sabato 30 gennaio 2021

Reminiscencias

Spesso i nomi dei film ci forniscono già delle bussole ancor prima di vederli, e Reminiscencias (2010) del regista nato a Lima Juan Daniel Fernández Molero rientra appieno nella categoria, del resto che cos’è una reminiscenza se non un’improvvisa emersione eidetica? E il documentario (ma categorizzarlo così è un po’ riduttivo) sotto esame non è proprio un avvicendarsi di immagini provenienti da quel blob indistinto di ricordi, nostalgie, compleanni, maestre e seggioloni? Sì, è esattamente questo. L’operato di Molero, pescando direttamente dall’archivio di famiglia, si articola di immagine in immagine in un disordine che ben esemplifica il processo mnemonico della ricomparsa, è un film di montaggio Reminiscencias, e non poteva essere nient’altro perché una qualunque iniezione finzionalizzante avrebbe inaridito la corposa portata concettuale che lo imbeve. Succede poi, altrettanto spesso, che un esordio renda più comprensibile il titolo successivo, nonché il trovare analogie, punti di partenza e sviluppi, se infatti ci ricolleghiamo con Videofilia: y otros síndromes virales (2015) è facile notare come il peruviano si sia servito di Reminiscencias per mettere meglio a fuoco il suo credo registico, e i fatti parlano di un ragazzo che è un gran manipolatore in fase di editing, uno sperimentatore in fieri che altera il materiale trattato, e nuovamente l’impressione è che le incursioni nel girato siano apportate più da un boicottatore che da chi dovrebbe avere il pallino del gioco, più da un terrorista somministratore di scompiglio che da un direttore d’orchestra col suo bel spartito aperto sul leggio.

Il vero valore aggiunto di Reminiscencias ce lo spiega però Wikipedia (link). In sintesi, Juan Daniel a seguito di un incidente avvenuto praticando il sandboarding (… e chi è che non fa sandboarding di ’sti tempi?) ha avuto seri problemi di memoria e il rivedere i filmini casalinghi girati da e con i suoi parenti lo ha aiutato a guarire dall’amnesia e a strutturare il film in sé, perché qui, come in qualunque altro oggetto artistico, la struttura è importante, anche se costituita da un susseguirsi di detonazioni. L’alchimia di Molero è un corridoio di specchi che mette in relazione i found footage della sua infanzia/adolescenza con filmati attuali, ottenuti da videocamera o telefono cellulare, è proprio un dialogo che si viene a creare, caotico, esorbitante, totalmente indomabile, ecco degli esempi: vediamo una scimmietta che beve della birra nel passato, e vediamo, subito dopo, un’altra scimmia appesa ad un albero nel presente, e il rimpallo si ripropone con una foresta, una festicciola, una tenda di campeggio, persiste, quindi, un nesso strettissimo tra l’ieri e l’oggi di Molero, una schizzata matassa che è il puntale corrispettivo di una mente danneggiata, un cervello in fumo che vagola in un sé-labirinto. Seguendo l’ideale ricostruzione mnemonica dell’autore acquista allora significato il fatto che nell’ultima mezz’ora, dove non a caso i rimandi con le sequenze di magazzino vengono di molto ridotti, Molero faccia visita al paesino natale di suo nonno, è la meta di un viaggio indirizzato alla radice di una memoria, percorso tradotto in un linguaggio cinematografico in odore di avanguardia senza far venir meno l’impronta intimista, per il sottoscritto un gran debutto di un giovane filmmaker da seguire con attenzione.

giovedì 28 gennaio 2021

All These Sleepless Nights

Avevamo intercettato Michał Marczak qualche tempo fa con Fuck for Forest (2012), documentario su una stramba comunità ecologista dedita alla salvaguardia delle foreste utilizzando stratagemmi alquanto particolari, quattro anni dopo lo incrociamo in Wszystkie nieprzespane noce (2016) sempre focalizzato su una realtà giovanile ma inquadrata e proposta con un altro linguaggio. Il regista polacco si gioca la carta del film generazionale raccontandoci la vita di due ventenni che a Varsavia cercano, come tutti gli altri loro coetanei in giro per il mondo, delle riposte che non trovano, forse perché brancolano nei posti e con metodi sbagliati o forse perché, persi dolcemente in un limbo sospeso tra alcol e rave, non sono davvero interessati a scovarle. Questa spinta un po’ coming-of-age viene tradotta da Marczak in immagini non prive di una marcata estetizzazione, in sostanza succede che una larga parte del girato assomiglia più ad una messa in sequenza di videoclip musicali che ad un prodotto cinematografico, scelta stilistica rispettabile (tra l’altro Marczak ne sa avendo lavorato per i Radiohead) ma lontanissima da quell’ideale artistico che perseguo come appassionato. La corposa patina che ricopre pressoché ogni momento della pellicola ci recapita un atto sbilanciato nel campo degli sterili preziosismi, vedere almeno sette o otto volte il protagonista ballare sullo schermo non arriva tanto come una manifestazione di libertà personale quanto come una ripetizione continua che inaridisce l’ipotetica catarsi.

Si possono intendere le motivazioni che hanno spinto Marczak ad impegnarsi in All These Sleepless Nights, e non mi riferisco soltanto al ritratto post-adolescenziale ma anche alla fotografia di un Paese, la Polonia, ed al retaggio storico che ne influenza inevitabilmente il presente. Per un oggetto che non ha mire esplicitamente politiche non ci si aspetta chissà quali illuminanti incursioni in materia, però qui le vicende che riguardano i due ragazzi si prendono il palcoscenico lasciando ben poco al resto, e la questione principale è che i suddetti bozzetti esistenziali pieni di tabacco e musica elettronica non sono niente che il cinema, ad oltre un secolo dalla nascita, non abbia già presentato al pubblico e con risultati decisamente superiori. Non gli si nega una profusa vitalità ad ATSN, anche se forse è doveroso parlare di una iper-vitalità che sfocia quasi in una nevrosi formalistica tendente ad esasperare ogni passaggio, dalle scene narrative a quelle di raccordo, e non sembra una coincidenza allora che l’unico istante felice sia quando Krzysztof commenta con un microfono i passanti all’interno del parco, abbandonate le piroette espressive è la semplicità che centra sempre l’obiettivo. In conclusione devo sentenziare che Wszystkie nieprzespane noce non risponde per nulla ai miei desideri spettatoriali, ciò non toglie che sia potuto piacere (tipo alla giuria del Sundance che, al pari di altri Festival in cui è passato, lo ha catalogato nella categoria non-fiction... mah) e che presumibilmente piacerà. Purtroppo.

