lunedì 20 luglio 2020

Trigonometry

Take me, contain me in your womb

Don’t give me room to breathe
Suffocate me, reinstate me in you
I am falling apart, I am falling apart tonight
So just imprison me and shower me with light

(Empathy Test – Incubation Song)


Trigonometry (2020) è una serie andata in onda sul canale BBC Two dal 15 marzo al 26 aprile dell’anno in corso che ha visto coinvolta in prima persona la regista e produttrice greca madre della fu new wave ellenica Athina Rachel Tsangari (è lei a dirigere i primi cinque episodi mentre gli ultimi tre sono stati affidati ad una sua collega di nome Stella Corradi) la quale Tsangari, contattata da Tessa Ross e Juliette Howell, due membri del team produttivo, si è incuriosita al progetto che ha definitivamente preso forma e sostanza dopo lincontro avvenuto a Londra con i due sceneggiatori Duncan Macmillan e Effie Woods. Chi nell’ultimo decennio ha seguito i film della regista greca sa bene che si tratta di un’autrice la cui visione di cinema non si può certo definire ordinaria, magari discutibile (ad esempio il lungometraggio Chevalier [2015] non aveva particolarmente esaltato chi scrive), ma ordinaria proprio no, pertanto era pronosticabile pensare al fatto che per un oggetto catodico, sebbene partorito in un periodo dove le serie sono ormai un mezzo artistico di prim’ordine, il suo stile (qualunque cosa voglia dire questa parola) si facesse più potabile per il pubblico. E sì, è una Tsangari non riconoscibile ma del resto fare paragoni con il passato è da babbei, troppo diversi gli intenti di Trigonometry e troppo diverso tutto: qui l’elemento fondante è dato da uno script torrenziale ricolmo di dialoghi pensati in un contesto che oscilla tra l’intimità casalinga e l’impeto metropolitano londinese. Non c’era spazio dunque per le traiettorie sghembe dagli echi lanthimosiani, ed anche se ci fossero state sarebbero risultate un vezzo inessenziale, quindi credo che calibrare il proprio metodo ad un target lontano dal solito sia stata una mossa intelligente da parte di Athina (anche perché forse non aveva altra scelta) e di riflesso dalla Corradi, e nonostante il sottoscritto di solito non ha e non dà confidenza a lavori del genere, non attribuirgli delle qualità sarebbe un immeritato dispetto.

La storia è la più basica che si possa immaginare: lui, lei e l’altra. Stop. Ma la scrittura che sorregge il tutto è valida, se non, a tratti, brillante, al punto che in una narrazione sotto certi aspetti perfino prevedibile (è la solita legge non scritta: un rapporto sentimentale è sempre fatto di step codificati) sa rivelarsi vera, freschissima, come se assistessimo ad una vicenda che si sta verificando fuori dal nostro pianerottolo di casa. In un contesto dove è inevitabile che trionfi la finzione, dove ogni aspetto è ragionato e misurato al millimetro, è comunque piacevole riscontrare l’assenza di un’ingessatura tipica del settore, i meccanismi che costruiscono le varie situazioni sono oliati da uno spirito che si direbbe genuino, un mood cercato e trovato dal gruppo realizzativo. La spontaneità che ci viene restituita fa sì che il percorso di innamoramento del trio sia un apprezzabile andirivieni emotivo che sa rendersi credibile pur toccando il paradosso, ad esempio potrebbe sembrare assurdo che durante una luna di miele i due sposini pensino (entrambi!) ad un’altra persona, per di più la stessa, ma nell’ecosistema di Trigonometry questo è possibile grazie alla tessitura dei legami umani, alla moderata esibizione dei sentimenti condita da parentesi di acuta ilarità e da dettagli che dicono abbastanza senza esagerare (il passato dei tre è fatto di cicatrici che portano sulla pelle). L’impressione è che il casino interiore ubicato nei componenti di questo triangolo e la relativa, complicata, accettazione del loro status sia la parte maggiormente coinvolgente per chi guarda, dal quinto episodio in poi (ovvero dall’avvicendamento dietro la mdp) con l’approfondimento degli altri pianetini del sistema solare della serie si perde un po’ di quella presa fino ad allora piuttosto stretta, è come se l’accumulo passionale, che ha l’apice nella prima notte di nozze, si sgonfi un poco con gli eventi famigliari successivi. Non è una ferita immedicabile perché comunque, le cose, arrivano ad un finale significativo (c’è un bel testacoda morte/nascita) anche per mezzo di una regia coerente che traduce in un realismo urbano/interiore il dispiegarsi della trama. Siamo in un territorio di camera a mano, di stretti primi piani mirati a cogliere anche il più piccolo luccichio degli occhi e di trascinanti piani sequenza (il party post-matrimonio). C’è vita che pulsa in Trigonometry, almeno dalla prima alla quinta puntata, e non è affatto male sentire questo battito ricolmo di delusioni e speranze.

