sabato 29 marzo 2008

L'Uno per l'Altra - Il pozzo

Appena Uno uscì di casa Altra corse in bagno, si sedette sulla tazza e aprì la scatola del test.
Anche se non era la prima volta, aveva paura, non si sarebbe sentita pronta per un evento del genere; spiegò le istruzioni, dentro c’erano parole difficili come gonadotropina corionica o trofoblasto, non le importava molto, sapeva bene come funzionava.
Si sfilò le mutandine e posizionò il bastoncino sotto il getto di urina mentre si guardava le unghie dei piedi, sarebbe dovuta passare dall’estetista un giorno di questi.
Quando ebbe finito non sbirciò immediatamente il risultato ma posò il bastoncino sulla lavatrice, avrebbe controllato dopo un buon caffè accompagnato da una sigaretta. Prima di uscire dal bagno si mise di profilo davanti allo specchio e tirò su la vestaglia trasparente fino al seno, sembrava tutto in ordine.
Prima di accendersi una Camel light mise su la caffettiera, poi si stese sul divano sfogliando l’ultimo numero di Vanity Fair. Neanche il tempo di arrivare a pagina dieci, si addormentò.
Sognò di un pozzo dal quale provenivano dei lamenti, e lei scrutava nel buio alla disperata ricerca di un qualcosa che le sfuggiva, ma, nella dimensione onirica, allo stesso tempo le apparteneva, allora cominciò a tirare la corda alla cui estremità era legato un secchio, e più tirava e più il secchio si faceva pesante, quando ormai era giunto in superficie, il caffè che ribolliva sul fuoco la svegliò di soprassalto.
Finito il caffè decise che era giunto il momento, si fece coraggio ed entrò in bagno.
Il bastoncino la attendeva posato sulla lavatrice.
Si ricordò anni fa un situazione del genere, in cui Uno, che ancora non era impotente, aspettava impazientemente il risultato del test camminando nervosamente per il corridoio.
Altri tempi.
Adesso Altra rischiava di avere un bimbo in grembo, figlio di una qualche ombra che era passata nel suo letto. Provò una tristezza immensa, cosa gli avrebbe detto da grande? Tuo padre è stato ucciso da quel signore che vive nella tua stessa casa, che mangia al tuo stesso tavolo, che dorme insieme alla donna che ti ha partorito. No, aveva ancora un cuore da qualche parte, avrebbe abortito.
Prese il bastoncino, sopra c’era una linea blu.

venerdì 28 marzo 2008

Appuntamento con il destino

L’inizio è terrificante: mai visto un Dylan meno Dylan di questo. Quando Johanna, la cliente di turno, espone il suo caso, non solo il Nostro accetta subito, ma, addirittura, si precipita immediatamente nel negozio di giocattoli, luogo del presunto attentato.
Roba da pazzi.
Dov’è quel Dylan scetticone che ci ha accompagnato per tutti questi anni? Mignacco avrebbe potuto salvarsi in corner tirando fuori il quinto senso e mezzo, invece niente, di sicuro Dylan quando smetterà di fare l’indagatore dell’incubo sarà un buon artificiere.
Proseguendo le cose non migliorano molto, le premonizioni sulle vite future delle vittime si rifanno tali e quali a quelle di Attraverso lo specchio (per citarne uno, nonché il primo), qui però scatta un discorso importante, se si critica gli ultimi sceneggiatori di Dyd lo si fa perché li si accusa di un certo snaturamento del personaggio, in questo caso, in cui viene riproposta una carrellata sulle vite di alcune persone che “sa” molto di Dylan old-style, si potrebbe avere di che gioire, ma sinceramente sono stufo di queste scopiazzature e quello che chiedo è innovazione con una strizzatine d’occhio al passato, Il feroce Takkur di Medda è l’esempio di ciò che desidero.

