Le acque sotterranee
svedesi si stanno muovendo: da qualche tempo, lassù, c’è
un movimento, non ancora ufficialmente riconosciuto, che sta
proponendo un cinema degno di nota. Certo, per adesso nulla di
davvero eclatante, ma le idee esistono e in futuro c’è da
voltare lo sguardo verso la penisola scandinava. I registi sono
giovani e tutti sostenuti dalla Fasad, casa di produzione con sede a
Stoccolma, che ha finanziato l’ultimo film di Ganslandt Blondie
(2012), quello precedente, The Ape (2009), ma anche il coevo
Burrowing progenie di quel Falkenberg Farewell (2006) che può
essere considerato come l’inizio di tutto. A questi titoli si deve
aggiungere Avalon (2011), pellicola diretta ancora una volta da un
esordiente, Axel Petersén, che ha in comune con le opere
sopraelencate lo stesso approccio realistico, una messa in scena
cablata sui corpi delle persone, un pedinamento a strettissimo
contatto con gli attori: la mdp sbuffa sul loro collo, li aggira, li
avvolge e li incastra in una rappresentazione che comunque non
disdegna aperture paesaggistiche (sempre camera-car e via di prati
verdeggianti) in una zona geografica, siamo a Båstad, che
sembra una meraviglia.
Invece ci si allontana
per quanto riguarda lo strato fondante dell’opera che non è
più un’esplorazione esistenziale bensì uno sguardo ad
una precisa classe sociale alle prese con i suoi fantasmi. Il ceto
preso in esame è di livello medio-alto, diciamo parecchio
benestante, ma come insegna il proverbio i soldi non fanno la
felicità così vediamo Janne, il protagonista, parecchio
corrucciato anche quando le cose non sono ancora precipitate, si
tratta più che altro di sensazioni che ben si sprigionano dal
film: sia Janne che la sorella per non parlare del socio Klas, vivono
in un mondo di plastica, sono persone di plastica: ad un’età
che li dovrebbe vedere impegnati a far la coda in posta per ritirare
la pensione, si preoccupano invece di locali (l’Avalon del titolo)
opening party esclusivi, divanetti e superalcolici.
Personalmente ritengo che sotto questo punto di vista il film faccia
agevolmente il suo dovere immortalando non senza sarcasmo una
generazione briatoresca dalle narici impolverate.
La sola radiografia
dell’alta società svedese non avrebbe potuto tenere in piedi
i tempi del lungometraggio, così Petersén si muove per
antitesi ponendo sulla strada, o meglio, sulla retromarcia di Janne,
un uomo che è la sua nemesi, un giovane poveretto.
L’operazione è adibita a provocare un cortocircuito interno
nell’animo di Janne e di conseguenza a far spiccare l’elevato
grado di inumanità che, come si vedrà, risiede nel suo
cuore. Però le intenzioni si scontrano con uno srotolamento
narrativo che non convince mica tanto, ci sono aspetti non
approfonditi (uno: come fa la fidanzata a capire chi è il
responsabile dell’omicidio?) ed altri che si barcamenano tra
l’enigmatico ed il superfluo (un altro: la sorella… il quadro? I
palpeggiamenti nel bagno?; un altro ancora: Klas che aggredisce il
tizio fuori dalla discoteca?), piccolezze la cui somma algebrica
lascia l’idea che il tutto non sia stato impaginato a dovere.
Petersén sa far
arrivare l’argomento azzeccando i punti salienti del suo discorso
(la scena madre del party sintetizza perfettamente la fascia di
popolazione presa in esame), ciò che deve migliorare è
l’organicità complessiva, rifinire i bordi, appiattire le
magagne e stuccare i buchi.
Gli stessi suggerimenti
valgono anche per gli altri autori di questa combriccola, con un po’
di esperienza sulle spalle sapranno farci divertire, e non poco.