martedì 26 gennaio 2021

Edmond

Individuiamo subito un possibile predecessore: Oh Willy... (2012) è, tra le non poche visioni passate da queste parti, il cortometraggio animato più vicino ad Edmond (2015), e la quasi totale sovrapponibilità si registra nel campo realizzativo perché anche per l’olandese Nina Gantz la magia dello stop-motion si applica ad una costruzione della scena che utilizza materiali come la lana ed il feltro per dare vita ad un quadro che non riesco ad aggettivare adeguatamente se non ricorrendo a termini del tipo “delicato”, “nostalgico”, “pacato” e così via. È, al solito, un bel vedere perché si respira un’aria di artigianalità che, al pari di tutti gli altri esemplari equipollenti per i quali ho sempre elargito le medesime lodi, riempie delle zone spettatoriali non colmabili da altre proiezioni, nemmeno dall’animazione più classica, metodo a cui Gantz si rifà soltanto per disegnare gli occhi e la bocca dei personaggi, una scelta evidentemente tesa ad amplificare la loro espressività (e non so se davvero necessaria, ripensando ad Oh Willy... dove non c’era l’uso del 2D la resa facciale dei pupazzi trasmetteva comunque le emozioni desiderate). Per il resto l’applicazione del passo uno dà origine al consueto (e amabile) presepe di burattini con l’anima dove i dettagli, anche se inessenziali, contribuiscono ad irradiare una piccola, impercettibile, meraviglia.

Una regola non scritta vuole che i propositi trattati dagli animated shorts abbiano molto spesso un substrato esistenziale, non si tratta di velleità piuttosto la consapevolezza che, forse, attraverso un taglio artistico sconfinante nel fantastico è più facile, e paradossalmente più credibile, parlare di cose importanti come vivere, morire, amare e molti altri argomenti che potete immaginare. Edmond non si sottrae ad una tale corrente tematica perché anche qui la regista nata ad Amsterdam nel 1987 si occupa di una solitudine su cui cuce però una storia non convenzionale, il pregio del corto, oltre alla professionalità sopramenzionata, sta proprio nel passaggio informativo (leggi: empatico, con degli ovvi limiti del caso, chiaro) verso chi assiste: Edmond è una persona malata, è un cannibale, eppure spiccano maggiormente la sua fragilità e la sua malinconia piuttosto che la deviazione affliggente. L’ironia sfuma il dramma nell’agrodolce, il flashback, che poi è il corpo dell’opera, diventa un album di fotografie da gustare dove la mano menomata della madre, l’istinto carnale (che non rima con sessuale) diviso tra l’amichetta e l’amico ed il macabro apice antropofago nel grembo materno, conducono ad un approdo amniotico-funebre che corrisponde alla scomparsa eterna, Edmond si inabissa, si libera, si dissolve nella dolcezza di un addio.

domenica 24 gennaio 2021

Over the Years

In termini di minutaggio Über die Jahre (2015) è, ad oggi, il terzo titolo di Nikolaus Geyrhalter dopo Elsewhere (2001) e Das Jahr nach Dayton (1997), ma in merito alla sua gestazione è plausibile che si posizioni in vetta, questo perché il progetto comincia nel lontano 2004 quando il regista austriaco fa visita ad una fabbrica tessile, la Anderl Company, situata in una regione chiamata Waldviertel confinante con la Repubblica Ceca, che è in procinto di chiudere per sempre i battenti. La parte iniziale ci fa credere che assisteremo ad un documentario di osservazione come ce ne sono stati altri nel curriculum di Geyrhalter (vedi Abendland [2011] e Donauspital - SMZ Ost [2012]), in realtà superate le riprese che mostrano il lavoro all’interno dello stabilimento (dove è constatabile l’obsolescenza dei macchinari utilizzati, il frastuono [non dissimile da quello sentito in Joy of Man’s Desiring, 2014], la routine e l’isolamento), l’opera si assesta sulle frequenze di Pripyat (1999) o CERN (2013), ovvero un susseguirsi di interviste ai diretti interessati del caso, con però una piccola novità: per la prima volta Geyrhalter non toglie dal montaggio finale le domande che pone ai vari interlocutori e questo fa sì che quelli che in passato apparivano come dei monologhi assumano qui una natura più discorsiva e meno aliena, la ragione, e lo vedremo tra poco, è data forse da un’incursione nell’umano che non ha precedenti per l’autore e quindi potare il dialogo confidenziale che egli stesso ha saputo intessere negli anni sarebbe stato un vero peccato. Resta inalterato, infine, l’inserimento degli stacchi in nero che scandiscono il procedere della proiezione, in Over the Years sono meno frequenti ma più lunghi a sottolineare la differenza temporale tra una scena e l’altra.

Potremmo considerare lo smantellamento dell’opificio come un’esplosione, un Big Bang che ha emesso nell’atmosfera circostante dei detriti disorientati nelle mani burocratiche del welfare locale, asteroidi dalle t-shirt a tinta unita persi nella calma di una campagna piatta. La questione fondamentale è che qua non si tratta più dello sguardo etno-antropologico di Elsewhere, Über die Jahre è esplicitamente ricerca sociale ed economica, è la radiografia di una porzione d’Europa che si presumerebbe ricca e che invece nel decennio di riferimento è anch’essa in piena crisi finanziaria. Il vero tessuto di cui Geyrhalter si occupa non è quello lavorato alla Anderl bensì l’ordito produttivo che sta intorno all’azienda, la concorrenza (perfino una dipendente dice che non usa i pannolini prodotti lì perché i Pampers sono migliori), l’incapacità di tenere i ritmi del mercato e la visione dell’anziano direttore non al passo con i tempi, sono tutti elementi che portano al collasso del sistema manifatturiero che seppur micro garantiva a diverse famiglie di mettere un piatto caldo in tavola la sera. Da una deflagrazione del genere, avvenuta in una data cornice storica, Geyrhalter non poteva esimersi dal mostrarci il vuoto venuto a crearsi: la disoccupazione. Dalle informazioni che recepiamo il territorio dove vivono i protagonisti non offre grandi opportunità di impiego né i loro profili sono di altissimo livello, il risultato che si protrae di incontro in incontro è un tirare avanti raccattando lattine dalla spazzatura, un rimboccarsi le maniche reinventandosi rappresentante della Tupperware, un ritirarsi dal mondo insieme alla madre inferma. Senso di tristezza nemmeno troppo velato, compendio di ciò che è la vita, un avvicendarsi di problemi con annessa corsa a delle soluzioni.