Superate le prime cinquanta pagine in cui Dylan si diletta a disinnescare bombe al plastico, la storia si fa un pelo più avvincente ed ha i suoi buoni momenti; la predizione della morte del Nostro è, però, un po’ forzata: per quale motivo l’orologio è fermo da un giorno? E soprattutto perché Johanna prende un treno nella stessa stazione e sullo stesso binario di quelli dell’attentato? Io non mi sarei avvicinato per almeno un annetto buono! Comunque vedere l’indagatore dell’incubo morire fa sempre un certo effetto, anche perché mette curiosità nel lettore per vedere come l’autore esce fuori dall’impiccio. Chiaverotti in La sfida aveva risolto il tutto con un semplice videogioco, sinceramente questa spiegazione non mi era garbata, anche se Groucho suicida mi fece rabbrividire, in Appuntamento con il destino Mignacco usa la Morte come chiave della storia, una Morte burlona e bastarda che vuole prendersi Dylan prima del previsto, ed anche ironica quando dice a Johanna che probabilmente è la donna che più lo ha amato e che lui non lo saprà mai, sì vabbè adesso non esageriamo, Lillie e Bree si staranno rivoltando nella tomba.
Copertina e disegni sulla soglia dell'accettabilità.
Amen.

giovedì 27 marzo 2008

Cinquecento sogni

Della macchina non me ne frega un cazzo, la canzone mi piace per la sua delicatezza, come una piuma che dondola nell'aria.

mercoledì 26 marzo 2008

Le mie notti sono più belle dei vostri giorni

(S)conosciuto anche come Le mie notti sono migliori dei vostri giorni, è l’ottavo film di Andrzej Zulawski girato otto anni dopo Possession (1981) che tanto mi aveva impressionato, per questo motivo sono partito con i migliori auspici nel vedere lmnspbdvg, anche perchè la co-protagonista è Sophie Marceau la quale non risparmia nudi integrali che mandano in sollucchero il pubblico maschile, sia quello virtuale (che siamo noi) che quello del film (virtuale anch’esso, in fondo), e sì perché la Marceau di mestiere fa l’assistente di un mago in un casinò. Il loro numero consiste nell’indurre la ragazza in uno stato di trance in cui inizia a sputtanare i presenti in sala svelando gli altarini più segreti, con qualche mammella che sbuca ogni tanto. Tutto bene finchè la Marceu non conosce Luca, un tipo sgangherato, programmatore di computer e malato terminale, che parla per associazione di idee, gira con le scarpe in mano e si ostina ad usare due granchi come reggiseno per la bella Sophie.

Dio li fa e poi li accoppia si dice, proverbio decisamente adeguato alla situazione perché anche alla Marceu manca qualche lunedì, entrambi hanno avuto un’infanzia complicata, segnata da un rapporto difficile con i genitori che inevitabilmente si ripercuote sulla loro vita adulta, insomma la solita zuppa psicologica. Il tutto è appesantito da dialoghi sghembi, senza capo né coda, infarciti di termini fuori luogo che fanno annoiare di brutto lo spettatore.
La regia di Zulawski, che si affida spesso ad inquadrature dal basso verso l’alto per enfatizzare la scena, è naif, dotta, quasi saccente, a tratti incomprensibile. Ma se in Possession riusciva ad essere accattivante, qui trasmette solo noia, tanto che è dura arrivare in fondo.

In sintesi: regia dinamica, buona prova recitativa e ottimo doppiaggio che avrà fatto i salti mortali per mantenere i dialoghi in rima dal francese, di contro, però, si assiste ad una rappresentazione del niente: nichilismo a manetta.
Non demordo però, un altro film di questo regista me lo voglio vedere, sarà la prova del nove.

martedì 25 marzo 2008

Avere ventuno anni

Avere ventuno anni e sentirli pesare anche se sono pochi.
Avere ventuno anni e un contratto bimestrale in scadenza.
Avere ventuno anni, parecchi esami da recuperare, e poca, pochissima voglia di studiare.
Avere ventuno anni e addormentarsi sempre con malinconia e tristezza.
Avere ventuno anni e aspettare sempre, un autobus, un messaggio, una persona.
Avere ventuno anni e pochi amici veri.
Avere ventuno anni e vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto.

Avere ventuno anni e goderseli tutti.
Avere ventuno anni e la speranza di una chiamata estiva.
Avere ventuno anni e la voglia di rimboccarsi le maniche.
Avere ventuno anni e rassegnarsi a convivere con le menate varie.
Avere ventuno anni e mettersi a camminare a testa alta.
Avere ventuno anni e convincersi che è sempre meglio pochi ma buoni.
Avere ventuno anni e vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, ma con un buon negroni per riempirlo.

