I fatti parlano chiaro: dal 1996, anno in cui si presenta al mondo con Crocodile, Kim Ki-duk ha viaggiato ad un ritmo vertiginoso che lui stesso sottolinea in Arirang (2011): “appena ero in fase di post-produzione stavo già scrivendo il film successivo”, il che lo ha portato all’invidiabile quantitativo di 15 film in 12 anni. Poi che è successo? È successo che nel 2008, durante la lavorazione di Dream, un’attrice rischia di lasciarci le penne sotto gli occhi del cineasta, Kim corre in aiuto e salva la donna ma non riesce a salvare se stesso da una depressione esistenziale e creativa. Abbandonato e tradito dai suoi collaboratori, il regista si ritira in una catapecchia immersa nella neve, un eremo lontano dalla civiltà.
Arirang, che prende il nome di una litania coreana, si muove dalla fiction che ha sempre caratterizzato la carriera kimmiana per farsi documentario, checché ne dica lo stesso regista che la definisce opera drammatica se non fantastica a piacimento di chi guarda.
Il film è documento pragmatico che spazza tutto il lirismo di una filmografia, niente macchine da presa, niente che riguardi la normale genesi di un film che in media conterebbe trenta o quaranta persone, ma solo una videocamera digitale e l’uomo-Kim che, lo si nota subito, rispetto a quel che era quando riceveva premi e riconoscimenti nei vari festival sembra un’altra persona, spettinato, in disordine, abbruttito dal tempo, vestito male, trasandato, ubriaco.
E tutto questo lo si comprende nell’incipit silenzioso che tratteggia la cornice del quadro: una baracca, un uomo e un gatto. I problemi germogliano nel momento stesso in cui il protagonista pronuncia due parole un tempo così famigliari, ready… action!, e da qui parte un soliloquio spossante di risibile entità.
Nonostante aspetti interessanti come quello che ci offre di carpire la sensibilità dietro alla figura di successo, o all’escamotage di suddividere diegeticamente la propria personalità in una piagnucolosa e in una accusatoria, quel che rimane è un signore che palesa problemi sì gravi, ma per nulla interessanti, soprattutto se la pulsione scopica sarebbe rivolta verso l’argomento cinema che viene toccato solo in alcuni punti visto che Kim preferisce abbandonarsi ad un flusso di coscienza in cui lo stesso ammette candidamente di non raccapezzarcisi più. E allora si sprofonda in una filosofia spicciola che palesa un’aridità argomentativa specchio impietoso delle ultime prove registiche, almeno le ultime tre, del coreano.
Più che altro, con l’inoltrarsi della visione, si insinua il dubbio che l’operazione abbia un intento commiserativo, eppure di fronte a frasi del tipo “non mi importa se parlano male di me, io voglio fare solo un film”, il sentimento che scaturisce non è certo di pietà perché la compassione difficilmente si rivolge ad una persona benestante, e non dico ricca perché volo basso, che vive apparentemente come un homeless, ed anche se viene accettata la condizione, quando lo si vede sbraitare contro chissacchi (contro di lui?), o cantare a squarciagola la nenia del titolo, subentra una tangibile indifferenza che non si smuove né di fronte all’apice del film, Kim che si riguarda nella scena conclusiva di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), né nel finale in cui si compie il suicidio artistico: pistolettate sui set dei film precedenti.
Se è vero che la speranza muore per ultima, ci auguriamo che Arirang, il cui significato è riconducibile anche all’orografia delle colline, rappresenti il punto più basso nella storia di Kim Ki-duk, così basso che una volta toccato il fondo resta solo che risalire.
Amen ci dirà se potremo parlare di un’auspicata resurrezione, o di un irrevocabile de profundis.
Arirang, che prende il nome di una litania coreana, si muove dalla fiction che ha sempre caratterizzato la carriera kimmiana per farsi documentario, checché ne dica lo stesso regista che la definisce opera drammatica se non fantastica a piacimento di chi guarda.
Il film è documento pragmatico che spazza tutto il lirismo di una filmografia, niente macchine da presa, niente che riguardi la normale genesi di un film che in media conterebbe trenta o quaranta persone, ma solo una videocamera digitale e l’uomo-Kim che, lo si nota subito, rispetto a quel che era quando riceveva premi e riconoscimenti nei vari festival sembra un’altra persona, spettinato, in disordine, abbruttito dal tempo, vestito male, trasandato, ubriaco.
E tutto questo lo si comprende nell’incipit silenzioso che tratteggia la cornice del quadro: una baracca, un uomo e un gatto. I problemi germogliano nel momento stesso in cui il protagonista pronuncia due parole un tempo così famigliari, ready… action!, e da qui parte un soliloquio spossante di risibile entità.
Nonostante aspetti interessanti come quello che ci offre di carpire la sensibilità dietro alla figura di successo, o all’escamotage di suddividere diegeticamente la propria personalità in una piagnucolosa e in una accusatoria, quel che rimane è un signore che palesa problemi sì gravi, ma per nulla interessanti, soprattutto se la pulsione scopica sarebbe rivolta verso l’argomento cinema che viene toccato solo in alcuni punti visto che Kim preferisce abbandonarsi ad un flusso di coscienza in cui lo stesso ammette candidamente di non raccapezzarcisi più. E allora si sprofonda in una filosofia spicciola che palesa un’aridità argomentativa specchio impietoso delle ultime prove registiche, almeno le ultime tre, del coreano.
Più che altro, con l’inoltrarsi della visione, si insinua il dubbio che l’operazione abbia un intento commiserativo, eppure di fronte a frasi del tipo “non mi importa se parlano male di me, io voglio fare solo un film”, il sentimento che scaturisce non è certo di pietà perché la compassione difficilmente si rivolge ad una persona benestante, e non dico ricca perché volo basso, che vive apparentemente come un homeless, ed anche se viene accettata la condizione, quando lo si vede sbraitare contro chissacchi (contro di lui?), o cantare a squarciagola la nenia del titolo, subentra una tangibile indifferenza che non si smuove né di fronte all’apice del film, Kim che si riguarda nella scena conclusiva di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), né nel finale in cui si compie il suicidio artistico: pistolettate sui set dei film precedenti.
Se è vero che la speranza muore per ultima, ci auguriamo che Arirang, il cui significato è riconducibile anche all’orografia delle colline, rappresenti il punto più basso nella storia di Kim Ki-duk, così basso che una volta toccato il fondo resta solo che risalire.
Amen ci dirà se potremo parlare di un’auspicata resurrezione, o di un irrevocabile de profundis.