Se qualcuno non ha chiaro il ragionamento del sottoscritto posso fornire una prova empirica: perché dentro Sweetgrass c’è una piccola parentesi di deragliamento percettivo, accade verso il sessantesimo minuto con l’arrivo della notte, la risoluzione video si abbassa, il quadro si riempie di ombre, ovine o umane poco cambia, l’oscurità prende il largo e delle luci, di un fuoco o di una torcia, eruttano dal nero, in un campo lunghissimo l’attacco di un orso, non si vede l’animale ma solo le sue pupille al cospetto di un’altra costellazione mobile: quelle delle pecore, la scena, seppur ammantata nel buio, è abbastanza di facile lettura eppure la sensazione di oltrepassare una certa trincea razionale permane, non è un momento bensì IL momento che da umile spettatore bramo, Leviathan sarà praticamente tutto così, qui si ha soltanto questo segmento capace di strappare la cortina documentaristica, non è molto ma ci si può accontentare anche perché il resto si articola in un’impostazione ampiamente sufficiente che a lungo andare riesce perfino a toccare qualche sfumatura personale dei mandriani (divertente una telefonata con la madre lontana), oltre ovviamente a persistere nel cuore argomentativo nonché estetico della pellicola: la migrazione verso il pascolo estivo. Se vogliamo essere buoni la lenta traversata di valle in valle (ho letto di un viaggio lungo oltre duecento chilometri) ha una sua epicità (per un fattore congenito e perché non ce ne sarà un’altra dopo), la narrazione concreta, selvatica e diretta che ne risulta si riversa nel nostro recipiente, quello che chiediamo di riempire ad ogni nuova visione, senza tracimare.
venerdì 28 aprile 2023
Sweetgrass
martedì 25 aprile 2023
Single Belief
Credo sia impossibile visionare Single Belief (al pari delle altre fatiche di LK-s) e non pensare all’autorialità di Ming-liang, cioè è proprio istintivo: il cortometraggio inizia e c’è Lee da un barbiere che dorme sulla sedia, è un’immagine che trasuda tsaianità da ogni pixel, e anche nel prosieguo la linea visiva tallona le coordinate del Maestro, soprattutto le più recenti riguardanti il ciclo del monaco errante di Walker (2012) ed episodi successivi, ovvero porre un soggetto alieno dentro ad un ambiente reale (qua Lee, sempre immobile, sfoggia un invidiabile completo che possono mettere solo gli sposi o i gangster giapponesi). Si crea un contrasto, netto e ragionato, che in Single Belief sottende un senso autoriflessivo, un ragionare su di sé e sulla lunga carriera alle spalle, un certificarsi in quanto presenza fisica nella folla (/gli spettatori) che passa, incurante, appena appena incuriosita: esserci, ancora. E, nuovamente guardando all’arte del mentore nato in Malesia, Lee lancia un monito nel quale suggerisce di prendersela con calma, di gustarsi le cose, di non avere fretta, e lo dice con un’ironia che è un toccasana. Il cantare e suonarsela di Lee (“io sono Lee Kang-sheng e continuerò a camminare seguendo il mio ritmo”) è fatto di un’amabile leggerezza, la confessione cine-personale, importante in relazione alla porzione di storia contemporanea scritta da Tsai, è piacevole e nient’affatto vacua.
venerdì 21 aprile 2023
Casa Encantada
Data la tendenza nel maneggiare il passato, Casa Encantada ha un discreto feeling con l’unica altra pellicola di Alves che non ha case nel proprio nome: O Regresso (2012), la differenza che tuttavia intercorre tra le due proposte, ed è una differenza notevole, sta tutta nel metodo espositivo. Nel film del 2018 non c’è quell’immediatezza che ti fa intuire dell’immenso scorrere del Tempo, Alves appare maggiormente interessato agli aspetti estetici e alla sostenibilità che possiedono in relazione al comparto narrativo, azione legittima che però ha delle conseguenze. Girando intorno ad un unico macro-tema (il luna park), ogni voce che ascoltiamo va a ricadere lì con briciole di avvertibile forzatura, nulla di realmente insostenibile, lo voglio sottolineare, ma, come dire, pur avendo compreso (o abbastanza compreso) i contorni del progetto, non si viene trascinati dal flusso mnemonico, l’operazione nel complesso rimane piuttosto ancorata ad una dimensione laboratoriale dove il regista ha voluto sondare delle vie di trasmissione da lui inesplorate, quella – presumo – ricerca di mormorii ectoplasmici, di consessi d’altre vite, resta oltre uno spesso vetro che non permette di fare un reciproco passo avanti, vediamo cose belle, ma non riusciamo a sentirle.
martedì 18 aprile 2023
Cat Effekt
Quindi, non proverò a dare un senso (alzo il dito solo per il ragazzo con il libro, ciò che sta leggendo è il film stesso?), preferisco mettermi buono buono nella scia di immagini che Jahn & Dullius costruiscono intorno alla donna, un mosaico che sa di sogno (un passante a caso urla “sveglia!” come il cowboy di Mulholland Drive, 2001) perché un’impostazione del genere, così stralunata, così incorporea, pare provenire, e/o dirigersi, in una dimensione onirica, e l’impressione si accentua per una serie di reiterazioni, di scene gemelle che si ripetono in un loop lisergico. La disintegrazione di una narrazione canonica è assolutamente ben accetta, il non voler raccontare nulla pur arrivando, inevitabilmente, a raccontare lo è ancora di più, perché si manifesta un’efficacia che rovescia i parametri del comune fruire, i registi potevano fare un film con una protagonista in cerca di se stessa nella grande metropoli moscovita, circondata da personaggi un filo inquietanti, impelagata in una vuota quotidianità, e in effetti hanno fatto proprio questo, solo che non si sono serviti di una banale addizione algebrica ma hanno sconquassato l’etichetta giungendo comunque ad un risultato che, se trova terreno fertile in chi guarda, apertura, voglia di misurarsi con l’alterità, lascia dei residui su cui riflettere, non tanto sull’opera in sé quanto sul metodo che la forgia.