Avere ventuno anni, oggi.

giovedì 20 marzo 2008

L'ultima casa a sinistra

Brutto.
Grezzo.
Rozzo.
Mal girato, e mal recitato.
E allora perché è considerato un cult?
Sinceramente me lo chiedo anche io, e mi rispondo che bisognava essere nel ’72 per giudicarlo, adesso è troppo facile denigrarlo evidenziandone i limiti; in fondo di stupri, piselli strappati a morsi, martellate sui denti, e motoseghe che scintillano sulla carne ne abbiamo visti fin troppi, trentasei anni fa forse un po’ meno. Però il film è così grossolano che mi stupisco di come possa essere piaciuto data una regia sconclusionata, dialoghi ridicoli (a parte quelli tra i due poliziotti), musiche country in sottofondo che stonano con le immagine sullo schermo, e la ragione per cui i delinquenti entrano nella casa dei genitori di una delle ragazze che mi è rimasta ignota.
Salvo solo l’uccisione delle due giovani, il resto è poca roba, poi probabilmente non me ne capirò niente di cinema, ma questo è quanto.

Ho notato una somiglianza impressionante, soprattutto nella bocca, tra David Hess ed Enrique Balbontin. Cioè, mica pizza e fichi sti due.

giovedì 13 marzo 2008

Tutte le strade portano oltre il fondo

Ho scoperto da poco che shynystat, oltre a conteggiare il numero dei visitatori, mi offre altre interessanti informazioni. È curioso che la parola chiave che ha fatto giungere più persone quaggiù nei mesi di febbraio-marzo sia “upyr”, ovvero il vampiro protagonista dell’ultimo Dylan Dog, un po’ meno curioso è che in questa classifica via siano ai primi posti Alice nel paese delle porno meraviglie e Non stop-sempre buio in sala, la cosa divertente è che ci sono persone che sono arrivate qua scrivendo parole del tipo: ”foto bistecche”, “fammelo toccare”, ”ghiaccioli”(?), “alice nel paese dell’ano”(questo mi sa che ha fatto confusione), “caffè con sangue”, “etichette camper delle micromachines”, ”Gesù Zombie”, “poesia in rima con Martina”, ed infine un “allungatore pene”, mi spiace amico se qua non hai trovato informazioni a riguardo, davvero. Ma la cosa che mi ha stupito di più è la geolocalizzazione, ossia la visualizzazione geografica degli utenti che accedono qui, a parte che oggi ho ricevuto una visita da un abitante di Nicosia e non so quanto possa averci capito, a parte i visitatori stranieri appunto, c’è un fatto che mi incuriosisce molto, ovvero le visite continue e costanti da parte di qualcuno che abita a Roma, non so se sia una persona o più, in ogni caso grazie, chiunque tu sia.

lunedì 10 marzo 2008

Dolls

Se c’è una cosa che adoro del cinema orientale è il suo raccontare storie impossibili con una tale maestria da renderle credibili, mi viene subito in mente la trilogia sulla vendetta di Park Chan- wook, oppureil terzo episodio della serie Three (2004), per non parlare di quel capolavoro che è Ferro 3 (2004). In Dolls “la storia impossibile” assume i contorni di una favola, e i protagonisti di questa favola sono i “vagabondi legati”, una giovane coppia che vaga in un Giappone fuori dal tempo unita da una corda rossa. Nel loro cammino sfiorano altre persone con altre storie impossibili, altre favole silenziose, ognuno ha qualcosa da raccontare come le bambole (marionette) del titolo.

Guardare Dolls è come leggere una poesia, non sempre se ne capisce il senso alla prima lettura. Kitano lascia parlare le immagini, con piani sequenza lunghissimi e privi dialoghi, ma di una potenza visiva, fatta di alberi colorati o colline innevate, che quasi stordisce. Ecco un’altra cosa che mi piace del cinema orientale: l’importanza che si dà alle immagini.
Quando la protagonista viene a conoscenza del matrimonio deciso tra le famiglia del suo ragazzo e quella di una giovane rampolla, cade nel baratro della follia che la porterà in uno stato catatonico in cui trascinerà anche il suo amato dopo essere scappato d’innanzi l’altare, tutto questo è rappresentato da due scene: la prima si sofferma su una farfalla schiacciata dalla ruota di un auto, e la seconda, invece, riguarda una piccola pallina con la quale la fidanzata pazza giocherella, una volta schiacciata per errore, la giovane coppia stazionerà per un tempo indeterminato dentro la loro auto, per poi mettersi in viaggio legati dalla corda rossa. La pallina e la farfalla sono la metafora della perdita dell’armonia, sia psichica che sentimentale; da quel momento in poi la coppia si trascinerà in silenzio per le strade di chissà dove.

