martedì 26 gennaio 2021

Edmond

Individuiamo subito un possibile predecessore: Oh Willy... (2012) è, tra le non poche visioni passate da queste parti, il cortometraggio animato più vicino ad Edmond (2015), e la quasi totale sovrapponibilità si registra nel campo realizzativo perché anche per l’olandese Nina Gantz la magia dello stop-motion si applica ad una costruzione della scena che utilizza materiali come la lana ed il feltro per dare vita ad un quadro che non riesco ad aggettivare adeguatamente se non ricorrendo a termini del tipo “delicato”, “nostalgico”, “pacato” e così via. È, al solito, un bel vedere perché si respira un’aria di artigianalità che, al pari di tutti gli altri esemplari equipollenti per i quali ho sempre elargito le medesime lodi, riempie delle zone spettatoriali non colmabili da altre proiezioni, nemmeno dall’animazione più classica, metodo a cui Gantz si rifà soltanto per disegnare gli occhi e la bocca dei personaggi, una scelta evidentemente tesa ad amplificare la loro espressività (e non so se davvero necessaria, ripensando ad Oh Willy... dove non c’era l’uso del 2D la resa facciale dei pupazzi trasmetteva comunque le emozioni desiderate). Per il resto l’applicazione del passo uno dà origine al consueto (e amabile) presepe di burattini con l’anima dove i dettagli, anche se inessenziali, contribuiscono ad irradiare una piccola, impercettibile, meraviglia.

Una regola non scritta vuole che i propositi trattati dagli animated shorts abbiano molto spesso un substrato esistenziale, non si tratta di velleità piuttosto la consapevolezza che, forse, attraverso un taglio artistico sconfinante nel fantastico è più facile, e paradossalmente più credibile, parlare di cose importanti come vivere, morire, amare e molti altri argomenti che potete immaginare. Edmond non si sottrae ad una tale corrente tematica perché anche qui la regista nata ad Amsterdam nel 1987 si occupa di una solitudine su cui cuce però una storia non convenzionale, il pregio del corto, oltre alla professionalità sopramenzionata, sta proprio nel passaggio informativo (leggi: empatico, con degli ovvi limiti del caso, chiaro) verso chi assiste: Edmond è una persona malata, è un cannibale, eppure spiccano maggiormente la sua fragilità e la sua malinconia piuttosto che la deviazione affliggente. L’ironia sfuma il dramma nell’agrodolce, il flashback, che poi è il corpo dell’opera, diventa un album di fotografie da gustare dove la mano menomata della madre, l’istinto carnale (che non rima con sessuale) diviso tra l’amichetta e l’amico ed il macabro apice antropofago nel grembo materno, conducono ad un approdo amniotico-funebre che corrisponde alla scomparsa eterna, Edmond si inabissa, si libera, si dissolve nella dolcezza di un addio.

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