Rispolverate gli appunti del liceo: la trigonometria è una branca della matematica che ci permette di calcolare i valori dei lati e degli angoli di un triangolo. Qui viene da pensare che il vertice in alto è rappresentato da Ray (del resto il suo nome si sposa con la luminosità che riesce a diffondere) mentre i due angoli alla base sono Gemma e Kieran. Difficile affermare che tipo di amore sia il loro perché a tratti non sembrano esclusivamente tre amanti, gli autori sono stati in grado di creare un ambiente affettivo dove la dimensione erotica si fa da parte, a volte il triangolo si rovescia e pare quasi un amore genitoriale quello della coppia nei confronti della giovane ragazza francese, altre volte diventa equilatero a testimonianza di un equilibrio dove non c’è chi dà di più o chi dà di meno dentro al ménage, sopravvive in sostanza una trasmissione di bene che è un ricircolo perpetuo di aria ossigenante, nessuno può privarsene e ciò, in qualche modo, contribuisce ad una fidelizzazione verso il trio al punto che tale bene, se vi va, sa travalicare lo schermo trasformando il triangolo in un altro disegno geometrico dove il quarto lato siamo noi. Ad ogni modo, assodata la figura piana principale, vi sono altre connessioni che originano un poligono decisamente elaborato in cui si innestano altri sentimenti: è il caso di Moira, la migliore amica di Ray, divisa tra l’amicizia e la gelosia, o la presenza (oltre che l’assenza) di padri e madri che vorrebbero il meglio per i loro figli e che faticano a comprendere la fluidità dell’oggi. Il mix di nessi che stratifica il microcosmo di Trigonometry è un valore prezioso che offre l’opportunità di vedere meglio la superficie prismatica di una realtà contemporanea dove le maglie degli impostati vincoli relazionali possono allentarsi per rendersi inclusive, non senza problematiche, e non senza nuovi turbamenti e prospettive.

Non parlo mai di attorialità, di base perché non ne ho le competenze e secondariamente perché ritengo che il cinema non abbia bisogno di attori, però, visto che Trigonometry, al pari di tutte le altre serie, è più letteratura che cinema, è obbligatorio fare un plauso ai personaggi inventati da Macmillan-Woods e da chi li ha interpretati. Sopra ad ogni cosa si erge come una benedizione Ariane Labed, lei, che esordì nell’Attenberg (2010) della Tsangari per poi presenziare in altri film di Lanthimos (che ha sposato nella vita reale), è un essere di luce azzurra che plana dentro ad un disordinato appartamento britannico, è, di per sé, una portatrice di geometrie spezzate (il sogno da nuotatrice artistica interrotto da un infortunio), è una rivoluzione che la Labed fa sua in un modo fantastico dando a Ray una forza e una fragilità che legittimano l’innamoramento immediato degli altri due, è un ritratto muliebre di una delicatezza disarmante che entra sottopelle, che se si potesse la si vorrebbe abbracciare ogni due secondi. Un gradino sotto c’è la performance di Thalissa Teixeira che per la sua Gemma sfodera tutta la passione, la fisicità ed il calore latino che possiede, è una donna di carattere differente da Ray ma anche per lei, seppur in maniera diversa, non viene meno un’energia che edifica un feeling concreto con chi guarda. Chiude il trio Gary Carr, indubbiamente bravo a destreggiarsi in un ruolo maschile a sua volta punteggiato da delle debolezze ma vicino a due stelle così brillanti non poteva che uscirne onorevolmente sconfitto.

Se è vero, ed è vero, che Netflix ha il monopolio globale delle serie tv e che le altre piattaforme in competizione tentano di proporre a raffica prodotti sempre nuovi e appetibili per il grande pubblico, sappiate che ce n’è uno di questi prodotti dal budget limitato e dalla trama “normale” (perlomeno più normale rispetto alle stancanti e inutili contorsioni di certi esemplari del recinto seriale, eh sì Dark, sto parlando di te) che senza strombazzamenti sa suscitare ciò che in fondo si chiede ad un oggetto che si appropria del nostro prezioso tempo: un trasporto (la voglia di vivere, di provare, di essere travolti, di sbagliare), uno slancio (la necessità di trovare un posto nel mondo e nel cuore di qualcun altro), in una parola: delle emozioni, e tanto basta.

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