È la forza dei simboli che ricorre spesso nelle opere di quei paesi, in Lady Vendetta (2003), per esempio, il pedofilo, in un sogno, ha il corpo di un cane, oppure in Marebito (2004) il cieco vive nel buio delle fogne e paradossalmente riesce a vedere più delle persone “normali“.
Quando i vagabondi legati sfiorano altre persone parte una digressione sulle loro vite: anche loro sono “bambole” governate da una mano invisibile, c’è una donna che aspetta su una panchina da anni e anni, ogni sabato, il suo fidanzato che le aveva assicurato di ritornare molto tempo fa, c’è il boss della yakuza, freddato da un sicario, (richiamo a Brother, 2000) che aveva trovato il coraggio di tornare dalla sua amata che lo aspettava ogni sabato , c’è poi la pop-star che possiede alcuni ammiratori accaniti ma il suo splendido viso viene deturpato da un incidente automobilistico che la isola dal resto del mondo, tanto da voler parlare solo con un suo fans cieco che verrà ucciso da uno degli ammiratori più fanatici.

Il teatrino delle bambole, che in fondo è la vita, non risparmia nessuno, ed una delle scene finali è così bella che metto una foto.
Una coppia legata, ma sul precipizio.
È la forza dei simboli e delle immagini di cui parlavo prima, non c’è bisogno di parole, basta guardare.

sabato 8 marzo 2008

Il romantico


"Ti manco?"
"Se guardiamo la stessa luna non siamo poi così lontani."

giovedì 6 marzo 2008

Il Palazzo - Quarto piano

Aldo e Martina credevano che ci fosse qualcosa oltre all’amore fisico, qualcosa che li fondesse in unico corpo, nella totalità assoluta. Erano schifati dal mondo e dalle persone che vi abitavano, odiavano i vicini , soprattutto quelli del quinto piano, solo loro potevano affermare con sicurezza di essere davvero innamorati, e per dimostrarlo decisero di mangiarsi a vicenda.
La morte e l’amore che si amalgamano, per costruire un essere definitivo, libero dalla società egoista, e dall’ipocrisia umana.
Si misero a letto nudi, e iniziarono a nutrirsi l’uno del corpo dell’altra, Aldo cominciò dai piedi di Martina, mentre lei partì dalla sua spalla. Poi lui, a cui ormai spuntavano le scapole macchiate di sangue, proseguì su fino alle cosce di lei, affondando i denti nella carne arrivando a sfiorare il femore. Mentre si baciavano i loro denti strappavano le labbra, e le loro unghie penetravano sotto la pelle fino alle ossa. Quando ormai i corpi erano irriconoscibili dai morsi, si abbracciarono sul letto inzuppato di sangue.
Morirono così, insieme, lentamente, l’uno nell’altra.

martedì 4 marzo 2008

Dialogo sopra i minimi sistemi del mondo

Matteo e Giacomo sono alla finestra.

