Credo sia impossibile visionare Single Belief (al pari delle altre fatiche di LK-s) e non pensare all’autorialità di Ming-liang, cioè è proprio istintivo: il cortometraggio inizia e c’è Lee da un barbiere che dorme sulla sedia, è un’immagine che trasuda tsaianità da ogni pixel, e anche nel prosieguo la linea visiva tallona le coordinate del Maestro, soprattutto le più recenti riguardanti il ciclo del monaco errante di Walker (2012) ed episodi successivi, ovvero porre un soggetto alieno dentro ad un ambiente reale (qua Lee, sempre immobile, sfoggia un invidiabile completo che possono mettere solo gli sposi o i gangster giapponesi). Si crea un contrasto, netto e ragionato, che in Single Belief sottende un senso autoriflessivo, un ragionare su di sé e sulla lunga carriera alle spalle, un certificarsi in quanto presenza fisica nella folla (/gli spettatori) che passa, incurante, appena appena incuriosita: esserci, ancora. E, nuovamente guardando all’arte del mentore nato in Malesia, Lee lancia un monito nel quale suggerisce di prendersela con calma, di gustarsi le cose, di non avere fretta, e lo dice con un’ironia che è un toccasana. Il cantare e suonarsela di Lee (“io sono Lee Kang-sheng e continuerò a camminare seguendo il mio ritmo”) è fatto di un’amabile leggerezza, la confessione cine-personale, importante in relazione alla porzione di storia contemporanea scritta da Tsai, è piacevole e nient’affatto vacua.
povera sanità pubblica
1 ora fa
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