giovedì 13 aprile 2023
Zafir
E comunque
Zafir un minuscolo pregio ce
l’ha, ed è ubicato nella sceneggiatura. Vedendo le amorevoli cure
dell’anziano marito nei riguardi della moglie disabile, mi sono
venuti in mente altri film che proponevano la storia problematica di
un rapporto coniugale in età avanzata, non molti a dir la verità,
ma sicuramente almeno tre: un corticino cipriota dal titolo Dead End (2013), un lungometraggio
islandese (Volcano,
2011) e un’opera asciutta e rigorosa come Amour
(2012), ebbene, tale triade ha in comune la scelta di concludersi con
un atto funereo (ed è di dominio pubblico il fatto che Rúnarsson e
Haneke abbiano usato il medesimo escamotage per la catarsi luttuosa),
una tendenza che vuole creare shock nello spettatore e che il
sottoscritto, soprattutto crescendo
invecchiando, non
riesce a digerire. Per cui temevo che anche El Zohairy si accodasse
al trend, c’erano i presupposti per dare al preambolo un gratuito
scioglimento mortuario, giuro, me lo sono aspettato fino all’ultima
ripresa di spalle dell’uomo, invece mi sbagliavo, per fortuna
quella che potrebbe essere definita una tensione non ha sfogo, o
perlomeno non ce l’ha sullo schermo, il che vale al regista nato al
Cairo una mini medaglia che gli appunto al petto, da lui, ora,
attendo qualcosa di più sostanzioso.
sabato 8 aprile 2023
The Seen and Unseen
A fronte degli aspetti sopra elencati che è difficile non considerare come positivi, il lavoro della Andini non mi ha persuaso in toto. Di opere indonesiane, se non erro, ne ho viste solo due, questa e Another Trip to the Moon (2015), casualmente, sebbene stiamo parlando di oggetti abbastanza diversi, per entrambi vale un po’ il discorso che tocca il passato cinefilo di noi spettatori. Se si è a digiuno di proiezioni dall’impostazione assimilabile a Sekala Niskala allora è probabile che la mia riflessione non abbia senso di esistere, se invece è già maturata una certa esperienza nell’ambito di riferimento è complicato lasciarsi andare ad elogi sperticati. Vorrei entrare nella questione per me fondamentale: l’alterità citata all’inizio. È incontrovertibile che essa ci sia e che funzioni da cuore palpitante della storia, mi chiedo però se la cornice esotica, ritualista, incorporea, in una parola banalizzante: diversa, a furia di ripresentarsi nel cinema contemporaneo non stia perdendo la posizione antitetica alla nostra, cioè è ancora un momento altro-da-noi l’assistere a pellicole del genere? Non discuto la fattualità del concreto, camminare in un tempio pullulante di scimmiette non sarà mai uguale al passeggiare nel silenzio di una chiesa rinascimentale, parlo di settima arte, delle modalità con cui la si vive e dei sentimenti che ne scaturiscono, e seguendo tale ragionamento in The Seen and Unseen mi è sembrato che un pilota automatico ne guidasse l’incedere verso un intero confezionato ad hoc per l’Occidente, sotto la fantasia e l’originalità mi si è profilato uno schema, un adagiarsi su elementi già esplorati nel passato recente. Non so, sarebbe arricchente se da qui ne nascesse un contraddittorio, dieci anni fa sarebbe successo. Che nostalgia.
martedì 4 aprile 2023
Violence Voyager
A livello tramico le cose subiscono una semplificazione, il che parrebbe un dato migliorativo ma... non è così. Almeno in The Burning Buddha Man nel delirio che mescolava sacro e profano ci si “divertiva” a vedere quali fossero le fantasiose soluzioni adottate dal regista nel modellare il design degli innumerevoli protagonisti, qui, con una partenza dagli echi kinghiani (dei ragazzini all’avventura che finiscono in un misterioso parco giochi), si finisce a ricalcare una robetta di serie z con il mad doctor di turno e le sue mire pazzoidi. Sorvolo sul fatto che le strutture delle due pellicole sono identiche, ambedue si concludono con un blitz del buono trasformato nell’antro del cattivo, e, anche se non lo vorrei, mi concentro su Violence Voyager: spiacente, non riesco a salvare nulla, il film non funziona né se lo si legge nel suo dispiegarsi narrativo perché è una roba, senza offesa, da fumetto un tanto al chilo, né se lo si interpreta da una prospettiva parodistica e/o citazionistica perché si prende troppo sul serio, magari con qualche innervatura d’ironia la nave non sarebbe andata a picco. Che l’atmosfera para-violenta, sordida (ci sono dei bambini uccisi di mezzo), infarcita di parentesi splatter e schifezze assortite (ancora una particolare cura verso vomito et similia) possa venire erta dagli ammiratori di Ujicha a sua difesa, è un atto che ha il sapore del mezzuccio, d’altronde la vecchia regola aurea è: più si esibisce e più si scade nella gratuità, se qualcuno ha apprezzato io alzo le mani, per me è solo un brutto pasticcio.