“Vedi quella tipa lì? Secondo me è una di quelle che gli puzza, ma di brutto proprio!”
“Sei proprio un pivello Matte, a tutte le tipe puzza, non a qualcuna sì e a qualcun’altra no. Guardati meno pornazzi che è meglio.”
“Ma senti chi parla, c’hai i calli nelle mani te!”
“Forse perché tocco più passere di quante tu possa immaginare...”
“Ecco bravo, è quì che volevo arrivare, ci sono tipe che gli puzza anche se non gliela sgrilletti, cioè loro vanno a fare la spesa e gli puzza, vanno dall’estetista e gli puzza, fanno shopping e gli puzza, si fanno il bagno e sai che succede?”
“Apparte che si dice “le” puzza, non “gli” puzza, comunque no, non lo so...”
“Che gli puzza ancora! Guarda che è una cosa tremenda, un mio amico era lì che ce l’aveva in mano, quando la tipa ha aperto le gambe, ufffff…scappavano anche i cani dal tanfo…sono situazioni brutte…”
“Ma sono cazzate, ti credi che tu ce l’abbia profumato? Non ti immagini neanche quante tipe mentre te lo succhiavano pensavano: speriamo che venga, speriamo che venga…”
“Come fai ad essere così informato? Oh scusa, mi ero scordato di tua madre! Gran bella vacca tua madre. Secondo me lei è la classica tipa che gli puzza, e poi vecchia com’è c’avrà le ragnatele là sotto, che tuo padre ci deve andare con un decespugliatore. Sì tua madre deve essere una gran lurida.”
Giacomo guarda giù nella strada e non risponde, ha visto qualcosa.
“Ehi Matte, quella non è tua madre?”
“Sei un cazzone, 'sti giochini li facevo all’asilo.”
“No, no, guarda bene, ti dico che è lei…laggiù dietro la macchina rossa…”
“Cazzo sì, sembra lei…”
“Da quando in qua tuo padre porta i capelli così lunghi?”
“Mio padre è calvo.”
“Da quando in qua tuo padre gira con una TT?”
“Mio padre ha una Peugeot…”
I due rimangono in silenzio osservando l’Audi sparire oltre l’angolo della strada.
“Che mondo di merda che è questo…”
“Dai Matte non ci pensare, quando la leccherai ad una tipa che ha appena fatto il bagno al mare capirai che è davvero un mondo di merda.”

lunedì 3 marzo 2008

Fiumi di parole

Scrivo molto in questo periodo, male come al solito, ma scrivo.
Ho anche buttato giù una poesia in rima, con una metrica da far rivoltare Dante nella tomba, però l'ho scritta, e ne vado fiero.

domenica 2 marzo 2008

La furia dell'upyr

Non sono un critico, non ho la minima idea di come si scriva un fumetto, anzi direi che non ho la minima idea di come si scriva in generale, ed è per questo che ogni mio giudizio, sia esso su di un giornalino, un film, o una canzone, è un giudizio “di pancia”, ed il mio istinto mi suggerisce che Lafuria dell’upyr è un albo povero, purtroppo.
L’errore di fondo di Ruju è, a mio avviso, quello di adattare Dylan alla storia, e non il contrario.
Ho idea che se al suo posto ci fosse stato Harlan Draka o Martin Hel non sarebbe cambiato nulla, e cosa c’è di peggio che sminuire il “valore personaggio” del protagonista di una testata?

Uno dei dibattiti che ha coinvolto la maggior parte dei lettori di Dylan riguarda il mutamento della serie nel corso degli anni, affermazioni del tipo “le storie di una volta erano meglio”, “quando c’era Sclavi era un’altra cosa”, sono all’ordine del giorno nei forum sparsi per la rete; lo stesso Sclavi, in una lettera pubblicata nella posta del ventennale, affronta l’argomento sostenendo che è normale un cambiamento in venti anni di pubblicazione, d’altronde anche una persona “vera”, in un lasso di tempo così vasto, cambierà modi di pensare, di sentire, di comprendere.
Giustissimo, per carità.
Ma il Dylan di questa storia non è più il Dylan del passato, lo so che dicendo così entro in un circolo vizioso in cui si ripetono sempre le stesse cose, ma è la triste verità. Qui non siamo in presenza di un cambiamento, ma di uno stravolgimento.
Groucho “vive” in questa storia solo per tre vignette, di cui una si vede solo il suo baloon, pessima idea questa, perché Groucho, nelle trasferte dylaniane, offre sempre situazioni comiche divertenti, probabilmente però il suo impiego in queste location non è semplice, e Ruju ha pensato bene di liquidarlo subito; dunque l’ironia è praticamente assente, Dylan stesso, sembra un bacchettone che alla fine spara la frase storica a Sonja.
L’Upyr dal cuore d’oro, affetto da osteomorfosi (è una mania questa), è credibile quanto gli abitanti ucraini che vengono rappresentati, unica nota positiva è il flashback dell’infanzia di Sonja, disegnato alla grande da Stano.

Poi Ruju deve essersi accorto che stava scrivendo un Dylan Dog e quindi ha infilato un bell’esercito di zombies che mi hanno ricordato molto quelli di Concorrenza sleale.
Finale con qualche sparo, ma a Ruju resta il colpo in canna.