Le quattro volte (2010) è un film che sublima, che (si) eleva, che mostra tutta l’imperturbabile bellezza: sua, della natura e del Cinema.
Sette anni dopo Il dono (2003) Frammartino si reca nuovamente nella sua terra d’origine, la Calabria, per girare un film che come dice Alessandro Baratti “è troppo poco narrativo per essere definito una pellicola di finzione e troppo narrato per essere attribuito al genere documentaristico” (link), e nuovamente costringe lo spettatore ad una partecipazione attiva, alla ricostruzione delle componenti filmiche che hanno bisogno del pensiero di chi guarda per dare luogo a un discorso sincero, pieno e compiuto.
Potenza della stasi, estasi immobile, che come nel lungometraggio d’esordio obbliga ad una osservazione minuziosa degli eventi che lontani da costrizioni sceneggiaturiali accadono perché si ha la sensazione che così deve essere, e Frammartino, a prescindere dalla sua influenza sulla scena, cattura le immagini trasmettendo enorme naturalezza al di là degli studi preventivati a tavolino che senza ombra di dubbio ci sono stati.
Il canale attraverso cui viene percepita questa originarietà, questa essenza archetipale, è dovuto innanzi tutto all’ambientazione che per l’ennesima volta conferma l’impareggiabile spirito arcaico dei paesaggi bucolici nei quali si sostanziano elementi pressoché primitivi della nostra razza: vedasi le forme di superstizione (la polvere della chiesa usata come placebo per la tosse, inutilmente), tradizione (la processione con i costumi d’epoca) e aggregazione (la festa con l’albero), ai quali si aggiunge una totale discrepanza con il nostro mondo metropolitano per via della contemplazione/riflessività/ascetismo generale che permea tutti gli scorci e vedute di questo paesino abbarbicato sulle rocce. Chi trionfa, oltre al Cinema, è la natura, di cui è arrivato il momento di parlare.
La ciclicità che dà il titolo al film si accompagna ad un piccolo miracolo su pellicola, per quanto possa essere piccolo un miracolo. Il quadruplice passaggio uomo-animale-vegetale-minerale si affianca ad una progressiva estromissione del regista dal film. Finché al centro dell’attenzione è posto il vecchio pastore è chiaro che il controllo su di esso può definirsi totale, ma già con l’entrata in scena della piccola capretta il comando si allenta, Frammartino non può “dirigerla” ed ecco che è lei, la bestiolina, a dettare i tempi di ripresa, poi tagliati e cuciti in fase di montaggio certo, tuttavia vi è una sorta di liberazione dogmatica, è cinema libero questo, e nel ritrarre oggetti inanimati come un abete o del carbone che porterebbero ad uno scivolamento documentaristico, al contrario si fortifica l’aspetto narrativo. Così più ci si allontana dalla visione antropocentrica della storia più il regista si congeda dalla cabina direttiva e più, che magia!, il film acquista senso.
Frammartino gioca splendidamente con le iterazioni. Cosiccome la sua opera non è nient’altro che una fase, una ruota, un ritmo che si ripete all’interno degli estremi vita-morte, egli piazza dei loop che si ripercuotono con inesorabile magnificenza, equazioni estetiche sonore e semantiche: il bambino staccato dalla processione come la capra staccata dal gregge, l’incessante tosse del pastore come il belato dell’animale, la formica sul tronco dell’albero come quella sul viso del vecchio, la lapide che chiude il loculo come i tronchi che occludono l’interno della carbonaia [1].
Oltre i confini nazionali ci sono pochi film di questo livello, dentro… beh, figuratevi un po’ voi: respirate a pieni polmoni, questo è ossigeno purissimo per il cinema italiano.
_________
[1] In questa intervista Frammartino cita tra le fonti di ispirazione Béla Tarr. La sequenza in esame ricorda davvero tanto il finale di quel patrimonio dell’umanità che è Satantango (1994). Omaggio o meno, si tratta comunque di una grande scena.
Sette anni dopo Il dono (2003) Frammartino si reca nuovamente nella sua terra d’origine, la Calabria, per girare un film che come dice Alessandro Baratti “è troppo poco narrativo per essere definito una pellicola di finzione e troppo narrato per essere attribuito al genere documentaristico” (link), e nuovamente costringe lo spettatore ad una partecipazione attiva, alla ricostruzione delle componenti filmiche che hanno bisogno del pensiero di chi guarda per dare luogo a un discorso sincero, pieno e compiuto.
Potenza della stasi, estasi immobile, che come nel lungometraggio d’esordio obbliga ad una osservazione minuziosa degli eventi che lontani da costrizioni sceneggiaturiali accadono perché si ha la sensazione che così deve essere, e Frammartino, a prescindere dalla sua influenza sulla scena, cattura le immagini trasmettendo enorme naturalezza al di là degli studi preventivati a tavolino che senza ombra di dubbio ci sono stati.
Il canale attraverso cui viene percepita questa originarietà, questa essenza archetipale, è dovuto innanzi tutto all’ambientazione che per l’ennesima volta conferma l’impareggiabile spirito arcaico dei paesaggi bucolici nei quali si sostanziano elementi pressoché primitivi della nostra razza: vedasi le forme di superstizione (la polvere della chiesa usata come placebo per la tosse, inutilmente), tradizione (la processione con i costumi d’epoca) e aggregazione (la festa con l’albero), ai quali si aggiunge una totale discrepanza con il nostro mondo metropolitano per via della contemplazione/riflessività/ascetismo generale che permea tutti gli scorci e vedute di questo paesino abbarbicato sulle rocce. Chi trionfa, oltre al Cinema, è la natura, di cui è arrivato il momento di parlare.