Ma se c’è una luce che si irradia da Over the Years, è la luce delle persone che lo abitano. È giusto un chiarore flebile, un residuo che ce li fa vedere per ciò che sono: gente umile, bonaria, impegnata a fronteggiare un ostacolo inaspettato. Non si può dir molto se non che vi sia un tale tasso di umanità che basta di per sé a riempire la misura della narrazione, tante storie ci passano davanti, alcune dette, altre intuite, è una passerella che allungandosi per due lustri rivela i suoi sviluppi (c’è chi, comunque, si è rimesso in piedi e ha trovato una nuova mansione) e le sue stasi (c’è chi, invece, non ce l’ha fatta e galleggia in un oblio di radici da sterrare), tra facezie e drammi indicibili (la morte di un figlio), nell’orizzonte del giorno dove per forza di cose, piano piano, si diventa più grassi, più vecchi, più scontrosi, nella grande incognita che si chiama Futuro, un mosaico di quotidianità, di alluvioni, di CD da catalogare sul computer, di scrutini elettorali, di fidanzati alcolizzati, di nipoti corpulenti con difficoltà d’apprendimento, ecco il tragitto che Geyrhalter compie con Über die Jahre, una lacerazione nella stoffa umana, un sipario che si apre sulla tragica ordinarietà dell’esistere ora e domani su questo pianeta.

Per quanto potuto vedere finora il miglior film di NG con ampio distacco.

venerdì 22 gennaio 2021

Profit Motive and the Whispering Wind

La Storia. Questa entità impalpabile che ci anticipa da sempre, che si materializza nei libri, che si attualizza nella ciclicità degli eventi che tornano e ritornano, di sicuro una rima che non stona mai con essa è La Morte, oltre la finitudine umana, quel senso funereo è una raffica di violenze e sopraffazioni generatrici di figli perduti ma non dimenticati: eroi, martiri, vittime, il mausoleo del ricordo contempla al suo interno un numero spropositato di loculi a cui rendere omaggio, la maggior parte dei quali, tra l’altro, piuttosto sconosciuti a noi che di ciò che ci ha preceduto, in fondo, non ci importa poi tanto. Da tali elucubrazioni si muove la meditazione per immagini di John Gianvito (non un pivello [è nato a New York nel ’56] e probabilmente non un sommo autore da rimembrare nei secoli, ma se avessimo tempo-voglia-mezzi uno sguardo alle altre cose che ha fatto lo si potrebbe dare), Profit Motive and the Whispering Wind (2007), infestato – è un po’ banale l’associazione di idee, lo so – dal fantasma di Edgar Lee Masters, si occupa di “leggere” il passato di una nazione attraverso quelli che potremmo definire i feticci di Ieri: le tombe, e non solo: targhe commemorative, epitaffi, statue, iscrizioni celebrative, il filo conduttore del viaggio mortuario (ma tutte le riprese sono state effettuate in giornate soleggiate/primaverili per cui non vi è alcuna lugubre cappa ad opprimere la visione, al contrario: ciò che si respira è un’aria salubre, come purificata) è la persistenza, oggi, di esseri umani che hanno perso la vita per una causa o a causa della stoltezza dei loro simili.

È tuttavia una persistenza flebile, pressoché invisibile, le lapidi si scrostano, ragnetti e bruchi passeggiano noncuranti su dei nomi che non dicono più molto mentre le lettere si ossidano, i licheni macchiano, l’erba ricopre e il mondo va avanti da sé fin dalla notte dei tempi. Però è apprezzabile che il cinema sia capace di fornire un taglio narrativo del genere in relazione ad una materia così abusata, Gianvito compiendo una carrellata che abbraccia una buona fetta di cronistoria americana degli ultimi duecento anni tributa una memoria collettiva che ci riguarda da vicino in quanto calpestatori del medesimo pianeta che accoglie le spoglie di chi riposa in quei cimiteri, e se lo si vuole c’è anche della poesia qui, un sentimento che, essendo ineluttabilmente elegiaco, ha un qualcosa di romantico occupandosi di trascorsi lontani, ed il vento, non a caso presente nel titolo, che sposta le fronde, che è brezza, che è frusta, è il Vento del Tempo che attraversa le ere, infatti sul finale il regista piazza un’immersione tambureggiante nel contemporaneo (si tratta, forse, di manifestazioni anti-Bush), un’operazione leggermente sfacciata che comunque non infastidisce e che rimarca il concetto: la Storia non è una linea dritta con una definita progressione bensì un cerchio che non ha inizio né fine ma solo un ora.

mercoledì 20 gennaio 2021

Yulya

L’errore è mio che un oggetto come Yulya (2015) non avrei nemmeno dovuto guardarlo, ma siccome resto sempre dell’opinione che scrivendone si riscatta un poco del tempo perso, eccomi a parlare di un cortometraggio esclusivamente, inevitabilmente narrativo, e ciò può, anzi: è, un problema perché con un taglio del genere è più facile che il film in questione si autoesponga ad attacchi di tipo razionale, qui, ad esempio, come si fa a credere che la ragazzina riesca a scappare dai farabutti? Il tizio che la insegue per un tratto, che si inciampa e che poi sparisce dallo schermo è la quintessenza di un racconto piegato al volere di chi l’ha scritto: Yulya doveva scappare, punto, non c’erano alternative, ci sarebbe riuscita anche con Bolt alle calcagna. E nella fuga boschiva non è che si registrino vette di cinema indimenticabile, l’ordinarietà regna, un po’ di camera a mano, un po’ di luci naturali, un po’ di impegno dell’attrice Joana de Verona (stellina del firmamento lusitano) per infondere la giusta dose di drammaticità e Yulya è bello che pronto, l’aggiunta dei due incontri, il bambino prima e la prostituta poi, che mostrano una certa solidarietà nei riguardi della protagonista, è solo uno strumento per sottolineare la condizione di fuggitiva in cui Yulya versa, niente di più (a meno che, piazzandole davanti la lucciola diurna, non si volesse creare una specie di specchio visto che la segregazione delle giovani nel fienile potrebbe rimandare al meretricio, ma è solo una supposizione del tutto personale).

