martedì 25 aprile 2023

Single Belief

Avevo dimenticato che Lee Kang-sheng fosse anche un regista, così, alla luce di Single Belief (2016), sono andato a vedere cosa scrissi oltre dieci anni fa a proposito di The Missing (2003) e Help Me Eros (2007), e a parte il solito, terribile, imbarazzo nel rileggersi, ho notato che per parlare dei due film mi ero agganciato (forse anche in maniera un po’ forzata) ad altrettante opere coeve di Tsai Ming-liang. Adesso per questo corto non solo forzo, ma azzardo alla cieca. La mia ipotesi è la seguente: nel 2015 Tsai ha girato Afternoon, un documentario che non ho visto (da qui l’ardito collegamento) ma di cui ho letto parecchio, si tratta, in stretta sintesi, di un lavoro introspettivo dove il sommo regista taiwanese conversa con il fidato Lee del suo cinema. Magari sbaglierò, però a premesse del genere mi è venuto spontaneo considerare Single Belief un appendice di Afternoon, come se anche Kang-sheng avesse voluto compiere una riflessione su di sé e sul ruolo che per così tanto ha ricoperto. E infatti assistiamo ad un monologo che con divertente serietà guarda al passato, se ho ben compreso Lee si fa immortalare in un luogo di Taipei che nel tempo ha subito diverse trasformazioni e che per lui ha un significato affettivo nonché esistenziale: fu lì che la sua vita cambiò perché proprio lì Tsai filmò Rebels of the Neon God (1992), il Big Bang dell’universo tsaiano.

Credo sia impossibile visionare Single Belief (al pari delle altre fatiche di LK-s) e non pensare all’autorialità di Ming-liang, cioè è proprio istintivo: il cortometraggio inizia e c’è Lee da un barbiere che dorme sulla sedia, è un’immagine che trasuda tsaianità da ogni pixel, e anche nel prosieguo la linea visiva tallona le coordinate del Maestro, soprattutto le più recenti riguardanti il ciclo del monaco errante di Walker (2012) ed episodi successivi, ovvero porre un soggetto alieno dentro ad un ambiente reale (qua Lee, sempre immobile, sfoggia un invidiabile completo che possono mettere solo gli sposi o i gangster giapponesi). Si crea un contrasto, netto e ragionato, che in Single Belief sottende un senso autoriflessivo, un ragionare su di sé e sulla lunga carriera alle spalle, un certificarsi in quanto presenza fisica nella folla (/gli spettatori) che passa, incurante, appena appena incuriosita: esserci, ancora. E, nuovamente guardando all’arte del mentore nato in Malesia, Lee lancia un monito nel quale suggerisce di prendersela con calma, di gustarsi le cose, di non avere fretta, e lo dice con un’ironia che è un toccasana. Il cantare e suonarsela di Lee (“io sono Lee Kang-sheng e continuerò a camminare seguendo il mio ritmo”) è fatto di un’amabile leggerezza, la confessione cine-personale, importante in relazione alla porzione di storia contemporanea scritta da Tsai, è piacevole e nient’affatto vacua.

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