La ciclicità che dà il titolo al film si accompagna ad un piccolo miracolo su pellicola, per quanto possa essere piccolo un miracolo. Il quadruplice passaggio uomo-animale-vegetale-minerale si affianca ad una progressiva estromissione del regista dal film. Finché al centro dell’attenzione è posto il vecchio pastore è chiaro che il controllo su di esso può definirsi totale, ma già con l’entrata in scena della piccola capretta il comando si allenta, Frammartino non può “dirigerla” ed ecco che è lei, la bestiolina, a dettare i tempi di ripresa, poi tagliati e cuciti in fase di montaggio certo, tuttavia vi è una sorta di liberazione dogmatica, è cinema libero questo, e nel ritrarre oggetti inanimati come un abete o del carbone che porterebbero ad uno scivolamento documentaristico, al contrario si fortifica l’aspetto narrativo. Così più ci si allontana dalla visione antropocentrica della storia più il regista si congeda dalla cabina direttiva e più, che magia!, il film acquista senso.
Frammartino gioca splendidamente con le iterazioni. Cosiccome la sua opera non è nient’altro che una fase, una ruota, un ritmo che si ripete all’interno degli estremi vita-morte, egli piazza dei loop che si ripercuotono con inesorabile magnificenza, equazioni estetiche sonore e semantiche: il bambino staccato dalla processione come la capra staccata dal gregge, l’incessante tosse del pastore come il belato dell’animale, la formica sul tronco dell’albero come quella sul viso del vecchio, la lapide che chiude il loculo come i tronchi che occludono l’interno della carbonaia [1].
Oltre i confini nazionali ci sono pochi film di questo livello, dentro… beh, figuratevi un po’ voi: respirate a pieni polmoni, questo è ossigeno purissimo per il cinema italiano.
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[1] In questa intervista Frammartino cita tra le fonti di ispirazione Béla Tarr. La sequenza in esame ricorda davvero tanto il finale di quel patrimonio dell’umanità che è Satantango (1994). Omaggio o meno, si tratta comunque di una grande scena.
Ho intenzione di vederlo a breve, Le quattro volte, proprio perchè ho appena -finalmente- visto Il dono. Condivido quanto dici di Frammartino e di questo sguardo posato su un vuoto ricolmo di grazia e antico sapere. Un mondo ancora presente in Italia, ma per poco: un mondo che personalmente ho anche avuto modo di vivere e che ricerco, anche, nei film che guardo, nei libri che leggo, nei cibi che mangio.
RispondiEliminaPS Non ho visto Satantango. Anche se è impegnativo per me, che ho prole ancora semipoppante, un film di sette ore, mi sa proprio che non posso perdermelo.
Non puoi perderlo perché è, a mio umilissimo parere, il film decisivo nella "carriera" di un cinefilo. In quelle 7 ore si respira Cinema allo stato puro, Arte elevata oltre ogni cosa. Satantango è tutto quello che voglio vedere in un film, e anche di più.
RispondiEliminaappena visto,,molo bello..riferimento d'obbligo a quel capolavoro assoluto che è satantango
RispondiEliminain lista
RispondiEliminagrazie e ciao
ho semmpre avuto al sensazione che frammartino le 4 volte fosse fasullo.. vedere fasulo rumore bianco per credere. ciao.
RispondiEliminaeraser, dove posso trovare il film?
RispondiEliminaAccidenti l'ho visto tempo addietro e non ricordo come ho fatto a recuparlo. Ad ogni modo o è il mulo o è il torrente, da lì non si scappa purtroppo, un film così visto sul grande schermo dev'essere da godimento puro.
RispondiEliminaL'altra faccia dell'Italia, quella nascosta, direi che è proprio il caso di respirare a pieni polmoni quando arrivano opere del genere. Bellissimo!
RispondiEliminaHai mai visto "Au Hasard Balthazar"? Beh, la parte con il capretto che si perde e va a morire sotto quell'albero me l'ha ricordato all'istante. E infatti nell'intervista a Frammartino, tra i suoi punti di riferimento, oltre a Tarr viene citato anche Bresson.
Mi manca, Bresson è una lacuna che mi porto dietro.
RispondiEliminaho avuto l'onore di vedere pochi minuti del suo nuovo mediometraggio "alberi", già portato con successo a new york e girato nel mio piccolo paesino lucano e in altri borghi della Basilicata ... pochi minuti di bellezza, luce che schianta il buio, ricerca di radici che diventano corpo movente o semplicemente non c'è differenza tra il respiro umano e quello della natura ... parlando brevemente con frammartino, mi ha detto che dovrebbe fare qualche video-installazione dell'opera questa estate (non solo in basilicata), sta cercando le location, sperando che possa avere la giusta cornice per un'esperienza che non è solo visiva ... parlare pochi minuti con lui mi ha commosso, sentire la passione che trapela dal suo sguardo, prima che dalla sua arte, è qualcosa raro in italia, in ogni ambito
RispondiEliminaAvevo letto di questo progetto tempo fa e speravo che ne uscisse fuori un lavoro per la sala. Per carità, felice che Frammartino continui a produrre, però temo che questa installazione, se troverà effettivo sviluppo, io non la vedrò mai.
RispondiEliminaPosso immaginare la tua emozione, una persona che fa un film come Le quattro volte deve avere qualcosa di speciale dentro.
alberi...ma è già reperibile per le vie poco battute di montagna?
RispondiEliminasono rapita dalla sua poetica e da lucana vorrei riuscire a essere tra le fortunate che vedranno l'installazione sai dirci dove quando?grazie