In casi come quello sotto esame lungi da me mettere in discussione tutta la professionalità che c’è dietro ad un lavoro tipo Yulya il quale, seppur breve, annovera una crew con le maestranze del caso al completo, e poco si può dire anche del regista André Marques (portoghese classe 1984) che, a leggere la sua biografia su Wikipedia inglese (link), pare si diletti nell’area sperimentale e in quella dei videoclip, buon per lui!, se l’idea che aveva in testa per il suo corto era quella che ha poi sviluppato in video, con queste modalità, con questa angolatura, che gli si può dire? Personalmente sono molto, molto distante da una veduta di tal fatta che ritengo banale, perché ne è strapieno il mondo di prodotti così, e piatta, perché non c’è il minimo tentativo di ricerca, di innovazione, di voler scavalcare la staccionata della storiella pseudo-thriller. Quindi a Marques gli si può dire che se lui è contento del risultato finale lo siamo anche noi, certo... come no... contentissimi...

lunedì 18 gennaio 2021

Pieces of a Woman

Scrivendo di Una luna chiamata Europa (2017) vaticinavo la possibilità che Kornél Mundruczó approdasse in terra statunitense perché il suo cinema si era di molto spettacolarizzato rispetto a quello degli esordi. Tre anni dopo l’ipotesi prende forma e concretezza però il regista che ritroviamo in Pieces of a Woman (2020) è un autore che si è messo in riga, quindi niente gente che vola né cani dall’ambiguo comportamento ma un bel drammone scritto dalla moglie Kata Wéber che sembra si sia ispirata ad un episodio del loro vissuto di coppia. Qualcuno (?) ricorderà che anche in Pleasant Days (2002) una maternità fungeva da miccia narrativa per l’intera vicenda, qui tutto è ovviamente portato su un livello di altissima professionalità e non mi sognerei minimamente di accostare le due pellicole, tuttavia l’attenzione va a focalizzarsi su una non dissimile area di interesse: le dinamiche relazionali, sociali e consanguinee, che si generano da una gravidanza, per l’occasione virata al nero. I pezzi del titolo sono appunto i cocci originati dal terribile impatto, dal corpicino blu, dai piccoli polmoni inerti, e, nell’ottica della bolla-Netflix, sicché nella prospettiva spettatoriale di un contenitore filmico a largo consumo, l’opera in oggetto svolge diligentemente il proprio compito, dissemina questi tasselli femminili interconnessi da una sofferenza difficilmente medicabile, espone i brandelli di una donna smarrita in un mondo che passo dopo passo, per lei più di ogni altro, si stinge, disintegra Martha (l’immagine allo specchio, ce ne sono tre, tre frammenti) nel campo sentimentale (inutile rimarcare l’evidente progressione di distaccamento col compagno Sean) e nel campo famigliare (questa cosa della genitorialità muliebre è una roba forte che ha radici nel passato come ricorda una notevole Ellen Burstyn in un intenso monologo). Insomma, credo si possa dire che l’esame hollywoodiano l’ungherese lo abbia passato, e lo ha fatto mettendosi al servizio della digeribilità altrui riducendo un autorialismo che da quelle parti non avrebbe trovato residenza in favore di un solido impianto emotivo sorretto dalla sontuosa interpretazione di Vanessa Kirby, probabile nuova stella del firmamento californiano.

Nel tessuto realistico c’è anche spazio per una metafora lampante incarnata dalla reiterata panoramica del ponte. Visto il mestiere di LaBeouf ho pensato per buona parte della proiezione che le istantanee frontali dell’infrastruttura in fase di costruzione simboleggiassero un graduale riavvicinamento tra i genitori mancati. Con la piega che la trama assume verso il finale dove si verifica la totale estromissione dell’uomo, il completamento del viadotto si è fatto chiaro per il sottoscritto: esso era soltanto una raffigurazione della Martha spezzata, interrotta, che reincontra se stessa una volta stretta la mano della madre, esattamente come due estremi che tornano a toccarsi. C’è poi un’altra allegoria che dà nerbo alla narrazione e che è rappresentata dai semini delle mele, la loro germinazione si fa parallelo di una gestazione che ha effettivo riscontro nella conclusione, finalmente l’inverno se ne è andato e la vita, a quanto pare, ha fatto un nuovo giro, i titoli di coda che scorrono, giustamente, su un melo rigoglioso trasmettono una sensazione di speranza e positività. Mentre invece alcuni aspetti, tutti legati alle costrizioni che le sceneggiature impongono e che perciò non rientrano nei miei gusti, sono stati i seguenti: - l’insistere sui bambini che la protagonista incrocia per strada, nei negozi o sulla metro in modo da incrementare il suo dolore, una mossa a mio parere un po’ banale; - i reciproci tradimenti repentini e immotivati (soprattutto la scappatella con la cugina); - il momento che sancisce il superamento del lutto e che squaderna l’umanità di una mamma che ha visto la figlioletta morirle tra le braccia è, per carità, toccante e pregno, ma molto (troppo?) teatrale e ostentato (mi riferisco alla scena del processo): costruito. Detto ciò, se guardo ai trascorsi di Mundruczó, escludendo Delta (2008) non sono mai riuscito ad entrare in sintonia con i suoi lavori, ben venga allora una dimensione più canonica se ciò lo aiuta ad esprimersi meglio, e comunque il piano sequenza iniziale ha il copyright magiaro addosso, del resto certe nobili origini è doveroso sottolinearle.

sabato 16 gennaio 2021

O Sol nos Meus Olhos

Put it in the suitcase, my heart. Put it in the suitcase, my heart. Put it in the suitcase.

O Sol nos Meus Olhos (2013) è un film in cui si assiste all’elaborazione soggettiva di un capolinea sentimentale, per fare ciò il duo brasiliano Flora Dias e Juruna Mallon utilizza un espediente che attira l’attenzione: la donna, trovata morta in casa, viene infilata dal compagno in una valigia e da lì inizia un viaggio che non sembra avere meta. Vista così la situazione è decisamente basica e non chiederebbe altro se non quel minimo sindacale di applicazione che ogni pellicola degna di tale nome richiede, ma al sottoscritto qualcosa non è passato in maniera così lineare, del resto ci sono dei segnali che allertano, si vedano le apparizioni fantasmatiche della ragazza che disequilibrano un quadro generale ormeggiato nella realtà, così, anche grazie all’inserimento di queste piccole finestre oniriche, si modella un percorso personale che non è una fuga o una corsa per sbarazzarsi del cadavere, ma un sentiero orientato alla consapevolezza di una fine, in tal senso appare esemplare la “telefonata” che l’uomo fa a conclusione della proiezione, è chiaro che dall’altra parte della cornetta non ci sia nessuno e che le amare parole da lui pronunciate suonino come un’epigrafe di addio.

