il comparto sonoro è doppio visto che per l’intera durata del film le nostre orecchie capteranno continuamente quel vento tremendo che spira fuori dalla casa, costante e ripetitivo, senza alcuna accezione negativa, come è il cinema di Tarr.

Capolavoro di inquietudine, The Turin Horse è un film che non può essere paragonato a niente semplicemente perché annichilisce tutta l’attuale produzione cinematografica. E per fare questo gli basta anche un singolo frame, si veda il primo piano del cavallo [3] o la fiammella della lampada.
Inquietante Capolavoro, A Torinói ló è anche il film che diegetizza in maniera assoluta il concetto di Apocalisse caricandola magnificamente di un’attesa che troverà sontuosa liberazione in quello che la voce off definisce, giustamente, un silenzio di morte.
Il probabile addio di Béla Tarr al cinema è, infine, un commiato di commovente bellezza che fa di questa arte territorio escatologico senza coordinate, l’avamposto prima del baratro, una lucina tremolante nell’oscurità che raggela.
Il cavallo di Torino è, dunque, il funerale della totalità, di ogni singolo elemento che costituisce la Vita, e noi non siamo altro che i partecipanti della cerimonia: i testimoni silenziosi della fine… di noi stessi. Almeno ora, speriamo di riposare in pace.

Visione definitiva: il Cinema e il Mondo come se li vedessimo per l’ultima volta.
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[1] Ma nell’intervista che potete leggere qui (e fatelo, che merita), Tarr sembra non ammettere repliche sul suo ritiro. “Non sono un tipo che scherza. Se dico sì, puoi star sicuro che è sì. Se dico no, puoi star sicuro che è no.”

[2] Non fraintenda la data di uscita. A Torinói ló era già pronto nell’agosto del 2010 come avevo sottolineato in questo post.

[3] Pura impressione soggettiva, ma la suddetta scena ha la stessa potenza di quella con il vecchio delle Armonie. Devastante.