La gestione dell’intimo tragitto coniugato a quello effettivamente on the road è passabile ma non esattamente galvanizzante, Dias & Mallon mantengono una coerenza espositiva a cui va reso merito sebbene avrei desiderato qualche guizzo maggiormente incisivo. I vuoti narrativi di cui il film si avvale, e per “vuoti” intendo le diluite sequenze fatte di strada e paesaggio nel Brasile meno turistico, ci dicono di un cinema dotato di una discreta personalità a cui però manca un saldo legame con il cuore dell’opera. A conti fatti, quando ci ritroviamo a dare un giudizio su un manufatto artistico, è facile, a volte sbagliando, anzi, quasi sempre, ricorrere all’apparato sensoriale per emettere sentenze, ergo: se un film ti ha toccato allora è bello; no, è evidente che l’atto esegetico non debba ridursi ad un sillogismo così zoppicante, ma in siffatta direzione ciò che mi sento di affermare è che in O Sol nos Meus Olhos latita una profondità risucchiante, pur riconoscendo la portata drammatica e la rispettabile trattazione funerea di un break-up, non ci si soddisfa al 100%, e scervellarsi sul perché non fa che confondere le idee, ero infatti partito con l’intenzione di scrivere positivamente del film e ho finito per additarne le ombre. L’unico modo per farsi un’opinione è, banalmente, guardarlo con i propri occhi (al riparo dal sole).

giovedì 14 gennaio 2021

Walk with Me

È un incontro di latitudini diverse Walk with Me (2013), precisamente la Danimarca, patria di Johan Oettinger, animatore classe ’84, e l’Uganda, terra natia di Peter Muhumuza Tukei, fotografo, pittore nonché regista d’animazione, una crasi artistica a cui lo spettatore si può abbandonare senza grossi rimorsi per tutti i suoi dodici minuti di durata. L’azione che va compiuta non è tanto quella della comprensione (il corto si chiude spavaldo con la frase “did you understand anything?”) quanto l’ammirazione, nel suo piccolo, dell’impulso estroso che concretizza l’opera. Il titolo va inteso come un manifesto di intenti pronunciato dalla bimba protagonista, dobbiamo camminare con lei in un sentiero che si intrufola negli alvei dell’immaginazione, il cielo è purpureo (valido l’impatto visivo delle nuvole viola), la testa di una bambola si fonde ad una scarpa per tramutarsi in una macchinina artigianale mentre un’altra testa, ’sta volta piumata, svolazza per l’aere con a cavalcioni l’aspirante ballerina, ed attraverso tali esempi di smaccata surrealtà, ai quali si aggiunge necessariamente una specie di zona desertica che ha un qualcosa di daliniano con la riproduzione animata della bambina, il cinema del giovane duo risponde con ritmo e tatto cromatico (colpisce il puzzle di barattoli colorati), nonostante l’obiettivo sia introspettivo le frequenze non hanno nulla di intimo o personale, ne perde lo “spessore” ci guadagna lo “spettacolo”.

Esaminando in maniera più accorta il film è possibile rintracciare un evento-sorgente che detta una certa linea, l’episodio è sfuggente ma ricorsivo, sembra che la morte, o presunta tale, della capra, assuma lo status di simbolo dark nell’immaginario infantile e quasi candido inscenato da Oettinger & Muhumuza, l’ispirazione dei registi si parifica, forse, allo sforzo fantasioso della bimbetta che arriva a recuperare il cadavere dell’animale coricato in quel deserto di cui sopra, il quale deserto, allora, diviene una sorta di limbo astratto, mentale, al confine tra il sé e l’oltre sé. Non male. Peccato per uno score invadente che a tratti fa sconfinare la proiezione nel videoclip, risultato legittimo che però chi scrive non digerisce in toto, preferisco che sia il mondo dei music video a fare visita a quello della settima arte e non il contrario.

martedì 12 gennaio 2021

Videofilia: y otros síndromes virales

Partiamo dalle cose facili: Luz e Junior, due poco più che adolescenti di Lima, risucchiati nella grande bolla dei social network, un po’ di chat, un po’ di sexting, un paio di incontri e, infine, un rapporto sessuale. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, solo che le mire di Videofilia: y otros síndromes virales (2015) non si riducono ad una storiella sentimentale dei nostri tempi, sebbene i “nostri tempi” (o meglio, il tempo di sette o otto anni fa perché la tecnologia va molto, molto veloce e se Videofilia venisse girato nel 2021 sarebbe un’opera diversa) siano un argomento centrale. Il film del peruviano Juan Daniel Fernández Molero è un pentolone in cui ribolle della materia anarchica, l’azione, se chi scrive ha bene inteso, avviene immediatamente dopo il 21/12/12 (come ricorderete sarebbe stata la famigerata apocalissi del calendario Maya) in un mondo che non è affatto finito ma che presenta qualche strana (è un eufemismo) interferenza (un segnale premonitore viene mostrato con il videogioco di Junior nell’internet caffè). Prima di provare a comprendere la natura di queste intermittenze, val la pena ragionare sull’allestimento di Molero, e lo step iniziale è considerare la doppia essenza della realtà, quella che potremmo definire reale e quella virtuale. Messe così, per noi, le due istanze sono chiaramente ben distinguibili, ma non per Videofilia che al contrario si diverte a mischiarle, nell’apparente confusione che si genera ci sono situazioni che entrano ed escono dalle due dimensioni, la stessa relazione tra i protagonisti ne è un esempio, la conoscenza via etere, la congiunzione fisica, il ritorno nell’etere con la messa online del filmino porno amatoriale, va da sé che la descrizione appena enunciata non rende giustizia ad un impianto che si rivela decisamente ostico, anche confusionario per un occhio che non vuole impegnarsi, dove ci sono molteplici input dalla cifra contemporanea come, appunto, la Rete (e oggi con delle app tipo Tinder il discorso assumerebbe un’altra piega) che arriva ad alterare percettivamente il concreto (Luz che vuole essere “uccisa” in video), la necessità di evadere dalla quotidianità (con vari mezzi, anche illegali), la pornografia (ma è superata l’idea di andare a vendere il proprio filmato ad un negozietto hard), il complottismo, alcune idee new age. Insomma, di roba ce n’è davvero tanta.

Che poi, se l’interpretazione non è troppo forzata, Videofilia ci racconta di una virtualità che pian piano prende il sopravvento, è come se quello che vediamo non fosse altro che una riproduzione (cosa che in effetti il cinema è) che viaggia su un dispositivo informatico, la peculiarità del film è proprio la costante intromissione di una sorta di virus che spariglia le immagini sullo schermo, le pixella, le distorce, immette a sua volta delle emoticon arcaiche, quelle che andavano in voga su Myspace o sul fu MSN nel primo decennio del nuovo millennio, contribuendo a gettare la pellicola in uno stato febbrile, in una condizione lisergica meritevole della nostra attenzione. Molero, che non pago ci butta pure dentro quell’immaginario cartoon-ludico che ogni trentenne odierno condividerà (Dragon Ball, Furby, Holly e Benji), fa il piccolo alchimista che ben si arrangia con le risorse a disposizione, lavora su un substrato da homemade movie arricchito con soluzioni e accorgimenti che sconfinano nella videoarte, si disinteressa agli aspetti razionali (ma sul bus, come riceve quegli occhiali speciali Junior?) e insiste su uno scompiglio visivo che trasmette una più che sottile inquietudine, che diffonde un sortilegio in 8-bit (non a caso Luz fa visita ad una santona che le diagnostica certe energie negative), in sostanza, a parer mio, il regista hackera il film stesso, lo sabota di continuo fino a toccare i vertici epilettici del finale, è un film piratato Videofilia, ma nell’interno, nel suo statuto ontologico, è una finestra su una galassia fatta di interconnessioni spezzettate, una ragnatela invisibile così ampia ed estesa che è difficile capire se si è liberi o se si è prigionieri.

domenica 10 gennaio 2021

O Regresso

Sono solo due gli anni che separano O Regresso (2012) da 42,195 Km (2010) e O Jogo (2010) ma la distanza tra il documentario e la coppia di cortometraggi è nettamente più ampia se usiamo il metro di misura della qualità, un indice che ci consegna delle modalità di fare cinema che, per quanto può interessare l’umanità circostante, incontrano il gradimento del sottoscritto. Júlio Alves qui dà il meglio di sé proprio perché, semplicemente, parla di sé attraverso delle coordinate spazio-temporali che come forse è giusto che sia non coordinano un bel niente, il quando ed il dove si diluiscono nel nobile sentimento della nostalgia che attualizza il ricordo e annulla le distanze. La genesi, parificata all’estinzione nella durata del film, è una ripresa subacquea che sa tanto di brodo primordiale, è l’inizio e la fine di un ritorno che riguarda in prima persona il regista lusitano il quale percorre fisicamente e diegeticamente le stradine di Mega Fundeira, un paese praticamente disabitato non lontano da Coimbra, luogo di nascita dei suoi genitori. “Fisicamente” non è però un termine consono all’approccio di Alves, la sua è una specie di non-presenza che vaga per il villaggio cogliendo con assoluta discrezione stralci di vite contadine, di testimonianze, di memorie antiche, perfino di sogni futuri nella scena maggiormente intensa dell’opera, ovvero quella in cui il cugino, ultimo giovane del posto, immagina come sarà di lì in poi la sua esistenza in Germania vaticinando però un regresso in quel paesino una volta divenuto vecchio, disegnando quindi uno dei tanti cerchi che percorrono e ripercorrono diversi e uguali stadi temporali.

Non ci si può nascondere troppo, se A Casa (2012) e Casa Manuel Vieira (2013) avevano una dignità artistica fatta di rigore e coerenza, O Regresso, pur usando una grammatica pressoché identica, si stacca dalle due pellicole appena menzionate per una serie di motivi che conosciamo bene e che, per fortuna, non stufano mai pur essendo iper-utilizzati. È un incontro di ingredienti che si rifanno ad un vissuto biografico e del loro felice sposalizio sull’altare di una ruralità da dove traspira un senso archetipico, misterioso e ancestrale incastrato nella quotidianità e nella ciclicità contadina, è poesia, lineare ma profonda, che arriva fino alle radici senza dircelo (e, perdonatemi se c’entra zero, ma mi sovviene quella stupida sequenza di Sorrentino in cui una sorta di Madre Teresa di Calcutta mangia delle radici affermando che le suddette sono importanti...), e se ce lo dice, perché ce lo dice, comprendiamo come se stessimo ascoltando la serena voce di un anziano dell’inclusione che il film ci offre, l’accessibilità ad una storia che, e l’ho già ripetuto svariate volte, non è nostra pur essendolo nel nucleo fondativo, nel più piccolo atomo costituito dagli affetti e dalle reminiscenze. Questo non è tanto O Regresso, in fondo nient’altro che una goccia nell’oceano, bensì ciò che suscita e che le parole di Sebald potrebbero magnificamente descrivere così:

A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce.

(W.G. Sebald - Austerlitz, Adelphi; 2001)

venerdì 8 gennaio 2021

Olla

Dalle nebbie una figura: è una donna che con trolley a seguito si sta recando nella casa di un uomo francese conosciuto su Internet.

Ariane Labed, meravigliosa protagonista di Trigonometry (2020), protégée di Athina Rachel Tsangari e moglie di Yorgos Lanthimos da cui fu scritturata per Alps (2011) e The Lobster (2015), firma a trentacinque anni il suo cortometraggio di debutto, Olla (2019), un lavoro che, se non avessi spulciato i dettagli produttivi, avrei collocato geograficamente in un qualche Paese scandinavo per almeno due motivi: l’ironia che sardonicamente imbeve l’opera e l’attenzione alle tonalità molto pastellose di tutto l’impianto scenico. Quindi, a fronte di questo primo impatto epidermico, vi starete chiedendo se e quanto la Labed abbia subito un’influenza dai suoi due numi tutelari ellenici, e la risposta è che sicuramente ci possono essere degli agganci con l’onda greca così come si può riscontrare una contiguità con altre cinematografie tipo quella di Östlund (il nord Europa, appunto), della Kotzamani (per rimanere in Grecia) o di Seidl (che comunque resta un antesignano di Lanthimos). Insomma Ariane ha pescato un po’ di qui e un po’ di là per sagomare un corto che rientra nella consuetudine del settore: l’accortezza nel fornire segnali ottici si palesa già osservando la chioma rossa dell’attrice principale Romanna Lobach, un fuoco femminile che non può essere soffocato nella spenta geometria casalinga né tra le braccia di un tizio che sembra un Michel Houellebecq non ancora totalmente dannato e che tanto per iniziare vuole imporle un nome inventato da lui. In sostanza il senso di Olla risiede nella distanza irriducibile tra la vita che la ragazza vorrebbe e il bagno di grigia realtà che è stata costretta a farsi, e a fare alla madre paralitica.

Trattandosi di un oggetto esclusivamente narrativo (che la Labed ha scritto di suo pugno), e per di più in un contenitore ridotto, è inevitabile il portarsi appresso delle storture che nascono dalla necessità di strutturare la storia con degli input precisi. Sicché l’episodio dove Olla si prostituisce accade più per esigenze di sceneggiatura che altro, idem per il piano dinamitardo del finale che si sottomette alla regola di dover recapitare allo spettatore un prodotto fatto e compiuto. Ma vabbè, sono discorsi detti e stradetti in codesto spazio virtuale e di certo non sarà un Olla qualunque (presentato a Cannes ’19, così per dire) ad aumentare il mio generale livello di sconforto (che è una roba ancestrale e che mi illudo di alleviare guardando “bei” film, leggendo “bei” libri”, eccetera eccetera) perché in fondo, a me, Olla è un film che sta pure simpatico, cioè la scena del balletto in lingerie è di un cringe (come non odiare l’uso comune di parole proliferanti nel Web?) che diverte al pari di rendere le voci della combriccola maschile un’eco d’ovina virilità, soprattutto durante la conclusione quando riprendono a cappella, in maniera nuovamente divertente, le note di What Is Love udita poco prima in una versione transalpina proprio nella sequenza del ballo (una sequenza decisamente attenbergheriana a mio avviso). Divertimento, simpatia, ma dove siamo? All’ACR pomeridiana? Suvvia, le richieste che si fanno al cinema sono di ben altra pasta, che poi esista anche questo cinema, caruccio, ordinato, festivaliero, può andare bene, l’importante è non considerarlo un punto d’arrivo, cosa che anche chi è dietro la mdp dovrebbe tenere a mente.

mercoledì 6 gennaio 2021

The Family

Che strano, un film dalla stazza mastodontica (carissim*, qua si viaggia sulle quattro ore e quaranta, astenersi impazienti) che racconta di cose minime, praticamente microscopiche, eppure, a pensarci bene, non è poi così strano perché la lunghezza e la relativa vastità di un’esistenza interconnessa ad altre esistenze che impastano un nucleo consanguineo è fatta di eventi piccolissimi e inessenziali, un ordito di gesti quotidiani, ripetitivi e uguali a se stessi che danno fibra alla rete della vita. Jia (2015), opera prima e ad oggi ultima di Liu Shumin, è un lavoro che si concentra sulle dinamiche di una famiglia cinese le cui redini sono tenute da una coppia di settantenni che si mettono in viaggio per andare a trovare i due figli lontani (una, la maggiore e già divorziata, vive con loro). Stiamo parlando con ogni probabilità della più imponente radiografia famigliare proveniente dalla Cina che sia mai stata svolta in ambito cinemarografico, magari ci sono pellicole che in passato si sono prefissate dei target tematici simili, però The Family grazie alla sua estensione e alla triplice veduta domestica va molto in profondità al punto che, se consideriamo gli ambienti casalinghi cellule di un organismo più grande, ecco che si ha uno studio sociologico di un Paese lanciato verso il futuro ma che ha ancora uno strato tradizionale ben radicato nel proprio tessuto collettivo. Siccome Jia è passato da Venezia ’15 alcuni tra i principali siti italiani di critica (Spietati, Quinlan, CineLapsus) lo hanno recensito e ciò che all’incirca è sottolineato da tutti è l’evidenza di una messa in scena che affronta il mutamento capitalista di una nazione, verissimo e credo incontrovertibile, tuttavia, al di là di congetture economiche, quello che io ho visto e che ci affratella più di qualunque sistema reddituale è un’umanità limpida e amorevole, penso alle preoccupazioni genitoriali, al carattere di quest’ultimi (lei così dedita, lui burbero e chiuso), al desiderio di avere una proprietà immobiliare, all’oculatezza nell’usare il denaro, elementi che ritengo siano traslabili in qualsiasi famiglia occidentale e che certificano l’afflato universale del film.

Una centralità spicca, ed è squisitamente materna. Se c’è una persona che è il perno fondamentale della famiglia, non può che essere la mamma. L’apertura di Jia avviene in cucina, sarà un leitmotiv: in entrambe le visite che i coniugi effettuano la donna sale subito sul ponte di comando delle faccende di casa nonostante la presenza della figlia da una parte o della nuora dall’altra, ma quella che si potrebbe leggere a parole come invadenza, nella pratica assume i contorni di una forma di rispetto o forse di insegnamento verso i più giovani. La forza di questa gentile donnina è tale da sostituirsi, sempre con impeccabile discrezione, al ruolo del marito, spesso imbambolato di fronte alla televisione. È infatti lei che si auto-incarica di fare un certo discorsetto al figlio minore ed è sempre lei che fa da paciere in seguito ad un diverbio scoppiato tra il figlio in questione ed il padre. L’importanza che essa ha nella storia è certificata, tra le altre cose, da una sua digressione che ripercorre con dolcezza il passato relazionale del duo e dove viene introdotta la prima finestra di pura finzione (a tal proposito approfondisco nel paragrafo sotto). L’idea pre-visione di una struttura esclusivamente patriarcale della famiglia cinese con Jia si ammorbidisce non poco, all’autorità paterna, comunque percepibile, risponde una tenacia femminea che funge da deus ex machina, un moto affettivo che muove, governa, pianifica e protegge perseguendo un concetto di bene. La tenerezza è il sentimento che si diffonde dagli anziani sposi perché ne è intrisa la loro senilità, il reciproco prendersi cura (l’inversione dietro ai fornelli in un momento di difficoltà), il farsi in quattro per garantire un avvenire sereno a chi hanno vicino.

L’alveo nel quale scorre The Family è la docufiction, ad un’analisi categoriale l’impressione è che si sia più vicini alla riva documentaristica che a quella finzionale. Soprattutto nelle riprese interne il regista si adegua alle tempistiche dei suoi interpreti soffermandosi a lungo su situazioni ordinarie, il tasso di penetrazione è notevole e conferisce una cifra di verità che si accoglie con piacere, di contro in alcune scene esterne si nota una costruzione più elaborata con carrelli ascensionali e inquadrature prospettiche studiate a puntino. L’artificio si affaccia inoltre in due flashback (uno l’ho citato poco sopra) dove Shumin allestisce altrettanti quadretti semi-onirici silenziati in netto contrasto col flusso generale. Vista l’enorme espansione della pellicola le etichette di riferimento coabitano in maniera accettabile tanto che, per rimanere nelle medesime aree geografiche, si potrebbe intendere il titolo sotto esame un riflesso rovesciato di An Elephant Sitting Still (2018 – dove al contrario si aveva meno realismo e più fiction). L’unico aspetto su cui sento la necessità di esprimere un dubbio è la scelta di chiudere l’epopea con un colpo ad effetto di matrice narrativa (a posteriori, del fattaccio ci vengono dati dei segnali d’allarme con delle automobili che quasi investono i vecchietti). È un qualcosa che riconosco abbia un senso nel contesto del racconto, ma che in un qualche modo inquina la concretezza che fino a quell’istante abbiamo fronteggiato.

Per concludere, un esemplare cinematografico che al di là della bypassabile sbavatura appena menzionata si presenta come irripetibile, uno sguardo nella complessità del particolare che richiama a sé grandezze spropositate, un multi-ritratto di esseri umani che potrebbe potenzialmente essere infinito, un’Odissea di umiltà, speranza e amore.

lunedì 4 gennaio 2021

The Land of Oz

Alla terza prova nel giro di sei anni Vasilij Sigarev non mantiene quelle aspettative che era stato capace di imbastire con i due lavori precedenti, giusto o sbagliato che sia affidarsi ai propri desiderata basandosi su ciò che si era visto, in Strana Oz (2015) il processo di normalizzazione messo in pratica dal regista addomestica gli slanci immaginifici che si rintracciano timidini qua e là (colpisce realmente solo l’apparizione del galeone fantasma tra i palazzi della città), e pur non potendolo considerare un lungometraggio di routine il film vaga spaesato un po’ come la protagonista (è sempre Yana Troyanova). Dalla rocambolesca notte rappresentata, l’ultima dell’anno, giunge a noi un precipitato grottesco sufficientemente godibile ma privo di guizzi memorabili, se Volchok (2009) e Living (2012) avevano nel motore (soprattutto il primo) una cifra surrealista catalizzata dall’estetica, The Land of Oz preferisce declinare la dimensione fantastica nell’episodicità degli incontri umani che Lenka fa nel corso dell’opera. Non sembra questo un atto particolarmente fruttuoso, al netto di qualche situazione divertente un’auspicabile coesione del tutto latita oltremodo, il susseguirsi delle scenette, che sono tali, si veda la fuga dal poggiolo a causa dell’arrivo della moglie, un classico da “comiche”, potrebbe e dovrebbe dare di più allo spettatore in termini di consistenza invece l’impressione è di essere vicini a qualcosa di parecchio gracile.

La tendenza di Sigarev, che poi è la stessa di altri suoi colleghi, è quella di raccontarci una Russia inospitale abitata da bizzarri personaggi, è possibile che la lente del paradosso applicata ad ogni singolo contesto sia una cartina tornasole della contemporaneità, lo si intuisce dal secondo filone inscenato che viaggia di pari passo a quello di Lenka, i due tizi nel chiosco sono i soggetti di una conversazione sul mondo circostante che degenera in una mini-escalation di depravazioni. Stravagante sì, ma niente di più. Mi sono chiesto poi quale sia il collegamento con il celeberrimo Mago, non essendo ferratissimo sull’argomento lascio ad altri maggiormente sul pezzo il piacere di scovare eventuali affinità, io, a parte la presenza di un cagnolino, ho ravvisato soltanto la possibile somiglianza caratteriale tra le due donne, Dorothy è una ragazzina dolce e altruista (Wikipedia docet) così come lo è, all’incirca, Lenka, anzi forse la smarrita commessa (smarrita anche verso di sé, sia chiaro, l’unico gesto che compie è quello di stringersi nelle spalle) si presenta come un’entità neutra immune alle stramberie che la attorniano, isolata dalla realtà (ad un certo punto dice di non sapere come si fa a vivere), se non addirittura vittima delle peripezie narrative architettate da Sigarev, l’immotivato colpo che riceve verso il finale ne è un esempio, insomma una figura languida con la quale non si riesce ad entrare in sintonia, esatto parallelo, di nuovo, con il film stesso.

Curiosità davvero curiosa: il leit-motiv musicale di Strana Oz, cioè proprio il brano che accompagna non poche sequenze della pellicola, è una canzone di pizzica salentina chiamata Sutt’Acqua e Sutta Jentu conosciuta anche col titolo La rondinella.

sabato 2 gennaio 2021

El ruido de las estrellas me aturde

Sempre e solo giovani al centro del proprio progetto per Eduardo Williams, non ragazzi qualunque, sebbene sì, in un certo qual modo lo siano, ventenni o giù di lì che vagano, che si spostano in freddi e indifferenti contesti urbani, di loro non sappiamo mai nulla, le informazioni che riceviamo vanno estrapolate da un tessuto estremamente reale, in El ruido de las estrellas me aturde (2012) il massimo che riusciamo a carpire è che alcuni di essi vivono insieme in una casa molto disordinata, se al regista argentino premeva dare un quadro dello smarrimento esistenziale dei suoi coetanei, con i lavori pre-The Human Surge (2016) credo ci sia riuscito egregiamente, dei tre visionati dal sottoscritto Tan atentos (2011) rimane quello dal tono minore, Pude ver un puma (2011) la vetta mentre il corto sotto esame il più criptico del lotto. Williams si incunea come suo solito nel continuo bighellonare del gruppetto, ascolta discorsi astratti e indipendenti, tipo la riflessione sul peso delle blatte morte sulla Terra o il fatto che alcuni alberi rilascino una particolare sostanza acida, un filo conduttore razionale e narrativo non è presente, il che, per quanto mi riguarda, è da accogliere con sobria felicità, è qui che entra in gioco la levatura di un autore seppur in erba, Teddy ha trovato un suo taglio formale che gli permette di portare avanti un personale discorso sul cinema, a prescindere da ciò che riprende.

Parlo di alta riconoscibilità, mi basterebbero cinque minuti ormai per capire se sto guardando un film di Williams oppure no, e questo è un attributo che alcuni registi non raggiungono nemmeno dopo un’intera carriera. Su El ruido... potrei citare la scena finale ai piedi del tronco peloso con successivo super zoom su una formica come sequenza precorritrice del “famoso” formicaio ne El auge del humano, a testimonianza di una continuità che si ripercuote anche nelle sue manifestazioni ridotte. Il mio invito è però di non soffermarsi sul dettaglio (per rovescio la primissima ripresa del mare dall’alto si disallinea dalle usuali vedute del porteño) ma di allargare lo sguardo per cogliere la totalità e la complessità di un’opera in stretto dialogo con la filmografia a cui appartiene. Il rumore delle stelle ammetto di non averlo udito, lo stordimento, invece, si è fatto sentire eccome.